Memoria per i Cavalieri di Cristo

2 09 2019

Dedicato a Temple

Là non esiste né giorno né notte, là il tempo si è fermato ed esiste solo il dominio dell’eternità. I due cavalieri continueranno a cavalcare insieme per sempre perché eterno è ciò che rappresentano: il primato dello spirito e della nobiltà dell’animo su ogni nostra folle azione malvagia.

Temple Church – Londra

Il primato del coraggio e della tenacia anche sulla morte e la distruzione. Sono ancora là a cavalcare insieme nel luogo sacro del Tempio tra i loro compagni.

Di Filippo il Bello non è rimasto che il suo sepolcro di dannato e le sue ossa risorgeranno solo per la Geenna, ma loro, loro sono ancora là, tutti vivi, a testimoniare con Ugo de Payns, Gualdim Pais, Guglielmo il Maresciallo

che così sarà per sempre e il valore dell’amicizia e del coraggio, della bellezza e del bene potrà essere oscurato e anche ucciso, ma risorgerà sempre e il male non vincerà mai. Sarà sepolto e cancellato nel gorgo della sua stessa folle illusione di onnipotenza.

Chi visse per gli altri e non per se stesso, chi accumula tesori nel suo cuore e non nelle sue mani, questi vivrà in eterno.
Non nobis, Domine, non nobis sed nomini tuo da gloriam



CUPRESSI Carmina in memoriam LUDOVICII II REGIS BAVARIAE

7 02 2019

Questa è la mia traduzione dei Carmina di Karl Heinrich Ulrichs pubblicati nel 1887 in onore del re, come compianto per la sua prematura e tragica scomparsa. Ulrichs scrisse l’opera in gran parte a L’Aquila dove si era trasferito per sfuggire alle persecuzioni di cui era oggetto a causa della sua coraggiosa rivendicazione della propria omosessualità e della propria libertà di pensiero.

 

CUPRESSI

Carmina
in memoriam

LUDOVICII II REGIS BAVARIAE

13 Junii 1886


1.His, sine, me moestis tumulum redimire cupressis,
His hederae sertis cingere busta tibi!

Lascia
che io consoli il tumulo con questi mesti cipressi,
con queste corone di edera lascia che io cinga per te i simulacri!


2.PAX FUIT UNDA TIlBI. SUBLIMIA MENTE TULISTI. TE SEQUITUR PULCHRUM,
VICTURUM CARMINE, NOMEN.

 

L’ONDA
PER TE FU LA PACE. LE VISIONI SUBLIMI RECASTI NELLA MENTE.
TI SEGUE UN NOME GLORIOSO, DESTINATO AD ESSERE VITTORIOSO NELLA POESIA.

 


3. “Cur
 tam
dura tuli! Fatorum fulmine stratus
Occubui. Lacrimis ossa piate mea!”

 


Perché dovetti sopportare prove così dolorose! Caddi prostrato dal
fulmine dei fati. Con le lacrime consolate le mie ossa!

 

 

 

4. Caerulei fuerat tibi porta suprema salutis Unda lacus. Illic patuit
tibi janua pacis.
E’ stato per te il passaggio supremo della salvezza
l’onda del lago azzurro. Là si aprì per te la porta della
pace.


5. Undis aeternum, rumpens tua vincula, somnum
Quaeris et indomitus conculcas sub pede fatum.


Spezzando le tue catene, il sonno eterno nell’onde
cerchi e indomito calpesti sotto il piede il fato.

6.
“Rex fueram
!
Nec ero rex umbra!” Meare
sub umbras: Hoc decet. Indignans regna tremenda petis
.


“Sono stato re! Non sarò mai l’ombra di un re (un re ombra)!”
Andare alle ombre: questo ormai conviene. Furente di sdegno, ricerchi i
regni terribili.


Murmurat unda canens. Sonat, et sua littora pulsans
Volvitur ad flexas leni cum carmine ripas.
Murmurat unda QUIES. REQUIES levis unda susurrat.
Num fortasse tibi sua mollia murmura fundit?
Spuma sonans crispis allabitur alba coronis,
De tacito cantans somno mitique sopore.
Stat lacus ex alto fulgens et ab aethere tinctus,
Caeruleo condens arcana silentia velo.
Nansque lacu, liquidis canit humida Nais in undis:
HIC EST PAX. Canit unda: VENI! Audisne? VENITO!
HIC PATET AD LETHES OBLIVIA JANUA CORDI.
HIC SUB AQUIS ITER EST. Audisti. Caerula linter
Ad libertatem sic fuit unda tibi.”

Mormora
l’onda cantando. risuona e le  sue
sponde battendo rivolge alle ricurve rive con lieve canto
Mormora l’onda Quiete. Riposa sussurra la lieve onda.
Forse per te riversa i suoi dolci mormorii?
La spuma bianca risuonante si insinua piano con ondeggianti corone,
cantando del tacito sonno e del mite torpore.
Sta immobile il lago, rifulgendo dalle cime, tinto del colore del cielo,
nascondendo dietro un ceruleo velo arcani silenzi.
Fluttuando nel lago canta un’umida Naiade nelle liquide onde:
“Qui è la pace.” Canta l’onda:  “Vieni!” Hai sentito? “Andiamo!”
“Qui si apre al cuore la porta agli oblii del Lete.
Qui sotto le acque è la via.” Ascoltasti.
Navicella azzurra verso la libertà così fu per te l’onda.

7.
Castellum Hohenschwangau.

In
penetrale tuum penetrant sceptrumque paternum Extorquent tibi, Rex,
manibus.
Qui sceptra gerebat, Qui modo cinctus erat diademate, cingit eundem
Nunc vigilum sepes. Tua corda fidelia cuncta
Eripuere tibi. Quo prostravere frementem! Nescit septa pati sentitque
latentia frena. “Jam captivus ero ? Torquent mihi sub juga collum?
Me credunt, me, frena pati ? Docilem fore sperant?” Frenduit in
dentes, expalluit ingemuitque. Tunc gemitus omnes quassato pectore
claudit. “Non erit ulla mihi, non erit ulla salus?”

Il
Castello di Hohenschwangau

Nel
tuo interno più recondito penetrano e strappano a te dalle mani, o re,
lo scettro paterno.
Colui che sosteneva il regno, colui che era cinto del diadema, ora una
schiera di sorveglianti imprigiona.
Hanno rapito a te tutti i tuoi cuori fedeli.
Come ti hanno abbattuto, fremente!
Non sa sopportare le barriere e percepisce le catene nascoste. “Dunque
sarò prigioniero
?
Costringono il mio collo sotto il giogo?
Sperano che sarò docile?
Batte i denti , impallidìsce e geme.
Infine tutti i gemiti racchiude nel petto tormentato: “Non ci sarà
per me, non ci sarà per me alcuna salvezza?”

9.
Ultimum matri

Ultimum
salve tibi dicit ejus Naïs. Haec pax est cecinit sub undis; Haec et
extremus gemitus valeque audiit ejus.

L’ultimo
canto alla madre

 

L’ultimo
saluto ti dice la sua Naiade. “Questa è la pace” cantò sotto le
onde. Queste parole e i suoi estremi lamenti udì e l’addio.

Tectum
paternum de quo loquor st villa Westerfeld in Frisia. Ex his carminibus
duodecimum est quies, ultra Alpes connexui, iam anno 1879, cetera hoc
ipso anno 1886 citra illa, sub coelo Italiae, hic, ut alio loco dixi

UBI
SACRA MIRTUS

 

GERMINAT
SERTISQUE VIRET RACEMUS,

 

HIC
UBI FULGENS PATET ALTUS AETHER

 

INTUENS
MARMOR VETUS ET RUINAS

 

DORICAS
CINCTAS HEDERA COLUMNAS

 

TEMPLAQUE
VESTAE

 

Aquilae
ad flumen Aternum, inter montes scopulosque Appennini mense Dec 1886.

Carlo
Arrigo Ulrichs

l
tetto paterno di cui parlo è il villaggio di Westerfeld in Frisia. Di
questi canti il dodicesimo “Est Quies” lo composi al di là delle
Alpi già nell’anno 1879, gli altri, al di qua di quelle (le Alpi)
questo stesso anno 1886, sotto il cielo d’Italia, qui, come ho detto
in altro luogo:

 

 

DOVE IL SACRO MIRTO GERMOGLIA E IN SERTI
VERDEGGIA LA VITE

QUI DOVE SPLENDENTE SI APRE L’ALTO CIELO,
CONTEMPLANDO IL MARMO ANTICO E LE ROVINE,

LE DORICHE COLONNE CINTE DI EDERA E I TEMPLI DI VESTA.

L’Aquila, presso il fiume Aterno, tra i monti e le rupi
dell’Appennino, Dicembre 1886.
Carlo Arrigo Ulrichs

 

 

 

 

 



Il tuo ultimo sguardo sull’Africa

12 07 2017

 

 

Continuo a pensare a questo film criticatissimo e fischiato a Cannes, che non si tiene insieme tra scene d’amore disperato, ma hollywoodiano, e vita dei medici di frontiera in mezzo a sangue e atrocità di ogni genere. Il fatto è che forse nella mente di Sean Penn questo film non poteva e non doveva reggere, perché doveva delineare la distanza incolmabile tra un’Africa involuta su se stessa, in una spirale di violenza e povertà senza fine e l’Occidente che chiude semplicemente gli occhi sulle proprie responsabilità e si limita a gestire le emergenze. Chi tenta di fare qualcosa, come i due protagonisti, in ambiti diversi, potrà diventare solo uno dei tanti inutili martiri dei fronti di guerra oppure verrà risucchiato dalle mille iniziative benefiche che rappresentano semplicemente dei palliativi rispetto all’assenza di decisioni politiche ed economiche a livello planetario. Due facce della stessa medaglia, armati di tanta buona volontà, ma che appaiono fuori luogo, come se con un cucchiaino da caffé si cercasse di svuotare l’oceano… I paesaggi africani bellissimi e crudeli come la natura fanno da sfondo dissonante e complementare all’orrore di cui gli uomini si rivelano capaci. La sensazione di impotenza fa semplicemente fuggire via. Chi, invece, vorrà restare a vivere in Africa e non andarsene, rinunciando, in un certo senso, alla propria vita da occidentale, subirà inevitabilmente la stessa sorte della popolazione martoriata.



L’Innominato di Branciaroli – La fede è sempre una lotta

2 09 2016

Al Meeting di Rimini 2016 la sera del 23 agosto, un’interpretazione superlativa di Franco Branciaroli della Notte dell’Innominato e della sua conversione, una lettura toccante, dalle mille sfumature che ha suscitato in un intenso crescendo la commozione generale. Nel finale alcuni secondi interminabili di silenzio del pubblico esterrefatto e poi è esplosa meritatamente l’ovazione dalla platea sold out. E pensare che durante l’intervista precedente lo spettacolo il Nostro non sembrava molto convinto della riuscita dello spettacolo, rimarcando il fatto che la scelta del testo manzoniano non era partita da lui. Non ce ne voglia il Maestro, ma, visto l’eccezionale risultato, speriamo in altre simili imposizioni!

 

Leggi l’intervista a Franco Branciaroli cliccando sull’immagine

Anche i prof a scuola quando leggono il Manzoni dovrebbero ricordarsi di queste considerazioni di Branciaroli, invece di preoccuparsi solo che i ragazzi non usino i bigini. Naturalmente il filmato si riferisce ad un altro evento, ma comunque a partire da 3.47 si può intuire qualcosa della bellezza di questa lettura.



Per far capire questo grande autore bisogna renderlo vivo, come Branciaroli ha fatto allo spettacolo del Meeting, e questo vale non solo per la notte dell’Innominato, ma anche per molte considerazioni storiche e sociali contenute nel romanzo e di grande attualità. Eccezionale è la visione del cristianesimo da cui si può solo imparare, tratteggiata sul modello di San Filippo Neri e del Francescanesimo seicentesco, con le sue opere sociali e di assistenza. Un capitolo a parte, poi, è il rapporto con i luoghi manzoniani, che consiglio a tutti di visitare, perché attraverso di essi il romanzo assume un’altra prospettiva. Scoprire, per esempio, che la salita al castello dell’Innominato è in realtà una antica Via Crucis punteggiata di cappelle votive e che, arrivati quasi in cima, si trova una scala santa che porta all’eremo di San Girolamo Emiliani, un santo vissuto in quei luoghi nel ‘600 il quale viveva poveramente dedicandosi al soccorso degli emarginati e dei sofferenti, fa capire molte cose… Così come scoprire che la storia delle intimidazioni ad un prete per non far celebrare un matrimonio riguardava non un nobile qualunque, ma un antenato dello stesso Manzoni, ci fa capire che il grande scrittore, raccontando di Don Rodrigo, era ben consapevole di non parlare del male di altri ma di quello che può esistere in tutti noi… La grande capacità del Manzoni, poi, è di rendere vivo il Vangelo attraverso le azioni e le parole semplici del romanzo. “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia” ci fa pensare al buon ladrone, per il quale un atto di misericordia disinteressato, insieme al riconoscimento dei propri errori, ha voluto dire la salvezza…

 



LUDWIG II e EDGAR ALLAN POE – PERSONALITA’ PARALLELE

15 02 2016

Perché il re di Baviera

si riconosceva nella
personalità

del grande giornalista e
scrittore americano

 Il ricordo del
giornalista Lew Vanderpoole

apparso sul “Lippincott’s
Monthly Magazine” nel 1886

dopo la morte del sovrano

(traduzione a cura di Rossana
Cerretti)

 

 

 

Louis_II_25.8.1845_-_13.6.1886_King_of_Bavaria_10.3.1864_-_13.6.1886_portrait_wood_engraving_by_Adolf_Neumann_circa_1875

LUDWIG OF BAVARIA: a personal reminiscence

The adjustment of the estates of three of my French ancestors, who died in Rouen about eight years ago, necessitated my going to Bavaria. As the three deaths, being almost simultaneous, resulted in unprecedented complications, it was manifest, from the very first, that audience must be had with the Bavarian king. So, in leaving France, I bore with me, to Ludwig, a letter of introduction from M. Gambetta, which fully explained my mission and requested the king to facilitate my endeavors as far as possible. Arriving in Munich, I sent my letter to his royal highness, expecting, of course, to be turned over to the tender mercies of some deputy, after his usual custom. To my surprise, Gambetta’s letter resulted in my being requested to wait upon the king at the royal palace the next morning at ten o’clock. Punctual to the second, I was shown into a
beautifully-decorated sitting- room, where the monarch joined me after a brief delay.
To others he may have always been brusque, morose, and taciturn, but no one could have been more affable and gracious than he was that morning. He examined my papers with the most courteous interest, and weighed the whole matter with as much thoughtful consideration as if it had been something of vital concern to him. Waiving several Bavarian customs, for my convenience, and setting me straight in every possible direction, he was about ending the interview, when he suddenly caught sight of something which prolonged my audience with him for two of the most delightful hours which were ever owed to royal clemency. Leaving France, as I did, a day earlier than I had intended, in my haste I accidentally packed with my legal documents the proof-sheets of a paper which I had been writing for Figaro on Edgar Allan Poe. The proofs were left unnoticed with the other papers until the whole package was opened and spread out on the king’s table. Until then his manner had been quiet and gentle, almost to effeminacy; but the moment he saw Poe’s name be became all eagerness and animation. His magnificent eyes lit up, his lips quivered, his cheeks glowed, and his whole face was beaming and radiant.

“Is it a personal account of him?” he asked. “Did you know Poe? Of course you did not, though: you are too young. I cannot tell you how disappointed I am. Just for a moment I thought I was in the presence of someone who had actually known that most wonderful of all writers, and who could, accordingly, tell me something definite and authentic about his inner life. To me he was the greatest man ever born, -greatest in every particular. But, like many rare gems, he was fated to have his brilliancy tarnished and marred by constant clashings and chafings against common stone. How he must have suffered under the coarse, mean indignities which the world heaped on him ! And what harsh, heartless things were said of him when death had dulled the sharpness of his trenchant pen ! You will better understand my enthusiasm when I tell you that I would sacrifice my right to my royal crown to have him on earth for a single hour, if in that hour he would unbosom to me those rare and exquisite thoughts and feelings which so manifestly were the major part of his life.”
His voice softened into a low monotone – almost a wail – as he approached the end of his sentence, and his head kept settling forward until his chin rested upon his breast. He kept this attitude, in dead silence, for several minutes, his face wearing an expression of the most intense sorrow. Suddenly arousing himself, he glanced at me in startled surprise, as if he had for the moment forgotten my presence. Then his eyes beamed pleasantly, and he laughed-clear, merry, ringing laugh-at being caught in a day-dream.

“Will you be good enough to let me read, what you have written?” he asked. “I see that it is in French, the only language I know except my own.”
I handed him the proofs, and watched him as he read them. As the paper was chatty and gossipy, rather than critical, he seemed to enjoy it.

 

“I see by this that you, also, are fond of Poe,” he said, handing the proofs back to me; “and so I will tell you of a little fancy which I have cherished ever since I first began reading the works of your great fellow-American. At first, because of my respect for his genius and greatness, the lightest thought of what I am going to tell you would make my cheeks burn with shame at my presumption. After a time, I would occasionally write out my fancy, only to burn it, always, as soon as finished. Eventually I confided it to two trusted and valued friends; and now, in some unaccountably strange way, moved, perhaps, by the sympathy born of our common interest in Poe, I am going to take you into my confidence in this particular, stranger though you are. What I have to say is this : I believe, for reasons which I will give you, that there is a distinct parallel between Poe’s nature and mine. Do not be misled by assuming that I mean more than I have said. I but compared our natures: beyond that the parallel does not hold. Poe had both genius and greatness.
I have neither. He had, also, force and strength, so much of both that he could defy the world, sensitive and shrinking as he was. That I never can do. Not that I am a coward, as the word is generally understood, because pain and death can neither shake nor terrify me. Yet any contact with the world hurts me. The same as Poe’s, my nature is abnormally sensitive.

 

Injuries wound me so deeply that I cannot resent them : they crush me, and I have no doubt that in time they will destroy me. Even the laceration my heart received from indignities which I suffered as a child are still uneffaceable. A sharp or prying glance from the eyes of a stranger, even though he be only same coarse peasant, will annoy me for hours; and a newspaper criticism occasions me endless torture and misery. The impressionable part of me seems to be as sensitive as a photographer’s plate : everything with which I come in contact stamps me indelibly with its proportions. My impulses, it can be no egotism to say, are generous and kindly; yet I never, in my whole life, have done an act of charity that the recipient did not in some way make me regret it. People disappoint me; life disappoints me. I meet some man with a fine face and fine manner, and believe in the sincerity of his smile. Just as I begin to feel certain of his lasting love and fidelity, I detect him in some act of treachery, or overhear him calling me a fool, or worse.”

 

 

Arising, he began to walk slowly up and down the room.
“Apparently,” he continued, after a brief silence, “there is no place in the economy of life except for one kind of man. If one would be respected, he must be coarse, harsh, and phlegmatic. Let him be anything else, and friends and foes alike unite in declaring him eccentric. Much as I despise the gross, sensual creatures who wear the form and receive the appellation of man, I sometimes regret that I am not more like them, and, so, more at ease. They plunge into excesses with no more concern than a duck feels in plunging into a lake. With me the thought, or rather the dread, that I may some day so far forget myself as to debase and degrade myself, according to the common custom of man, is in itself sufficient cause for the most excruciating torture. When I look upon men as they average and see the perfect nonchalance with which they commit this, that, or the other abuse from which I would recoil with utter repugnance, I wonder if, after all, they are not really to be envied.

My condition is as much of a puzzle to me as it possibly can be to you. Logically, there is no reason for it. My father and mother were neither abnormally sensitive nor excessively moral. So far as I am able to ascertain, they regarded things in life very much as every one else does. It was the same, I believe, with the parents of Poe. Things he has written prove to me that he felt the same disgust for whatever demoralizes that I have always felt, only he saw how the world would behave towards him if he did not seem in sanction and approve of its rottenness. I do not blame him. His way was wisest. Deceit is best in such a case, if it can only be
assumed.
With his sensitiveness were associated force and defiance,-two traits which I seriously lack. Perhaps, though, he could endure the world more easily than I can, because his childhood was less dreadful than mine. All through my infancy things were done which stung and wounded me. Not that I was treated more harshly than children commonly are, but because my nature was so unlike that of children in general that the things which never disturbed them were offensive to me. I soon learned that companionship meant pain, and that I could never know or feel anything like content unless I held myself aloof from every one. This, for a man, is hard enough to do; for a child it is next to impossible.


I was forced to subject myself to the will of harsh, unfeeling teachers, and to the society of those who, scarcely more than animals themselves, accredited me with no instincts finer than their own. Most of the studies thrust upon me seemed dull, stupid, and worthless: because they so jarred upon me that my understanding faculties were dulled and blunted with pain, I was declared half-witted. For hours I would sit and dream beautiful day-dreams; and that won for me similar epithets. It is a misfortune to be organized as I am; yet I am what I am because a stronger will and power than mine made me so. In that lie my sole solace and comfort for having lived at all. If my reading and observation have not been in the wrong direction, much of the phenomenon which is called insanity is really over-sensitiveness. It is often hinted, and sometimes openly declared, that I am a madman. Perhaps I am; but I doubt it. Insanity may be self-hiding. An insane man may be the only person on earth who is not aware of his insanity.

Of course I, for such reasons, may not be able to comprehend my own mental condition, except in an exaggerated and unnatural way. But I believe myself a rational being. That, though, may be proof of my insanity. Yet I doubt if any insane person could study and analyze himself as I have done and still do. I am simply out of tune with the majority of my race. I do not enter into man’s common pleasures, because they disgust me and would destroy me. Society hurts me, and I keep out of it. Women court me, and for my safety I avoid them. Were I a poet, I should be praised for saying these things in verse; but the gift of utterance is not mine, and so I am sneered at; scorned, and called a madman. Will God, when he summons me, adjudge me the same?”

 

With tearful eyes, he pressed my hand, smiled, and left the room. The learned doctors have already declared Ludwig of Bavaria insane, and kindlier judgment from those who loved him would very likely be counted wasted sympathy by the world.

Lew Vanderpoole

76652-004-60D7B595

LUDWIG DI BAVIERA: un
ricordo personale

La sistemazione delle
proprietà di tre dei miei antenati francesi, che erano morti a Rouen circa otto anni fa, ha reso necessaria la mia visita in Baviera. Visto che le tre morti, essendo state quasi simultanee, avevano determinato delle
complicazioni senza precedenti, era evidente, fin dall’inizio, che si doveva avere un’udienza con il re bavarese. Così, nel lasciare la Francia, portai con me, per Ludwig, una lettera di presentazione da parte di M. Gambetta, che ampiamente spiegava la mia missione e chiedeva al re di facilitare i miei sforzi, per quanto possibile. Arrivato a Monaco di Baviera, inviai la mia lettera a Sua Altezza Reale, in attesa, naturalmente, di essere consegnato alla discrezione
di qualche funzionario, secondo il suo usuale comportamento. Con mia grande sorpresa, la lettera di Gambetta sortì l’effetto che io fossi invitato ad attendere il re a Palazzo Reale la mattina seguente alle dieci. Puntuale al secondo, fui ammesso in un salottino finemente
arredato, dove il monarca mi raggiunse, dopo un breve ritardo.

Con altri egli può essere sempre stato brusco, cupo, e taciturno, ma quella mattina nessuno avrebbe potuto essere più affabile e gentile di lui. Esaminò i miei documenti con l’interesse più cortese, e pesava l’intera questione con la stessa considerazione pensierosa come se fosse stato qualcosa di importanza vitale per lui. Rinunciando a diverse consuetudini bavaresi, a mio vantaggio, e avendo messo le cose in chiaro in ogni possibile direzione, era sul punto di terminare il colloquio, quando improvvisamente vide qualcosa che prolungò la mia udienza con lui per due delle più deliziose ore che siano mai state concesse dalla clemenza reale. Lasciando la Francia, come avevo fatto, un giorno prima di quanto avessi previsto, nella fretta avevo accidentalmente impacchettato con i miei documenti legali una bozza di un pezzo che avevo scritto per Le Figaro su Edgar Allan Poe. La bozza era passata inosservata tra le altre carte fino a quando l’intero pacchetto era stato aperto e sparso sul tavolo del re. Fino ad allora il suo modo di comportarsi era stato tranquillo e gentile, quasi effeminato; ma nel momento in cui vide il nome di Poe divenne pieno di entusiasmo e animazione. I suoi magnifici occhi si illuminarono, le labbra tremavano, le guance brillavano, e tutto il suo volto era raggiante e luminoso.

 

 

“Si tratta di un ricordo personale di lui?” Egli chiese. «Conosceste personalmente Poe? Naturalmente non è possibile, comunque: siete troppo giovane. Io non so dirvi quanto sono dispiaciuto da ciò. Solo per un attimo ho pensato che ero in presenza di una persona che nella realtà aveva conosciuto il più meraviglioso degli scrittori, e che avrebbe potuto, di conseguenza, dirmi qualcosa di preciso e autentico della sua vita interiore. Per me egli è stato il più grande uomo mai nato, il più grande in ogni particolare. Ma, come molte gemme rare, è stato destinato a vedere il suo splendore appannato e segnato da colpi costanti e scalfitture contro la pietra comune. Come deve aver sofferto sotto le grossolane, crudeli umiliazioni che il mondo ha riversato su di lui! e che cose dure, senza cuore si dicevano di lui quando la morte ebbe offuscato la nitidezza della sua penna tagliente! Voi potete capire meglio il mio entusiasmo quando vi dico che sacrificherei il mio diritto alla corona regale per averlo sulla terra una sola ora, se in quell’ora confidasse a me quei pensieri e sentimenti rari e raffinati, che così palesemente costituivano la maggior parte della sua vita”.
La sua voce si addolcì in una nota bassa monotona, quasi un gemito, mentre si avvicinava la fine del suo discorso, e la sua testa continuava a abbassarsi in avanti fino a quando il suo mento poggiò sul petto. Mantenne questo atteggiamento, in un silenzio di tomba, per alcuni minuti, mentre il suo volto assumeva un’espressione del più intenso dolore. improvvisamente risollevandosi, egli mi guardò estremamente sorpreso, come se avesse dimenticato, in quella circostanza, la mia presenza. Poi i suoi occhi splendettero piacevolmente, e lui rise con una risata chiara, allegra, squillante per essere stato catturato in un sogno ad occhi aperti.

 “Sareste così gentile da farmi leggere, quello che avete scritto?” egli chiese. “Vedo che è in francese, l’unica lingua che conosco, oltre alla mia.” Gli porsi la bozza, e lo osservai mentre la leggeva. Appena il pezzo diventava ciarliero e pettegolo, piuttosto che critico, sembrava divertirsi.

 

 

“Vedo da questo che anche voi siete un appassionato di Poe”, disse, restituendomi la bozza “E così vi racconterò una piccola fantasia che ho vagheggiato fin da quando cominciai a leggere per la prima volta le opere del vostro grande compagno americano. In un primo momento, a causa del mio rispetto per il suo genio e la sua grandezza, il più lieve
pensiero di quello che sto per dirvi avrebbe reso le mie guance brucianti di vergogna per la mia presunzione. Dopo un po’, ho voluto occasionalmente scrivere la mia fantasticheria, solo per bruciare il foglio, sempre, non appena terminato. Alla fine l’ho confidata a due amici fidati e valutati; ed ora, in qualche inspiegabilmente strano modo, commosso, forse, dalla sintonia nata dal nostro comune interesse in Poe, sto per rivelarvi una mia confidenza riguardo questo particolare, sebbene voi siate un estraneo. Quello che ho da dire è questo: credo, per ragioni che vi illustrerò, che vi sia un netto parallelo tra la natura di Poe e la mia. Non lasciatevi ingannare dal presupposto che io voglia dire più di ciò che ho detto, ma confrontate la nostra natura: al di là che il parallelo non regge. Poe aveva sia il genio sia la grandezza. Io non ho nessuno dei due. Aveva, anche, la forza e la resistenza, entrambe in modo così cospicuo che avrebbe potuto sfidare il mondo, sensibile e chiuso come doveva essere. Cosa che io non potrò mai fare. Non che io sia un codardo, come la parola è generalmente intesa, perché il dolore e la morte non possono scuotermi né mi terrorizzano. Eppure, ogni contatto con il mondo mi fa male. Come lo stesso Poe, la mia natura è sensibile in modo abnorme.

Le offese mi feriscono così profondamente che non posso restituirle: mi schiacciano, e non ho alcun dubbio che nel tempo finiranno per distruggermi. Anche le lacerazioni che mio cuore ha ricevuto da umiliazioni che ho sofferto da un bambino sono ancora incancellabili. Uno sguardo tagliente o indiscreto dagli occhi di un estraneo, anche se egli sia solo lo stesso contadino rozzo, può disturbarmi per ore; e le osservazioni critiche di un giornale causano in me una miseria e tortura senza fine. La parte impressionabile di me sembra essere sensibile come una lastra fotografica: tutto ciò con cui vengo in contatto si imprime in me in modo indelebile con le sue proporzioni. I miei impulsi, non può essere considerata immodestia dirlo, sono generosi e gentili; eppure non ho mai, in tutta la mia vita, compiuto un atto di carità del quale il destinatario non mi abbia fatto, in qualche modo pentire. Le persone mi deludono; la vita mi delude. Incontro un uomo con un viso raffinato e maniera elegante, e credo nella sincerità del suo sorriso. Appena inizio a sentirmi certo del suo amore duraturo e della sua fedeltà, lo colgo in qualche atto di tradimento, o lo sento mentre mi chiama stupido, o peggio “.

Alzatosi, cominciò a camminare lentamente su e giù per la stanza.
“A quanto pare” continuò, dopo un breve silenzio,” non c’è posto nell’economia della vita se non per un solo tipo di uomo. Se un uomo vuole essere rispettato, deve essere rozzo, duro e flemmatico. Lascialo essere qualsiasi altra cosa, e sia gli amici sia i nemici allo stesso modo si uniscono nel dichiararlo un eccentrico. Per quanto io disprezzi le laide creature sensuali che vestono la forma e ricevono l’appellativo di uomo,  a volte mi dispiace di non essere maggiormente come loro, e, quindi, più a mio agio . Essi si gettano negli eccessi senza una preoccupazione maggiore di quanto ne senta una papera nell’immergersi in un lago. Per me il pensiero, o meglio la paura, che io possa un giorno per quanto lontano dimenticare me stesso fino a svilirmi e a degradarmi, secondo l’abitudine comune dell’uomo, è di per sé motivo sufficiente per le torture più atroci. Quando guardo agli uomini come media e vedo la disinvoltura perfetta con la quale commettono questo, quello o un altro abuso da cui mi ritrarrei con ripugnanza assoluta, mi chiedo se, dopo tutto, in realtà non siano da invidiare.

La mia condizione è come  un rompicapo per me come, eventualmente, può esserlo per voi. Da un punto di vista logico, non vi è alcuna ragione per questo [mio modo di essere]. Mio padre e mia madre non erano né anormalmente sensibili né eccessivamente moralisti. Per quanto io sono in grado di accertare, essi consideravano le cose nella vita moltissimo come ogni altro fa. E’ stato lo stesso, credo, con i genitori di Poe. Le cose che ha scritto mi dimostrano che egli provava lo stesso disgusto per qualsiasi corruzione come quello che ho sempre sentito, solo che lui si rese conto di come il mondo si sarebbe comportato verso di lui, se non avesse dato l’impressione di autorizzare e approvare la sua putredine. Io non lo biasimo. Il suo modo di reagire era più saggio. La finzione è la scelta migliore in un caso del genere, se è l’unico atteggiamento possibile da assumere. Con la sua sensibilità sono state associate forza e sfida, – due caratteristiche di cui sento seriamente la mancanza. Forse, però, avrebbe potuto sopportare il mondo più facilmente di me, perché la sua infanzia fu meno terribile della mia. Durante tutta la mia infanzia sono state fatte cose, che mi hanno angosciato e ferito. Non che io sia stato trattato più duramente rispetto a come comunemente sono trattati i bambini, ma perché la mia natura era così diversa da quella dei bambini, in generale, che le cose che non li disturbavano erano offensive per me. Ho imparato presto che compagnia voleva dire dolore, e che non avrei potuto mai sapere o sentire alcun piacere a meno che io mi tenessi in disparte da tutti. Questo, per un uomo, è abbastanza difficile da fare; per un bambino è quasi impossibile. Sono stato costretto ad assoggettarmi alla volontà di duri, insensibili insegnanti, e alla compagnia di coloro che, poco più che animali essi stessi, mi ritenevano con istinti non più raffinati dei loro. La maggior parte degli studi imposti a me sembrava noioso, stupido e inutile: poiché mi mettevano in una tale agitazione che le mie facoltà di apprendimento erano offuscate e limitate dal dolore, io fui dichiarato praticamente stupido. Per ore avrei potuto sedere e immaginare bei sogni ad occhi aperti; e per questo mi sono guadagnato epiteti simili. E’ una disgrazia essere impostato come lo sono io; eppure io sono quello che sono perché una volontà e una potenza più forte di me stesso mi ha reso così. In quella illusione sta il mio unico sollievo e conforto per non aver vissuto affatto. Se la mia lettura e osservazione non sono andate nella direzione sbagliata, la maggior parte del fenomeno chiamato pazzia consiste in realtà un eccesso di sensibilità. Si è spesso accennato, e talvolta apertamente dichiarato, che io sono un pazzo. Forse lo sono; ma ne dubito. La pazzia può nascondersi a se stessa. Un uomo folle può essere l’unica persona sulla terra che non è a conoscenza della propria follia. Certo che, per tali motivi, io potrei non essere in grado di comprendere la mia condizione mentale, se non in modo esagerato e innaturale. Ma io credo di essere un individuo razionale. Questa, però, potrebbe essere la prova della mia pazzia. Eppure dubito che qualsiasi persona folle potrebbe studiare e analizzare se stesso come ho fatto e ancora faccio io. Sono semplicemente fuori sintonia con la maggior parte della mia razza. Non mi dedico ai piaceri comuni dell’uomo, perché mi disgustano e mi distruggerebbero. La società mi fa male, e io mi tengo fuori da essa. Le donne mi corteggiano, e per la mia sicurezza le evito. Se fossi un poeta, sarei lodato per il fatto di esprimere queste cose in versi; ma il dono della parola non mi appartiene, e quindi sono deriso; disprezzato, e chiamato pazzo. Dio, quando mi chiamerà, mi giudicherà nello stesso modo?”

Con gli occhi pieni di lacrime, strinse la mia mano, sorrise e lasciò la stanza. I dottori hanno già dichiarato Ludwig di Baviera pazzo, e un giudizio più gentile da parte di coloro che lo hanno amato avrebbe molto
probabilmente messo in evidenza la sensibilità frustrata dal mondo.

Lew Vanderpoole “

 

 



A tutte le Resistenze

25 04 2014

 

Berlino, Monumento alla Resistenza tedesca

Berlino, Monumento alla Resistenza tedesca

Io ti ho visto là in quel cortile di caserma: edifici tutti uguali, alti ordinati e squallidi dalle pareti grigie Eri lì in piedi ora come allora senza paura, nudo della nudità della purezza umana. Solo perché unico nella tua coraggiosa difesa, come se il mondo intorno non importasse, come se urgesse una redenzione e un’azione che conferisse un senso a tutto il sangue, ai morti, alle ceneri cadute, alla gioventù perduta per sempre, al proprio corpo mutilato per una patria di cui non ci si poteva ancora vergognare.
Tornare a testa alta anche di fronte al plotone di esecuzione. A testa alta davanti alla storia e davanti a Dio. 

Voi non avete partecipato alla vergogna
Voi avete reagito
Voi avete dato il grande
E per sempre inesausto
Segno del cambiamento
Sacrificando la vostra luminosa esistenza
Per la libertà
La giustizia e l’onore.

(dal Monumento alla Resistenza tedesca a Berlino)

Ricordiamo anche l’eroica resistenza dei giovani della Rosa Bianca:

Avvertiamo espressamente che la Rosa Bianca non è al soldo di alcuna potenza straniera. Pur sapendo che il potere nazionalsocialista deve essere distrutto militarmente, perseguiamo un rinnovamento all’interno dello spirito tedesco profondamente ferito. Ma il chiaro riconoscimento di tutte le responsabilità che si è assunto il popolo tedesco e una lotta incondizionata contro Hitler, i suoi troppi complici, i compagni di partito, i Quisling etc. devono precedere questa rinascita. Con ogni brutalità deve essere spalancato un abisso tra la parte migliore del popolo e tutto ciò che ha a che fare con il nazionalsocialismo. Per Hitler e per i suoi seguaci non esiste una punizione su questa terra che possa essere adeguata ai loro crimini. Ma per amore verso le generazioni future, dopo la fine della guerra dobbiamo lasciare un esempio perché nessuno provi il desiderio, sia pur minimo, di tentare di ripetere simili orrori. Non dimenticate neppure i piccoli furfanti di questo sistema, annotate i nomi, affinché nessuno sfugga! 


Noi non rimarremo in silenzio, siamo la vostra cattiva coscienza; la Rosa Bianca non vi lascerà in pace.

 

 

 



Non cercate tra i morti Colui che è vivo!

20 04 2014

Noli me tangere! La più bella rivelazione è a una donna

Guercino, Cristo e la Maddalena

 

Gesù arriva quando e dove non te lo aspetti

 

Noli me tangere

Beato Angelico, Noli me tangere

 



Donna, dammi da bere

23 03 2014
Guercino, Cristo e la donna samaritana (1640-41)

Guercino, Cristo e la donna samaritana (1640-41)

 

Gesù ha bisogno di un piccolo gesto prima di rivelarsi, un piccolo gesto dell’uomo anche insignificante, ma un’azione grande e dirompente per Lui, un atto di misericordia che vada oltre tutte le barriere fittizie tra gli uomini, un’opera di solidarietà apparentemente marginale, ma che impone di fermarsi e vedere l’altro accanto a noi. “Dammi da bere”: è bastato rispondere un piccolo sì perché si creasse il vero miracolo, lo svelamento di Dio. Gesù da sempre ci conosce, gli stanno a cuore tutte le vicende della nostra vita, sa sfruttare anche  i nostri difetti per farli diventare pregi, perciò anche la curiosità e la concretezza un po’ gretta della Samaritana diventa un veicolo della conoscenza di Gesù. La sua socievolezza, la sua apertura che forse è è stata la causa dei suoi troppi mariti e amanti è la stessa che le permette di sapere che tutti gli uomini sono uguali, giudei e samaritani e tutte le altre sono solo sciocchezze che servono ai potenti per mantenere il loro potere, un modo violento per dividere le persone tra loro. E’ una forza della natura, un’istintiva questa donna che lascia l’anfora e va in paese a dire a tutti chi ha incontrato e nella sua semplicità capisce di essere stata conosciuta e valorizzata. Nella sua spontaneità quasi infantile riconosce per evidenza il miracolo. La sua conoscenza del mondo le fa intendere la verità di chi ha di fronte. Per questo Gesù le dice con chiarezza di essere il Messia, è proprio la Samaritana l’unica persona che non fa parte del suo stretto entourage a cui lo dice nei Vangeli (gli altri sono Maria sua madre, Pietro, Giovanni, Giacomo e indirettamente la Maddalena e Giuda). E questo ci fa comprendere quanto la apprezzasse.

Un piccolo gesto di misericordia viene ripagato con il centuplo di amore e di gioia.

cristo e la Samaritana

Buddham saranam gacchāmi
Dhammam saranam gacchāmi
Sangham saranam gacchāmi




UN VENERDI’ A GERUSALEMME E BETLEMME – Muri vecchi e nuovi

26 12 2012

Venerdì mattina a Gerusalemme per prima cosa ci rechiamo al mercato di Mahane Yehuda dove, nonostante si tratti del mercato ebraico, l’atmosfera è coloratissima e chiassosa come in un suk arabo. Tutte le merci sono esposte all’aperto, dalla frutta ai dolci, ai formaggi, e poi carne, pesce e spezie in un curioso incrociarsi di profumi e odori. In giro ci sono soprattutto uomini, perché le donne sono a casa a preparare la cena dello Shabbat che si festeggia a partire dal tramonto del sole del venerdì.

Non rinunciamo ad un assaggio di datteri mejoul che sono veramente una squisitezza, insieme alla spremuta di pompelmo rosa che qui è proprio un’altra cosa: non ha niente a che vedere con i pompelmi che si vendono in Italia!

Un’altra specialità tipica di queste parti è il riso all’uvetta sultanina che viene usato come contorno ai piatti di carne, mi riprometto di copiare la ricetta anche perché i sapori agrodolci che sanno di antico a me piacciono molto.

Per il resto la cucina è piuttosto simile a quella turca, soprattutto della zona di Antiochia, con la differenza, però, che non sono molto utilizzate le spezie piccanti. Un altro ingrediente che viene usato spesso è la farina di ceci cucinata in polpette (dette falafel) inserite come ripieno con varie spezie nella pita (o pida) piccola, (dalla quale probabilmente deriva anche la piada emiliana).

Esiste poi anche la pita grande quanto una pizza da mangiare come il pane con i piatti di carne o verdura, come negli altri paesi mediorientali, anche se qui viene tagliata e usata individualmente, mentre nei paesi arabi il cibo è posto direttamente sopra e viene poi tagliata con le mani dai commensali (avete presente “le mense” dei Troiani di Enea all’arrivo nel Lazio?

Tanto per dare un’idea dell’antichità di questo tipo di pane!). Abbiamo poi notato una propensione notevole per i dolci che non sono solo come quelli turchi tipo millefoglie intrisi di miele, ma hanno una composizione originale, più simile alla gelatina o alla panna cotta, ma unite alla frutta, e, devo dire, sono ottimi… anche troppo per me!

 Alla fine, però, la cucina italiana fa sempre scuola e così troviamo un intero banco dedicato a vari tipi di ravioli, fusilli e altri tipi di pasta. Chissà se saranno davvero commestibili! Dopo la famosa pizza al ketchap che ebbi la sventura di mangiare a Budapest quando trovo prodotti dall’aspetto italiano all’estero sono sempre diffidente.


Uscendo dal mercato ci lasciamo alle spalle i grandi manifesti che celebrano il rabbino Menachem Mendel Schneerson il presunto Messia del movimento religioso chassidico Chabad Lubavitch, striscioni che infestano tutta  la città e danno l’idea della prevalenza di questi movimenti estremisti all’interno dello Stato di Israele.


Dal mercato ripartiamo alla volta dello Yad Vashem “Un memoriale e un nome”  Centro mondiale per le ricerche sull’Olocausto, inserito in un vasto parco fuori della città vecchia. Entriamo subito nel museo vero e proprio dove si trova un’approfondita documentazione sulle diverse fasi della persecuzione degli ebrei.

Avendo visitato, alcuni mesi or sono, il Reichsparteitagsgelände diNorimberga, il centro dei raduni nazisti, dove era spiegata esattamente tutta la retorica del Terzo Reich sulla questione della razza – le menzogne delle leggi e il restringimento progressivo delle libertà fatto passare come “rispetto” delle minoranze – quello che si vede qui a Gerusalemme appare come complementare all’altro e assume così ancora maggiore evidenza.


Anche il luogo dove tali testimonianze sono state inserite è abbastanza impressionante perché ha una forma a capanna molto appuntita con spioventi in  cemento armato privo di intonaco, le zone espositive sono senza finestre, mentre solo il corridoio centrale prende luce da enormi finestroni.



Il percorso tra le varie sale, però, non è diretto attraverso il corridoio, ma è tortuoso in  modo tale che il visitatore si trovi sempre faccia a faccia con muri in cemento armato, nudi e altissimi che lo sovrastano, finché si giunge alla finché si giunge alla famosa cupola della “Sala dei nomi” con le foto dei deportati che non sono più tornati. La cupola ad imbuto, se da un lato somiglia ad un antico tholos, dall’altro sembra quasi un camino di fabbrica; non so se sia voluto o meno, ma a me ha ricordato proprio l’idea della ciminiera dalla quale sono passati questi morti.

Prima di questa sala, dove si giunge al culmine della drammaticità della memoria, ne trovo un’altra forse ancora più angosciante per chi si fermi un attimo a pensare: qui gli ebrei, ricordando la tragica vicenda della nave Saint Louis nel 1939  e l’odissea interminabile della nave Exodus nel 1947,  si interrogano su dove possano andare se nessuno il vuole e li accoglie e questo resta sempre un pensiero tristemente attuale anche oggi, visto che, nonostante tutto, la vita in questo territorio appare ancora estremamente precaria.

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Purtroppo ogni volta che si visita un memoriale della Shoa, proprio a causa della gravità inaudita dell’accaduto, sembra sempre che gli ebrei non siano affatto riusciti a superare la tragedia e che il dolore e il buio continuino a prevalere su tutto. Ho notato questo anche quando sono stata a Dachau (gli altri campi non li ho mai visti): il santuario memoriale delle vittime era oscuro e lugubre come pochi, non lasciava minimamente spazio alla speranza di un avvenire migliore da costruire insieme. Sembra, cioè, che questi luoghi siano testimoni eloquenti della chiusura sempre più profonda di un popolo ripiegato totalmente sul proprio dolore e auto-esclusosi dal resto del mondo per combattere la propria infinita guerra contro tutti. Le architetture parlano…



Fuori dal museo ci dirigiamo verso il Viale dei Giusti dove scopriamo le lapidi di tutti coloro che si sono schierati coraggiosamente dall’altra parte anche a costo della propria vita. All’ingresso troviamo, ovviamente, i due alberi di Oskar e Emilie Schindler. Non si può dimenticare che Oskar Schindler morì in povertà proprio per aver speso tutti i proventi delle sue fabbriche allo scopo di riscattare il maggior numero di vite.



Le scelte ideali hanno sempre un prezzo di solito alto, ma è l’unico sacrificio che fa davvero avanzare il genere umano. E’ scritto nel Talmud di Babilonia: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Più avanti un grande abete dai vasti rami è stato dedicato a Giorgio Perlasca.



Un uomo che, pur avendo compiuto inizialmente scelte sbagliate, ebbe il coraggio di ammettere i propri errori e di salvare tantissimi ebrei in modo spesso rocambolesco e incredibile; il suo esempio ci ricorda che nulla è impossibile per chi è animato dalla volontà di riuscire. Rischiando tutti i giorni la vita e spacciandosi per il sostituto del console spagnolo in Ungheria salvò circa 5200 ebrei. “Il regno dei Cieli è come un seme di mostarda, il più piccolo dei semi, ma quando cade sul terreno coltivato produce una grande pianta e diventa un riparo per gli uccelli del cielo.”


Devo dire che camminare in mezzo a queste presenze vive, nel silenzio, ascoltando solo gli alberi, è il più grande invito che abbia mai sentito a cercare il bene, perché qui si vede che esiste sempre una speranza, che c’è sempre qualcuno che ha il coraggio di difendere l’uomo anche a costo della propria vita.
Purtroppo, come scrisse Bertolt Brecht “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”…. Eppure solo attraverso gli esempi di alcuni possiamo trovare punti di riferimento per il presente.
Il nostro percorso della memoria continua rievocando i diversi aspetti della tragedia: nel silenzio che ci avvolge ci avviamo verso il “Monumento e Memoriale dei  bambini della Shoa” dove al buio, mentre scorrono le loro immagini, tra mille piccole luci accese a formare un  cielo stellato, vengono recitati i nomi di tutti i bambini morti  nei campi di sterminio.



Poco più lontano troviamo il monumento dedicato a Janusz Korczak, medico e scrittore, che preferì morire insieme agli orfani del ghetto di Varsavia (per i quali nel 1911 aveva fondato un orfanotrofio) piuttosto che lasciarli soli. Tutt’intorno e in ogni fessura della grande scultura in bronzo che rappresenta l’abbraccio di Korczak ai suoi bambini, i visitatori hanno posto piccoli sassi, per onorare la sua memoria. Infine passiamo davanti al memoriale delle Fosse Ardeatine e così, con il cuore gonfio di commozione lasciamo il parco.



Ci dirigiamo poi al Santuario del Libro dove sono conservati i manoscritti di Qumran e molti degli scritti ritrovati nelle altre grotte presso il Mar Morto. IL’esterno è molto suggestivo e solenne, dominato da una grande stele di pietra nera posta in contrasto cromatico e volumetrico con la cupola bianca che ricorda il coperchio dei vasi in cui erano contenuti i manoscritti.



All’ingresso l’atmosfera è sacrale, con il grande rotolo del libro di Isaia contenuto in un cilindro di cristallo che domina la sala centrale sotto la cupola, inserito in una struttura che ricorda i  teuchos della Torah conservati nelle sinagoghe; intorno ci sono grandi frammenti di papiro e pergamena conservati nelle teche addossate alle pareti e protetti dalla luce soffusa del luogo



E’ quasi impossibile osservarli bene qui, ma sappiamo ugualmente di essere davanti a qualcosa di preziosissimo, forse proveniente proprio dal distrutto Tempio di Gerusalemme. La voce della storia arriva fino a noi miracolosamente conservata dopo le catastrofi, quale testamento e profezia.


A poca distanza dal Museo del Libro troviamo un altro monumento di grandissimo interesse: il plastico realizzato da Hans Kroch  su disegno dello storico e geografo Michael Avi Yonah  nel quale si può vedere tutta Gerusalemme all’epoca di Cristo (secondo muro di Ezechia 700 a.C.) e nel più ampio tracciato delle mura successive, fatte costruire da Agrippa tra il 41 e il 44 d.C..


Una struttura preziosa, interamente realizzata in pietra di Gerusalemme 
in modo accuratissimo da un architetto il quale si è avvalso della collaborazione dei più autorevoli archeologi che si sono occupati degli scavi della città. Riconosciamo a sud il quartiere degli Esseni posto dove oggi si trova il Cenacolo, nelle vicinanze la casa del sommo sacerdote, le grandi torri di difesa fatte costruire da Erode il Grande con la sua reggia, il palazzo degli Asmonei poi sede del pretorio in prossimità del Tempio che qui appare perfettamente ricostruito.

Questo plastico ci mostra anche la porta Aurea oggi chiusa, dalla quale sarebbe passato Cristo al suo ingresso in città, e chiarisce come il percorso seguito dall’attuale via Dolorosa si trovasse fuori delle antiche mura di Ezechia all’epoca di Gesù, rendendo più probabile l’identificazione del luogo del santo Sepolcro con quello effettivo della crocifissione.


Certo che, osservando il plastico, ci si accorge ancora di più delle continue ferite inflitte a questa città contesa dall’incessante passaggio di invasori, popoli e religioni. Una incessante devastazione che ha coinvolto, in particolare, la zona del Tempio, ma non solo. Si tratta di una sensazione difficile da descrivere, perché mentre a Istanbul la molteplicità di volti e popoli che abitarono il centro storico ha creato una città armonica e meravigliosa, qui a Gerusalemme questo dialogo impossibile si sente ovunque e ci si accorge che tutti vivono gomito a gomito odiandosi.  Tutti venerano gli stessi luoghi e per questi si uccidono o si sono uccisi. Si rischia di ripartire da qui con una repulsione totale per qualunque religione.

Così nel pomeriggio ci attendono muri molto più moderni, che chiudono fazzoletti di terra contesi in una lotta all’ultimo sangue.

A Betlemme gli israeliani hanno costruito il famoso muro che, in realtà, come ci farà poi notare la nostra guida palestinese, fa parte dei 750 km di confine che costeggiano tutta la Cisgiordania e le enclave arabe, tra recinzione metallica doppia elettrificata (che ricorda sinistramente quella che ho visto a Dachau tanti anni fa) e muri di cemento armato vero e proprio.

In queste enclave, come per esempio anche a Gerico, tutti coloro che hanno passaporto israeliano non possono assolutamente entrare e così la nostra guida ebrea ci affida all’autista del  nostro pullman che è un palestinese.

Girano sempre in coppia per poter passare da una parte e dall’altra del confine e trattare con tutti. Ma io ho fondate ragioni per ritenere che, pur essendo gomito a gomito tutti i giorni, non si sopportino. Basta sentire i commenti della nostra guida ebrea sui musulmani e il suo senso di superiorità nei loro confronti per rendersene conto…

Intanto come biglietto di presentazione appena passato il confine ci ritroviamo di fronte ad un bianco villaggio di coloni che imperterriti continuano a vivere in pieno territorio palestinese, Il giovane arabo che ci fa da guida, in un perfetto italiano ci fa subito notare come vanno le cose.

L’unico aspetto confortante in mezzo a questo caos etnico e religioso è che gli italiani sono benvoluti da tutti, da una parte e dall’altra, almeno così sembra. Questo giovane palestinese, come molti altri qui, da quello che ho capito, dice di essere stato a lungo in Italia presso suoi parenti.

Comunque, oltre agli insediamenti dei coloni che accrescono la tensione, come se non bastasse, a Betlemme gli israeliani si sono semplicemente presi la strada principale per entrare in città insieme ad un quartiere intero, perché –  dicono – in mezzo sorge la tomba di Rachele; così, quando si entra a Betlemme, dal check-point di confine non si sa neppure da che parte girarsi tanto è il caos che regna in quelle stradine create semplicemente per un quartiere residenziale e diventate poi, a causa del muro, arterie di traffico. In questa situazione i musulmani più integralisti e arrabbiati spesso hanno preso il sopravvento e così i cristiano palestinesi che prima erano un folto gruppo ora sono sempre di meno e c’è da credere che il giorno che se ne andranno tutti; così, senza più nessuno a mediare scoppierà un’altra guerra perfino peggiore delle precedenti. Altrimenti a che cosa servirebbero dodici figli per famiglia degli integralisti ebrei (ma penso anche musulmani), e, soprattutto, dove si potranno mai insediare in questo territorio minuscolo e sovraffollato? In mezzo al deserto? Spero di sbagliarmi, ma sono molto pessimista.

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Mentre sono immersa in questi pensieri non certo positivi, ci portano in un negozio di cristiani palestinesi con l’evidente intento di farci sostenere questa minoranza… e anche questo atteggiamento è abbastanza irritante, perché gli israeliani in questo modo cercano di evitare che nelle tasche dei palestinesi musulmani possa arrivare anche un solo spicciolo. Ho notato lo stesso atteggiamento anche da parte della nostra guida: quando si gira nelle strade di Gerusalemme fa di tutto per evitare accuratamente i mercati arabi all’interno della città…. E anche a Nazareth non ha voluto attraversare il mercato arabo del centro.

Finalmente arriviamo alla grande, magnifica basilica bizantina della Natività, fatta costruire nel IV secolo

 

da Sant’Elena e restaurata nel VI, come dimostrano i resti dei mosaici pavimentali costantiniani che in alcune zone si possono ancora vedere.

La basilica è gestita in collaborazione da Armeni, Ortodossi e Cattolici. All’ingresso ci attende la famosa minuscola porticina, da cui bisogna passare inchinandosi per poter entrare: una modifica necessaria per impedire l’ingresso a cavalieri armati.

Qui finalmente ci si trova immersi nella profondità del passato, perché il sito è tutto autentico senza i pesanti interventi moderni che caratterizzano le altre chiese visitate finora; nell’insieme, però, l’edificio appare in precarie condizioni di conservazione, nonostante l’incessante afflusso di turisti.

La basilica a cinque navate comprende anche un martyrium ottagonale entro il quale è inglobata la grotta della Natività davanti alla quale tutti si accalcano per porre la mano sulla stella dorata che segna il punto dove, secondo la tradizione, sarebbe stato deposto Gesù appena nato.

Sulle pareti dell’imponente navata centrale si possono ancora vedere parti consistenti dei mosaici parietali risalenti all’epoca delle crociate.

Accanto alla basilica sorge la chiesa di santa Caterina oggi ottocentesca, ma con un bellissimo chiostro gotico sempre di epoca crociata, al centro del quale troviamo la statua di San Girolamo che ricorda il soggiorno del santo in una grotta attigua a quella della Natività, esistente ancora oggi nei sotterrai della basilica.

Qui il padre della Chiesa al quale Dio aveva rimproverato di essere “ciceronianus non christianus”, attese alla traduzione dal greco in latino della Bibbia, secondo la versione poi detta Vulgata.

E’ ora di andare e all’uscita vediamo davanti a noi il Collegio cristiano di Terrasanta. La nostra guida ci informa che i cristiani attualmente sono soggetti a diverse limitazioni dall’Autorità palestinese perché, mentre i musulmani hanno a disposizione scuole gratuite, è stato imposto ai cristiani di pagare comunque le scuole, nonostante vengano offerte gratuitamente dai religiosi.

Alla sera torniamo in albergo e ci attende la celebrazione della cena del Sabato con abluzione rituale delle mani e lettura del Kiddush, la memoria del riposo dopo la creazione, la benedizione del pane spezzato e del vino.

Così, come se niente fosse, ci ritroviamo a cambiare nuovamente pagina e al di là del muro siamo catapultati ancora una volta tra gli integralisti ebrei che celebrano con grande serietà con tutta la famiglia

al completo questa festa in una certa allegria, anche se, in realtà, il cibo è stato cucinato questa mattina e quindi, a questo punto, non è di sicuro un gran che. Oppure sarà che dopo quello che ho visto tutto mi va di traverso….

 



Cinquecento anni di coraggio, meraviglia e follia

31 10 2012

Ricordo di un uomo che cambiò il nostro mondo di guardare il mondo

La disperazione, l’eroismo, il dolore, la solitudine per creare un pensiero eterno

I’ ho già fatto un gozzo in questo stento,
coma fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.
  La barba al cielo, e la memoria sento5
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.
  E’ lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,10
e ’ passi senza gli occhi muovo invano.
  Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
      Però fallace e strano15
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
      La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.