Recensione: SCACCO AL RE – Il suicidio della coscienza moderna in “Finale di partita” di S. Beckett

28 02 2009

Per il Branciaroli fans club di Facebook, ho rispolverato questa recensione di  "Finale di Partita" di S. Beckett, scritta nel 2006 quando lo spettacolo è stato presentato dal Teatro degli Incamminati a Brescia.

Ho cercato di spiegare l’approccio di Branciaroli al testo di Beckett e anche le sue diverse possibili interpretazioni. Spero vi piaccia.

Lo scenario è da catastrofe post-atomica: una guerra suicida è scoppiata e il mondo è finito oppure è stato un uomo solo, un folle dittatore a promuovere l’intera distruzione del genere umano. Così Samuel Beckett, maestro del teatro dell’assurdo, immagina la definitiva scomparsa dell’umanità nel suo Finale di partita, presentato il 19 febbraio scorso (2006) al Teatro Sociale di Brescia dalla Compagnia degli Incamminati per la regia di Franco Branciaroli.
Solo il deserto regna intorno ad un bunker in cui gli ultimi sopravvissuti si sono rifugiati. Tutto è grigio, comprese le pareti che li circondano e anche il mare è senza onde, è fatto di piombo, intorno c’è solo sabbia. Anche gli esseri naturali, animali e piante, sono scomparsi.
I quattro sopravvissuti Hamm Clov, Nagg, Nell hanno nomi storpiati e simbolici. A cominciare proprio da Hamm (storpiatura di Hamlet), il re, vecchio, cieco e paralitico, inchiodato sulla sua sedia a rotelle, il quale governa il suo servo Clov stupido, privo di memoria e con una gamba di legno, che fa quel poco che c’è da fare con il poco rimasto. La coscienza dell’uomo moderno, quindi, con le sue domande è paralitica e cieca e può solo comandare al servo che probabilmente rappresenta la tecnica e la macchina.
Inoltre, sembra che sia stato proprio Hamm a decretare la fine del mondo, per odio della vita e per paura degli altri, sentimenti determinati anche dal suo essere un diverso. In realtà, la paralisi di Hamm è soprattutto un immobilismo interiore: è la paura di vivere e la convinzione che non ci sia nulla di buono nell’esistenza, ma, che, una volta nati, si entri inesorabilmente nel cerchio del dolore e della distruzione. La sua paralisi è il nichilismo della filosofia di fine Ottocento, ma le sue radici si trovano nella nuova scienza, soprattutto in Galileo, come sottolinea la presenza del cannocchiale. La scienza ha tolto all’uomo il suo antropocentrismo e ne ha fatto un essere insignificante vittima della natura.
Branciaroli sia nella regia sia nella recitazione aderisce perfettamente al testo di Beckett, valorizzandolo nelle sue molteplici sfaccettature e facendo apprezzare la complessità delle sue tematiche relative alla realtà dell’uomo.
Hamm ha spesso un fazzoletto che gli copre il volto come una salma ancor viva o come una sindone che sudi sangue, visto che il suo viso, come quello di Clov, è incredibilmente rosso. Il rosso allude forse all’esposizione alla radiazione atomica, ma soprattutto, si tratta del sudore di sangue dell’infelicità esistenziale assoluta dell’uomo, disancorato da se stesso: un cieco che brancola nel buio della negazione. Un ridicolo Prometeo che nonostante la sua miserabile condizione, si ostina a considerarsi al centro della terra e del cosmo, in una disperata e fallace affermazione di potere.
In scena da una parte ci sono poi due bidoni della spazzatura, nei quali vegetano Nagg e Nell, il padre e la madre di Hamm, senza gambe, caduti dal tandem sulle Ardenne, a Sedan, battuta di feroce sarcasmo contro la guerra franco prussiana e il primo conflitto mondiale. Essi ricordano i due protagonisti di Giorni felici: vorrebbero amarsi, ma le loro menomazioni li hanno resi egoisti e sciocchi come bambini.
Nel bunker si vivono gli ultimi giorni di tutti, ma forse proprio perché sono gli ultimi, vengono trascorsi come giorni qualsiasi; il padrone litiga con il servo, il servo con il padrone, i genitori con il figlio. Si spera di dormire un po’, anzi, di dormire sempre. Una delle battute ricorrenti di Hamm è appunto la continua richiesta delle «sue medicine», anche se è sempre troppo presto per prenderle.
Sorgono poi conflitti interiori: per esempio il servo non sa se abbandonare il padrone e andarsene oppure restare. Egli rappresenta il popolo sottoposto ad una dittatura, il quale fino alla fine non ha mai il coraggio di contestare il despota anche se quest’ultimo lo sta portando alla totale rovina.
Infine, con la comparsa di un bambino fuori dal bunker, il servo sembra deciso ad andarsene, ma non si muove, altrimenti il padrone lo sentirà e lo convincerà ancora a stare con lui. In questo campo appare anche Dio, nelle fattezze di un cane a tre gambe e con tre occhi, è di pezza, poiché si tratta di una creazione puramente umana e per giunta non è ancora finito. E’ un dio comodo, pregato da chi ha distrutto l’umanità, da chi non l’ha impedito e da chi in lui non crede, ma tutti si stupiscono, poi, di non trovarlo.
Del resto, tutta la realtà è frutto semplicemente di affabulazione ed assume consistenza solo nella narrazione: è l’uomo stesso che la rappresenta per sé, perché, in definitiva, ciò che sappiamo del mondo è un fatto puramente mentale. In verità, la realtà semplicemente non esiste e se guardassimo oltre le apparenze e le maschere troveremmo solo il nulla.
Non soltanto il luogo dove è ambientata l’opera è claustrofobico, ma anche l’atmosfera generale di repressione continua e sistematica della vita. Ad un certo punto, infatti, giunge il momento in cui Hamm deve raccontare la storia, perché ormai la storia si crea raccontandola più che «agendola», proprio perché anch’essa è vuota, non ha consistenza. Hamm racconta la storia del servo che egli avrebbe raccolto dalla strada con la promessa di farlo diventare giardiniere; una menzogna, ovviamente, considerando che poi la natura è stata completamente sterminata. In cambio, però, Clov ha dovuto abbandonare suo figlio, il suo bambino, nonostante abbia scongiurato inutilmente Hamm di non farlo. Scopriamo allora che quest’ultimo ha anche ucciso il dottore, quindi la scienza o la psicanalisi e Mother Pegg «di oscurità» perché non le ha dato olio per la lampada, metafora biblica per indicare, probabilmente, la speranza.
Branciaroli interpreta Hamm in modo molto originale, riproducendo la voce italiana dell’ispettore Clouseau: un investigatore fallito, cioè un investigatore cieco e immobile. Un re Sole in disarmo, un Napoleone a Sant’Elena nell’ultimo giorno, ma stizzoso come una vecchia zitella e sicuro ancora del proprio potere che sfoggia con superomismo ridicolo.
Come un despota antico o moderno (Hitler) egli distrugge in maniera scientifica ogni probabile o improbabile oggetto di resistenza, fosse pure un topo o una pulce. Il re deve sterminare con cura ogni forma di vita creando una «soluzione finale» per tutto il genere umano. La vera malattia, infatti, è la vita stessa e il vero problema è la nascita: Hamm a più riprese insulta duramente suo padre accusandolo di averlo messo al mondo per la sua libidine. A suo avviso, l’unico modo per eliminare l’infelicità del genere umano è la sua distruzione finale, la sua totale scomparsa.
Eppure il protagonista si trova a immaginare la natura, perché essa, pur essendo la fonte di tutte le illusioni, è anche l’elemento che può determinare almeno alcuni attimi di ingannevole felicità nell’uomo. Lo sterminio della natura è quasi peggiore, quindi, della stessa distruzione dell’essere umano.
Si avverano così in quest’opera, tutti i presentimenti dell’uomo moderno e della sua incapacità nichilistica di trovare un senso alla vita: dalla coscienza di Hamlet si passa alla coscienza-prosciutto di Hamm, dal cannocchiale di Galileo e dalla scoperta di molti mondi in movimento, ci si trova al centro soltanto con una coscienza cieca e paralitica, perché i punti di riferimento sono completamente saltati. Sono interessanti anche i rapporti dell’uomo con la donna, la quale, impersonata dalla madre (Nell) essendo in Beckett portatrice di vita, è la prima a perire, ennesima vittima del nichilismo maschile.
Si concretizza ciò che Leopardi e Svevo avevano profetizzato (Beckett, infatti, era un appassionato lettore del poeta dell’Infinito): l’uomo attraverso le sue follie affretterà la sua stessa fine, gli imperi scoppieranno come bolle, e un uomo solo un po’ più folle degli altri si porrà al centro della terra, e con un ordigno di potenza inaudita la libererà da tutti i suoi parassiti… Beckett si spinge oltre e distrugge completamente anche la natura.
Sembra quasi che ipotizzi in quest’opera un finale diverso della seconda guerra mondiale, nel caso in cui Hitler o un altro dittatore come lui avesse vinto e si fosse impossessato di tutto il pianeta. In altre parole, secondo Beckett si sarebbe, di fatto, suicidato distruggendo ogni cosa.
Anche il bambino che viene avvistato non avrà secondo Hamm un destino diverso: alla fine, se esiste, o morirà lì fuori o arriverà a quello stesso bunker; quindi la storia si perpetuerà come ha sempre fatto fino a quel momento, con tutti i suoi orrori e la sua cieca disperazione.
In realtà, il bambino non muore e continua a giocare, perciò Beckett sembra affermare che questa visione del mondo è sbagliata o potrebbe esserlo.
Da questo punto di vista l’opera può essere anche considerata come il suicidio della coscienza umana e del suo scetticismo.
La forza del testo di Beckett viene esaltata dalla recitazione di Branciaroli e di Tommaso Cardarelli, a causa del contrasto tra la gravità tragica di ciò che viene enunciato e il tono ironico, sarcastico e ridicolo della rappresentazione. Lo stridente chiaroscuro tragi-comico, come spesso avviene nei personaggi di Branciaroli, esalta la forza del testo e favorisce la comprensione profonda del sottotesto.

RIFERIMENTI E ULTERIORI INTERPRETAZIONI DELL’OPERA

In quest’opera di Beckett si incrociano e si sovrappongono diversi piani di lettura, per esempio risulta evidente il rapporto con Il signor Puntilla e il suo servo Matti di Brecht, sulla dialettica servo-padrone, ma in questo caso Beckett vuole dimostrare che finché il popolo si sentirà inferiore a qualcuno e bisognoso di essere indirizzato, la sua ignoranza verrà usata dal potere. Non potrà sconfiggere i ricchi, i detentori del potere da troppo tempo, finché si riterrà incapace di pensare e bisognoso di un capo.
Infatti al servo viene dato nome Clov che probabilmente è tratto dall’epiteto usato nell’Ulisse di Joyce «cloved» spaccato, tagliato, per indicare il sesso femminile. Il popolo, come diceva lo stesso Hitler si comporta come una donna: «Chi non comprende il carattere profondamente femminile delle masse non sarà mai un oratore efficace. Rifletti: che cosa si aspetta una donna da un uomo? Chiarezza, decisione, forza ed azione..[.]. »
Hamm invece, sarebbe un Hamlet diventato Ham cioè prosciutto, sempre, quindi, utilizzando il sarcasmo per evidenziare il degrado della coscienza umana, infatti viene sottolineato più volte che nel bunker si sente puzza di cadavere.
Per ideare l’ambientazione della sua opera Beckett ha usato una famosa acquaforte di Albrecht Durer cioè «Melencolia 1», la quale raffigura la conoscenza «saturnina» cioè in qualche modo votata alla distruzione. Come dalle due piccole finestre del bunker, anche qui vediamo sullo sfondo il mare e la terra; troviamo poi la presenza del cane e del bambino, la clessidra che diventerà sveglia, e il campanello che diverrà il fischietto. Infine troviamo un quadrato matematico, una sorta di scacchiera, come allude il titolo dell’opera: il finale di partita è in questo caso uno stallo, nel quale alla fine il re stesso sancisce la propria incapacità di muoversi dopo che quasi tutti i pezzi si sono sacrificati per la sua salvezza (o per il suo interessi?).
Non riesce a muoversi, ma è il pezzo più importante, senza di lui la partita sarebbe persa.
Il servo è la regina, il pezzo più potente, ma di questa potenza sembra essersi accorto solo Hamm, perciò non può ribellarsi. I due individui sono inconciliabili e allo stesso tempo indivisibili. I genitori sono i pedoni, deboli, ma tra i pochi pezzi rimasti, assumono grande importanza e quando il re li perde, prova quasi paura.
Il bunker, però, con le sue due finestre poste molto in alto, potrebbe essere considerato anche come l’interno di un teschio con due globi oculari.
In questo caso Hamm sarebbe l’io che pensa, ma essendo cieco e paralitico, le sue idee sono distorte.Il servo è l’io che agisce, o meglio obbedisce all’io che pensa. I genitori sono il super-io, l’educazione monca e gettata via.



LUDWIG II di BAVIERA – La sua personalità artistica

28 02 2009

Pubblico qui di seguito l’indice (con link) della mia ricerca su Ludwig II di Baviera relativa all’architetura e all’estetica.

INDICE

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L’ESTETISMO DI LUDWIG

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Via dalla pazza folla

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L’arte prima di tutto

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Huysman, Wilde, D’Annunzio e…

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NATURA: UN’UNITA’ PROFONDA E BUIA

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Divenire cosmico

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Naufragando nell’acqua

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Vivere l’estremo

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Acqua – madre – notte

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La mente mia s’inselva

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NATURA E MUSICA

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Melodia e libertà

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Dentro la foresta

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Sacralità delle creature viventi

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SPAZIO IDEALE

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Bagliori dell’oro

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Sacralità delle architetture

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Superiorità etica del passato

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Uno stile assoluto

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ARTE E GENIO

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Esistenza come utopia

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Arte: visione ultraterrena

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Il sacerdote del genio

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I SENSI E LO SPIRITO

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Sensualità sublime

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Ossessione e negazione del corpo

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LA "SUBLIME" ARCHITETTURA

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Le "sette lampade" di Ludwig

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Spazio mistico

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Percorso iniziatico

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L’INCARNAZIONE DI DES ESSEINTES

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Artificiosità e misticismo

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COME UN SIGNORE DEL RINASCIMENTO

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Per l’arte e le scienze

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Le nuove tecnologie

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Divina proporzione

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DECORAZIONE TRA STORICISMO E ART NOVEAU

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La linea sinuosa

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Evanescenza

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ARTIFICI DELLA LUCE

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Oltre la materia

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Luci artificiali

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ARCHITETTURA E TEATRO

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Ritorno al passato

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Travestire la vita

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Scenografia e performance

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Il passato e l’effimero

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Rappresentar maravigliar

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Il vero e il falso

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La sacra rappresentazione

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LA NOTTE E IL GIORNO

 

 

 

 

Ludwig II di Baviera1

 

 

ludwig II di Baviera

 

 

Ludwig II di Baviera

 

 

Ludwig II nel suo giardino d

 

ludwig II in slitta nella notte



Recensione: IL CORAGGIO DI UN UOMO SOLO – Operazione Valchiria

28 02 2009
Operazione Valchiria
Voi non avete partecipato alla vergogna
Voi avete reagito
Voi avete dato il grande
E per sempre inesausto
Segno del cambiamento
Sacrificando la vostra luminosa esistenza
Per la libertà
La giustizia e l’onore.
 
(dal Monumento alla Resistenza tedesca a Berlino)
 
Claus Stauffenberg con Albrecht Mertz von Quirnheim
 
Talvolta, per una serie di strane coincidenze, nello stesso periodo vengono programmati film che appaiono quasi complementari. E’ il caso di Operazione Valchiria e di The Reader. Essi rappresentano, infatti, due facce della stessa medaglia: se nel secondo si parla di una sorvegliante di Auschwitz assolutamente succube del sistema di condizionamenti messo in atto dal regime, in Operazione Valchiria troviamo, invece, uno sparuto gruppo di tenaci oppositori del nazismo, che tentano disperatamente di sovvertire la dittatura pur sapendo che molto probabilmente non riusciranno nell’intento, consapevoli fin dall’inizio che dovranno sacrificare la vita, forse inutilmente. Oltre all’interesse, quindi, per l’intrecciarsi di due identità e psicologie diverse del popolo tedesco, Operazione Valchiria è costruito anche come un thriller appassionante e amaro.
Riesce a tenere lo spettatore con il fiato sospeso dall’inizio alla fine e in modo quasi inspiegabile, dal momento che tutti, più o meno, sanno già come andrà a finire. Non per niente il regista Bryan Singer è stato considerato una delle più recenti rivelazioni del cinema hollywoodiano. Regista e sceneggiatore (Cristopher McQuarrie) suscitano abilmente una tensione crescente perché il pubblico viene spinto ad identificarsi con questo manipolo di uomini tanto eroici quanto soli.

operazione valchiria - von Stauffenberg prima dell
Tutti sanno bene che, alla fine, questo tentativo, uno dei più significativi tra i quindici effettuati nel corso della dittatura di Hitler, non andrà a buon fine: siamo, infatti, nel 1944 ed è ben noto che il fuhrer morirà nel suo bunker soltanto un anno dopo…
Come si fa, quindi, a raccontare un thriller di cui si conosce già l’epilogo? Eppure la tentazione, l’auspicio che ci venga narrata una storia diversa da quella che conosciamo e avvenga il miracolo, è troppo forte.
E’ lo stesso desiderio quasi suicida che ispirò il colonnello von Stauffenberg (interpretato da un Tom Cruise piuttosto prevedibile), conte di antica famiglia bavarese, eroe e mutilato di guerra, ad organizzare la missione Valchiria pur sapendo che avrebbe avuto poche possibilità di riuscita, perché troppi elementi del piano, abilmente ideato, si sarebbero potuti inceppare. Eppure bisognava tentare. Il protagonista è un uomo pieno di carattere, che non vuole dissimulare le ferite ricevute per la patria, né la mano recisa all’altezza del polso né il suo occhio perduto. E’ un uomo che conosciute le menzogne del regime non intende piegarsi e fa il saluto nazista proprio con quella mano mancante.

stauffenberg memorial

stauffenberg memorial berlino


Come in un’opera di Sofocle, la coscienza morale prevale sull’applicazione cieca della legge.
A questo punto non si trattava più di essere fedeli al fuhrer o alla patria in senso astratto, ma di fronte a così tante morti inutili tra i civili e militari, alla prospettiva dello sfacelo conclusivo che si stava di fatto avvicinando, il giuramento di fedeltà alla Germania assumeva tutt’altro valore. Per non tradire il proprio paese era necessario macchiarsi di alto tradimento di fronte al regime, questo era il paradosso, questo il prezzo altissimo richiesto dall’azione.
Certo, fa impressione vedere la «Tana del lupo» di Hitler immersa proprio in quei boschi di abeti dal fusto slanciato che sicuramente a Stauffenberg ricordavano quelli della sua terra natale. Foreste tanto amate da personalità come Ludwig II di Baviera, con le sue alte idealità e la ricerca del bene comune del popolo, dissacrate dalla presenza di un uomo che, di fatto, stava pianificando la distruzione finale della sua stessa patria.

Il vero Claus Stauffenberg con i suoi figli
Quella commovente natura diventa il luogo di un’impossibile redenzione del popolo tedesco, ancora troppo confuso e plagiato dal culto della personalità del dittatore per tentare in massa di emanciparsi. Ma bisognava provare, e, se non c’è stato il successo, una morte onorevole è stata comunque l’alternativa migliore al dover eseguire continuamente ordini suicidi e iniqui.
Se tanti in più lo avessero pensato… O forse, ne sarebbe bastato uno solo in più, perché talvolta anche un unico uomo che faccia la sua parte può risultare di vitale importanza in un senso o nell’altro.
La ricostruzione storica, proposta nel film, ricorda, infatti, come il meccanismo messo in moto da von Stauffenberg si sia inceppato per via di un uomo solo. Bastava forse quell’unico ufficiale della riserva per cambiare il corso della storia, ma ancora una volta, il carisma di Hitler, inspiegabile quanto oscuramente indiscutibile, ebbe il sopravvento.

Tom Cruise - von Stauffenberg nel film

A lui dedico la musica di Wagner più amata da Ludwig, l’opera del "puro folle" cavaliere del Graal



Recensione: LA RESA DEI CONTI DI DUE GENERAZIONI – The Reader – A voce alta dal romanzo bestseller di Bernhard Schlink

23 02 2009
the reader
Conoscere per caso una donna e innamorarsi di lei pur avendo meno della metà dei suoi anni, per vederla poi scomparire inspiegabilmente all’improvviso: così il primo amore diventa una condanna, un dolore, un trauma che segnerà tutta la vita. Questo, però, non è ancora nulla rispetto al segreto che Hanna nasconde. A distanza di anni Michael, il protagonista, durante un seminario della facoltà di Giurisprudenza a cui si è iscritto, scoprirà nel modo più traumatico – durante il processo – che la donna tanto amata è stata una sorvegliante ad Auschwitz, un’addetta alle selezioni, un’assassina.
Ancora peggio è scoprire, poi, che non aveva provato quasi nulla, almeno a parole, nel lasciar morire arse vive trecento persone. In realtà, quella di Hanna è una personalità bloccata completamente, al punto da non saper, non solo esprimere, ma neppure riconoscere, i propri sentimenti. Per Michael, però, le rivelazioni scioccanti si susseguono: scopre, infatti, che, come era capitato a lui durante la loro breve relazione, anche alle detenute del campo quella donna chiedeva di leggere ad alta voce dei libri per poi, abbandonarle al loro destino, ovvero alla morte.
Lo choc del protagonista è quasi il medesimo dello spettatore, ed è forse lo stesso di molti tedeschi delle passate generazioni, quando scoprivano che l’insospettabile vicino di casa, il mite vecchietto inoffensivo della porta accanto a suo tempo era stato uno spietato nazista.
Il regista Stephen Daldry ci ha abituato allo studio di psicologie complesse, talvolta criptiche, come in The Hours e anche qui la giovane sorvegliante dei campi di sterminio è una personalità complessa e dissociata.
Hanna è una donna capace di improvvise commozioni e traumatici flashback, ma, nel complesso, sembra non rendersi conto di ciò che ha fatto, tanto che si autoaccusa perché è incapace di comprendere la gravità dei suoi atti, perciò li racconta come se fossero scontati e ovvi: «Dovevamo sceglierle, non potevamo tenerle tutte, ne arrivavano in continuazione». Ad interpretarla un’enigmatica e poliedrica Kate Winslet (premio Oscar come migliore attrice protagonista) affiancata da un Ralph Fiennes (Michael da adulto) il quale esprime efficacemente le chiusure e i sensi di colpa di una personalità a sua volta «bloccata».
E’ una donna a cui il sadismo del regime ha risucchiato completamente la coscienza morale, lasciandola con i suoi «dovevo farlo, ero la sorvegliante, la responsabilità era mia».

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Una personalità fortemente condizionata che fa paura perché, in realtà, rappresenta quella parte esistente in ciascuno di noi davvero condizionabile, come ben ha messo in evidenza, tra gli altri, Erich Fromm nel suo Anatomia della distruttività umana, un libro ormai datato, ma sempre attuale, per la sua analisi sul nazismo e, più in generale, sul rapporto con il potere assoluto. Questo film traduce in una vicenda concreta ciò che è illustrato con dovizia di esempi ed esperienze nello studio di Fromm.

Al di là del banco degli imputati, tra il pubblico che assiste, si consuma il dramma di una o più generazioni di tedeschi: tentare di negare l’evidenza che molti, moltissimi erano colpevoli e fare invece in modo che qualcuno paghi, magari anche più del dovuto, per lavare un generale senso di colpa. Così farà il protagonista, così faranno le due sopravvissute ebree che la accusano. Esse si sono salvate probabilmente perché stavano leggendo per lei, ma su questo punto tacciono entrambe. Il protagonista, invece, sa che Hanna non sa leggere e quindi neppure scrivere. Questo la scagionerebbe in parte dall’accusa più grave, ma Michael viene preso da una smania di vederla punita più delle altre. La vuole condannata come la più colpevole di tutte, perché si sente tradito e quasi suo complice.
Di fronte ad una strage, assistiamo allo spettacolo di una generazione contro l’altra, di un muro contro muro senza alcuna comunicazione tra le due realtà; al punto che Hanna, per ascoltare la sentenza che la condannerà al carcere a vita, si presenta vestita in divisa come se fosse ancora una sorvegliante nazista. Sembra che Hanna voglia sfidare tutti o lo faccia solo per riflesso condizionato, senza neanche rendersene conto.
Una donna indecifrabile, soprattutto per se stessa, la quale sembra vivere solo il presente e ciò che «va» fatto, ma probabilmente perché non è in grado di riconoscere quello che ha dentro come è incapace di leggere e scrivere. Non si tratta, però, di un problema di «cultura», come qualche critico ha erroneamente sostenuto, tale incapacità è simbolo, piuttosto, di una sorta di analfabetismo interiore.
Quando Hanna imparerà finalmente a scrivere, attraverso la voce di Michael che continua a leggerle – registrandole e inviandole in carcere – le storie che tanto avevano amato quando stavano insieme, sarà troppo tardi per apprendere davvero qualcosa su se stessa: dalla prigione non si impara niente come non si è imparato nulla dai campi di sterminio né per l’aguzzina né per la sopravvissuta.
Alla fine la memoria si chiude solo col dolore. Non c’è nulla da imparare senza coscienza (come nel caso di Hanna) o senza perdono (come per Ilana Mather, sopravvissuta ad Auschwitz) solo la durezza di cuore e la morte. Questo è infatti l’ultimo dolore che Hanna infligge a Michael, lasciandogli l’ennesimo e inutile senso di colpa.
Un film difficile, talvolta forse volutamente irrisolto, nell’intento di ricordarci quanto siano ancora aperte certe domande sia nella mente dei sopravvissuti sia in quella dei tedeschi. Domande irrisolte, certo, ma prive della tendenza assolutoria nei confronti del Nazismo che qualcuno erroneamente ha voluto riconoscervi. Un’opera che a tratti nella figura di Hanna sembra quasi ricordare i film storici sul terrorismo come Anni di piombo, Maledetti vi amerò o il più recente Buongiorno, notte nei quali spesso si sottolineava la distanza tra vita privata e dimensione pubblica, evidenziando la freddezza con la quale un uomo all’apparenza comune potesse diventare un feroce assassino.


ACQUA E TERRA – Russia

21 02 2009

La Russia è il silenzio, lo sciabordare dell’acqua dei suoi fiumi lenti lungo le pianure,

i tronchi argentati delle betulle in fila che salutano
il passaggio delle chiatte lunghissime a fior d’acqua

e i pescatori che stanno su isolotti di canne ad aspettare pensierosi.

 

 


Russia dalle mille cupole come ricetrasmittenti celesti
che parlano con i serafini e ardono del loro fuoco.

I tuoi colori di folle bellezza che risplendono nell’oro
o in mezzo alle rovine di muri scrostati
a rappresentare per un momento un altro mondo,
il solo mondo che conti.

 

Il silenzio dei muri delle tue chiese
che raccontano per sempre le storie infinite dei tuoi santi,
con ritmo lento e incessante,
per chi vorrà ascoltare, per chi vorrà vedere.

Ogni colore è un’emozione,
ogni vibrazione una musica,
ogni linea una strada e una melodia.

 

 

Mille sguardi ci accompagnano nella strada della vita
e non ci abbandoneranno mai, saranno con noi per sempre.

 

 
I tuoi preti hanno voci profonde e cantano per ore intere,
mentre noi ci inchiniamo, segnandoci con la croce
così dobbiamo ricordare di chi siamo e dove andiamo:

non c’è via senza questa via.
Possiamo solo adorare
o uscire per sempre da qui:
la fede è imperiosa.

Possiamo solo abbandonarci alla mano di Dio
o fuggire dalla sua vista,
non c’è via di mezzo.

Innamorarci della sua antica Trinità
dai giovani angeli di sovrumana bellezza.
Cercare con Sergey il drago che è dentro di noi
e armati di ferro sconfiggerlo e amarlo.

Se il Cielo è bello come un’opera di Rubliev
lasciatemelo sognare nel silenzio profondo
per tutti i giorni della mia vita.


C’è silenzio e silenzio.

C’è il vuoto del nostro horror vacui.
L’assenza di suono delle nostre giornate
quando ci sembra che l’anima
venga risucchiata dal nulla e sprofondi
nell’inferno delle nostre angosce quotidiane
e nei pensieri che irrompono veloci
e sempre uguali.


E c’è il silenzio di quelle pianure,
delle anse dei fiumi lunghe
e flessibili come le canne sulle rive,
come i gigli d’acqua dal pallido colore di vaniglia
allora lo senti intenso e forte il silenzio della nostra anima
che non soffre di meno,

ma che sa di esistere e di amare la vita,
sente la densa dolcezza e il fitto dolore dell’essere
e sa che è quello per cui siamo fatti

 

 

 

la forza di una mano che scende dall’alto
e che ci accarezza i capelli come ad un figlio.

La Russia è una canzone triste e struggente
come il vento di Tarkovskij
che arriva a folate dal passato
ci attraversa riempiendoci del suo volo
portandosi via qualcosa di noi.

 

 

 

Ma dopo non siamo più gli stessi, dopo sappiamo.

Conosciamo come la Madre della Tenerezza
quando cerca la guancia del Figlio,
perché tutto è già compiuto

e il tempo sarà, è, è stato in quest’ordine.



Un Dio creatore eterno dai grandi occhi che ti segue

e ti accarezza mentre piangi, ti sostiene mentre sanguini

e ti ascolta compiaciuto mentre ridi e preghi e canti,

finché avrai voce, la tua canzone triste sul fiume.

 

 

 


Grazie Russia, in te ho visto

e tu mi hai dato gli occhi e la voce,

il sorriso, il pianto, e lo sguardo di Dio.



Recensione: L’OROLOGIO CHE ANDAVA ALL’INDIETRO – La relatività del tempo nel

20 02 2009

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«I giorni dell’uomo son come l’erba;
egli fiorisce come il fiore dei campi;
se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più
e non si riconosce più il luogo dov’era.» (Salmi 103, 15-16)

 

Che cosa sono i giorni dell’uomo? E’ la domanda che risuona nella mente dello spettatore dopo i titoli di coda. Continua a riproporsi, evocata nella miriade di fotogrammi e storie, l’immagine delle generazioni che si susseguano come foglie autunnali, insieme quella di New Orleans – la città dove è ambientata la vicenda – la quale sta per essere travolta dall’uragano Katrina. Allora anche il vecchio orologio della sua stazione ferroviaria, che scandisce il tempo al contrario, per far tornare indietro i minuti nella speranza di poter così riparare gli errori degli uomini, si fermerà per sempre.
A New Orleans la storia umana sta per essere travolta da «un’onda di mar commosso», ma la memorabile avventura di Benjamin Button merita di essere ricordata a costo di giocare a rimpiattino con la morte ancora per qualche ora o forse solo pochi minuti. Anche se questo è il destino dell’uomo, egli è un essere affascinante e tenace che non smette mai di lottare, di cercare, di amare.
La strana storia di Benjamin (Brad Pitt), nato vecchio e via via diventato giovane, percorrendo la strada inversa rispetto a tutti gli altri, mostra come forse l’uomo dovrebbe sentirsi una volta giunto nel mondo: con la morte vicina compagna di strada e la capacità di considerare ogni nuovo giorno come un regalo insperato dell’esistenza, a fronte di una fine ritenuta imminente quanto certa.
Il titolo del film ricorda certe novelle di Edgar Allan Poe perché la storia comincia come potrebbe iniziare un suo racconto dell’orrore. Ma se l’esordio evoca il «mostro», circondato da creature dall’aspetto caricaturale, nel corso della narrazione sono ben altre le domande ricorrenti sullo spirito e sulla sua reale forza, l’apparenza e la realtà. Ogni cosa è breve sogno nella vita umana, eppure è ugualmente straordinaria. L’uomo crea la sua magia dibattendosi nel breve tempo che precede la sua scomparsa, eppure continua a produrre il suo perenne canto del cigno. Il più bello, il più ricco e d’infinita varietà che mai si sia veduto e ascoltato.

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Colpisce la fragilità dell’essere umano e il suo miracolo, il fatto che ci si possa incontrare anche solo per poco tempo e che in quei brevi momenti risieda la grandezza di tutta una vita e il suo senso. E’ la struggente bellezza di ciò che muore, perché questa è la sua natura. Ogni cosa è bella proprio nella sua fuggevole realtà, perché così è la sua vita, dura un attimo e in quell’istante dà il meglio di sé. Come la piccola vita del colibrì, animale simbolo di questo film, il quale, se le sue ali si fermassero, morirebbe in poco tempo. La sua magia, per chi lo guarda, può durare solo un attimo, perché il suo volo, poi, si perde lontano. L’anima del colibrì dovrebbe essere il nostro cuore, che non si risparmia fino all’ultimo battito d’ali.
Ciò che appare una sventura spesso diventa in punto di forza, veicolo privilegiato da cui più si apprende; ciò che sembra una nostra limitazione diventa la strada tracciata che porta verso altre mete e altri traguardi, compreso quello di conoscere il mondo e di capire ciò che si agita nel cuore dell’uomo. Così gli ultimi attimi di vita di Daisy (Cate Blanchett), pieni di un dolore quasi insopportabile, vissuti insieme all’imminente rovina della sua città, sono quelli in cui la figlia scopre di lei tutto ciò che non aveva mai saputo, le sue radici e la vera storia d’amore con suo padre. Ma anche Daisy dal diario di Benjamin che non aveva mai avuto il cuore di leggere, scoprirà come quell’uomo l’avesse amata ancora più profondamente di quanto avesse potuto immaginare.
Tutto scorrerà via, ma solo all’apparenza, perché esistono amori e legami che né la lontananza né il sovrapporsi di altre esperienze potranno spezzare. L’eternità dell’uomo nello spirito e nelle sue inspiegabili permanenze sono gli elementi che lo pongono a contatto con una più alta concezione dell’essere, qualcosa che va oltre la morte stessa.
Prevale la sensazione che si possa pensare alla morte come ad una quotidiana compagna dell’esistenza, e che, attraverso essa, la vita appaia anche più vera e straordinaria, ricca di una commozione costante. Nel film non assistiamo né alla smania di voler vivere ad ogni costo chissà quali forti emozioni (quasi per bruciare il tempo) né alla disperazione della perdita; semplicemente ci accompagna l’emozionante malinconia di assaporare quello che viene, sapendo che vive solo in quell’attimo, ma è comunque un miracolo che quell’istante esista.
Un film, che si avvale dell’interpretazione di un Brad Pitt un po’ meno sex symbol e sempre più attore e di una Cate Blanchett che si conferma intensa, magnetica e sensibile protagonista femminile. Una favola originale e fantastica quanto «vera», costruita con la lucidità visionaria di Eric Roth, già sceneggiatore di Forrest Gump, e con l’abilità immaginativa del regista David Fincher il quale a partire da Seven e passando per Fight Club, ci ha abituato alle storie inconsuete e non scontate. In genere il tallone d’Achille di questo regista è stata in passato la tendenza a non padroneggiare fino in fondo la materia fantastica con risultati a volte discontinui. In questo caso, invece, Fincher ha creato un’opera che emoziona profondamente dall’inizio alla fine, come il danzare delle foglie nei primi freddi dell’autunno, nel giallo sfolgorante della loro ultima meravigliosa livrea, che se ne va lieve ad ogni soffio di vento.

curioso caso



LA MERAVIGLIA DIVINA DI MEISTER ECKHART

18 02 2009
 creazione Adamo
LA CREAZIONE E’ SEMPRE OGGI
"Pronuncia la parola, esprimila, producila, genera la parola!". È una cosa meravigliosa che rimanga all’interno qualcosa che fluisce all’esterno. Che la parola fluisca all’esterno e tuttavia permanga all’interno, è davvero straordinario. Che tutte le creature fluiscano all’esterno e permangano tuttavia all’interno, è davvero straordinario (…) Dio è in tutte le cose. Più è dentro le cose, e più ne è fuori; più è all’interno, e più è all’esterno. Ho già detto altre volte che Dio crea questo intero mondo assolutamente in questo ora. Tutto quello che Dio ha creato seimila e più anni or sono, quando fece il mondo, Dio lo crea ora tutto quanto.

battistero di firenze genesi
DIO DICE SEMPRE SOLO UNA COSA
IL VERBO RISUONA NELL’UOMO
Il Padre genera il Figlio nella parte più intima dell’anima, e genera te come non inferiore al Figlio suo unigenito. Se devo essere figlio, devo esserlo in quello stesso essere in cui egli è Figlio, ed in nessun altro. Se devo essere uomo, non posso esserlo nell’essere di un animale, ma devo esserlo nell’essere di un uomo. Se poi devo essere quest’uomo, devo esserlo in questo essere di quest’uomo. San Giovanni ora dice: "Voi siete figli di Dio".
"Parla la parola, pronunciala, esprimila, producila, genera la parola!". "Pronunciala". Ciò che è detto dall’esterno, è grossolano; ma quella parola è pronunciata interiormente. "Pronunciala!", significa che devi diventare interiore di ciò che è in te. Il profeta dice: "Dio disse una cosa, e io ne intesi due". Questo è vero: Dio dice sempre e soltanto una cosa. Il suo dire è uno soltanto. In questo unico dire, egli dice suo Figlio, ed insieme lo Spirito santo e tutte le creature, e vi è soltanto un solo dire in Dio. Ma il profeta dice: "Udii due cose", il che significa: ho inteso Dio e la creatura. Là dove Dio la pronuncia, essa è Dio, ma qui è creatura. La gente si immagina che Dio sia diventato uomo solo laggiù. Non è così, perché Dio è diventato uomo altrettanto qui quanto là, ed è diventato uomo per poterti generare come suo Figlio unigenito, e niente di meno.
 
 
Cupoletta di Sa Marco a Venezia con La genesi
DIO E’ IN TUTTE LE COSE
Cogli Dio in tutte le cose, perché Dio è in tutte le cose. Sant’Agostino dice: Dio ha creato tutte le cose, non che le abbia fatte divenire e poi abbia proseguito il suo cammino, ma è rimasto in esse. La gente immagina di avere di più, se ha le cose insieme a Dio, di quanto avrebbe con Dio senza le cose. Questo è sbagliato, perché tutte le cose insieme a Dio non sono di più di Dio solo;(…)
Prendi perciò Dio in tutte le cose, e questo è un segno del fatto che egli ti ha generato come figlio unigenito, e niente di meno.

Creazione animali San Marco cupoletta della Genesi


L’ULTIMO GIORNO DI NAPOLEONE IN UNO SPETTACOLO DI ANDREA BRUNETTI CON FABIO BANFO

14 02 2009

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«Napoleone», lo spettacolo presentato nei giorni scorsi al Teatro Olmetto di Milano, descrive il grande generale corso alla fine della sua parabola umana e politica, ma, nonostante tutto, ancora con il suo carisma intatto. 
Il testo scritto dal regista Andrea Brunetti sembra costruito sulle caratteristiche di Fabio Banfo a cui è affidato il ruolo del protagonista. Ne esce un ritratto di Napoleone per nulla scontato, con le sue luci e le sue ombre, ma sempre grande anche nella sconfitta e continuamente in cerca di qualcosa da conquistare, in una sorta di perenne e atavica «fame» di possesso, di dominio, di vittoria.
Alla stregua di un Don Giovanni o di un Faust, Napoleone non cessa di essere un superuomo anche nei pochi chilometri quadrati di un’isola sperduta nell’oceano.
Un personaggio non facile da interpretare, ma brillantemente risolto da Banfo, perennemente in bilico tra grandezza e pathos, tra carisma e nevrosi.
Un Napoleone che pensa a Waterloo continuamente e non sa come possa aver perduto quella battaglia. Vittima, del destino, della follia del suo più fidato generale o, forse, solo di quel Dio che lo volle per un suo disegno misterioso «due volte nella polvere, due volte sull’altar».
Un uomo che viene messo a confronto con un «giovane» e che si trova ad invidiarlo; che pagherebbe tutto ciò che aveva un tempo per poter tornare alla sua età e ricominciare la sua avventura da capo.
Lui che ha avuto tutto, tutti ai suoi piedi e ha perso tutto, ora si ritrova a contendersi le attenzioni di una puttana la quale guarda con maggiore interesse il suo servitore di quanto non guardi lui.
Ora le sue strategie di battaglia servono solo a bloccare una colonna di formiche al lavoro per la conquista spasmodica delle sue «scorte». Quelle formiche sono le schiere umane della storia, l’avanzare lento, ma inarrestabile di quel popolo che per lui era così lontano, così inferiore da doversi chinare per ascoltarlo.
Quel popolo ora è lì e lo venera come sempre, non riesce a non amarlo, nonostante la sua arroganza, lo venera anche da sconfitto, per il suo carisma che incantava gli uomini e suscitava in loro grandi sogni, quella «fantasia» che sempre ha colpito l’immaginario di tutti. Il popolo lo adora, ma alla fine lo supera, semplicemente va oltre.
Napoleone è solo un uomo che voleva sempre vincere, che non tollera di perdere anche se in gioco c’è solo una giovane contadina troppo "generosa". Vuole vincere a tutti i costi, anche contro un’ordinata colonna di formiche; non importa se per farlo dovrà distruggere lo stesso oggetto da conquistare: questa è la vittoria e la vittoria viene prima di tutto.
Alla fine, il popolo che tanto lo aveva amato sarà proprio il primo a tradirlo, servendogli più o meno consapevolmente del cibo avvelenato.



I MESSAGGERI CIRILLO E METODIO

14 02 2009

I santi Cirillo e Metodio

Oggi 14 febbraio, si ricordano i santi Cirillo e Metodio, annunciatori della buona novella ai popoli slavi. La liturgia dedica loro questo passo del profeta Isaia:

Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero di lieti annunzi
che annunzia la pace,
messaggero di bene che annunzia la salvezza,
che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”.
Senti? Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme gridano di gioia,
poiché vedono con i loro occhi
il ritorno del Signore in Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutti i popoli;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.

Santuario di Kizhi Russia


Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. 21Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. 22Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. 23Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.
(San Paolo Lettere, Cor. I, 9,19-23)

San Pietroburgo

32Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. 33Tutta la città era riunita davanti alla porta. 34Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.35Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. 36Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce 37e, trovatolo, gli dissero: "Tutti ti cercano!". 38Egli disse loro: "Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!". 39E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni. (Marco 1,32-39)

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DIALOGO CON FRANCO BRANCIAROLI – Uno dei grandi mattatori del teatro italiano parla di sé e del suo Don Chisciotte

14 02 2009
11-02-09_1814Mercoledì scorso al Mondadori Multicenter di Piazza del Duomo a Milano, Franco Branciaroli ha presentato il suo spettacolo Don Chisciotte – in scena in questi giorni al Teatro Strehler- nel corso di un incontro condotto da Antonio Calibi, Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano. In quest’occasione, attraverso le domande del conduttore e del pubblico, Branciaroli ha ripercorso le varie fasi di ideazione del suo spettacolo, chiarendo il rapporto con i due mattatori del teatro italiano, Vittorio Gassman e Carmelo Bene ai quali si ispira per dare voce a Don Chisciotte.e Sancio Panza. Vi proponiamo il suo intervento così come lo abbiamo raccolto, sotto forma di un dialogo – intervista con l’attore.
 
L’IDEAZIONE DEL «DON CHISCIOTTE»
Come ha concepito l’idea di mettere in scena il cavaliere della Mancia in modo così originale?
Questo strano Don Chisciotte nasce da una sfida: non c’è attore che non sogni di interpretarlo, ma già mettere in scena i romanzi è un controsenso perché i romanzi sono fatti di personaggi, caratteri, mentre nel teatro si affrontano miti e i miti antichi sono funzioni e rappresentazioni. I personaggi moderni come Don Giovanni, Faust e Don Chisciotte sono, invece, caratteri: si sa troppo di loro, sono eccessivamente concreti. Si sa cosa mangiano e come sono, non sono funzioni astratte come Edipo per questo «funzionano» meglio se interpretati con il canto o la parodia.
Sta dicendo, quindi, che rappresentare Don Chisciotte sul palcoscenico è impossibile?
Proprio così, i fallimenti che si sono susseguiti nel tentativo di mettere in scena questo personaggio lo dimostrano. Pabst è l’unico regista che è riuscito a tradurre il Don Chisciotte in un film, ma le sue parti erano cantate altrimenti sulla scena non sarebbe stato efficace. Un attore non regge per più di 5 minuti con un bacile sulla testa, a meno che non sia tutto trasfigurato attraverso una visione più onirica ed artificiale. E’ la sfida che già Shakespeare aveva capito: mettere in scena un personaggio attraverso la sua assenza, perché, altrimenti, sarebbe risultato troppo debole, come accade, per esempio, nel Giulio Cesare: quello che dovrebbe essere il protagonista, sta in scena al massimo per un quarto d’ora in tutto, per pochi minuti ogni volta.
C’è un perfetto parallelismo nello spettacolo perché Cervantes e Shakespeare sono morti lo stesso giorno (23 aprile 1616), mentre Bene e Gassman erano nati lo stesso giorno, il primo settembre.
Una bella sfida insomma… come ha pensato di risolverla?
Ho pensato di concentrarmi su che cosa fa Don Chisciotte, anziché su chi sia. In realtà, egli è fondamentalmente un imitatore e il romanzo di cui è protagonista è una sorta di trattato sull’imitazione. In genere, è considerato un personaggio positivo, ma questo giudizio sarebbe in parte da rivedere, perché non è autonomo, imita personalità anacronistiche, si uniforma in tutto e per tutto ad Amadigi di Gaula, che per lui resta un modello inarrivabile.
Allora ho pensato che, se volevo portare in scena Don Chisciotte, anziché imitare i cavalieri erranti, dovevo imitare «i cavalieri della scena» che si cimentano nella sfida impossibile di «rappresentare» il Don Chisciotte.
Insomma lei nei confronti di Bene e Gassman si comporta come Don Chisciotte, di fatto compie la medesima operazione…
Esatto, io sono come Don Chisciotte: io imito Bene e Gassman che interpretano il personaggio di Cervantes. Un percorso metateatrale degno di Borges: essi escono sconfitti dall’impossibilità di mettere in scena il Don Chisciotte, mentre io lo «faccio», cioè divento l’imitatore dei miti del teatro italiano ed esco vincente dalla sfida. Il vero Chisciotte sono io: infatti la mia vera voce non si sente mai, perché il «Don» è solo imitazione.
L’altra idea comica è stata quella di creare una coppia che reggesse la scena come Totò e Peppino o Stanlio e Ollio. Inoltre, lo spettacolo è organizzato per episodi anche slegati perché così è simile alla trama del libro: si possono estrapolare passi diversi anche senza rispettare un ordine narrativo dal momento che è costruito per giustapposizione.
 
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IL ROMANZO DELL’ILLUSIONE BAROCCA
Insomma sembra di capire che il Don Chisciotte sia un romanzo «allo specchio», secondo il procedimento dell’illusione barocca. Specchio che, infatti, appare in scena, quando viene aperto il libro di Cervantes…
Nel romanzo c’è un plagio: Don Chisciotte diventa lettore di se stesso in diretta, e la conclusione del duello con Biscaino, infatti, viene letta sull’altro libro quello ritrovato per caso a Toledo, opera di uno scrittore moro. E’ come se il protagonista ritrovasse il suo libro dove si raccontano le sue gesta, anche quelle che non ha ancora compiuto. Ciò può accadere solo perché è un essere del tutto virtuale. Il plagio fornisce una scusa a Cervantes per scrivere il secondo volume che non sarebbe frutto d’imitazione. Lo spettacolo ha la stessa funzione: provocare nello spettatore l’idea dell’impossibilità dell’illusione scenica del teatro. Nell’era di un programma come il «Grande Fratello» che scimmiotta la vita vera «facendo la vita vera», il teatro, che è finzione volta al vero, quale funzione può assumere? Per questo Don Chisciotte è l’eroe di un’epoca di crisi: se c’è un romanzo uguale al romanzo che racconta la vostra vita, allora anche voi potreste essere finti. Si potrebbe arrivare a mostrare in televisione me seduto sul divano che guardo la televisione (dove ovviamente sullo schermo ci sono io).
Mi pare che lei abbia voluto restituire al teatro il suo senso proprio attraverso la funzione di quel sipario barocco che non cala mai, ma si apre su una vertigine.
Sì, il sipario barocco disvela un antro che è una vertigine, perché al centro c’è la porta dell’inferno e ai lati il bancone di un bar ingombro di superalcolici.
Lo specchio, infatti, determina il meccanismo barocco: non deve essere un doppio sterile, ma attraverso l’oggettivazione esterna in un altro elemento, mostrerà la verità a chi guarda. Questa è la funzione del romanzo barocco ovvero del Don Chisciotte.
Lo spettacolo però è anche molto comico… Non è solo un’operazione intellettuale
Questo spettacolo è basato sul cabaret: due morti vi invitano sul loro palcoscenico nell’aldilà dove si vive una sorta di atmosfera allucinatoria. Trascinati dall’alcool che era la droga degli anni ’50, i due «mattatori» introducono a freddo i pezzi di Cervantes come se fossero alticci, in preda ad una sorta di veggenza o di delirio. Gassman, per esempio, beve «il biondo amico della notte» (whisky) e poi vede i mulini a vento. Quando scambia i mulini per giganti, però, Don Chisciotte non prende semplicemente "Roma per toma" perché la sua visione fa parte del concetto di maraviglioso dell’epoca nel quale si affermava l’identità di giganti e torri. Insomma, tra torri e mulini, poi, non c’è tutta questa differenza: è un mondo che egli non riconosce più e non vuole consapevolmente riconoscere (cioè il mondo della tecnica ndr).
 
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L’IMMORTALITA’ DI DON CHISCIOTTE E’ IL TEATRO
Come mai nell’opera si allude al fatto che ogni sera cambierebbero gli episodi narrati?
Ho voluto dare la sensazione di un’opera in fieri che viene costantemente ripetuta dai due attori, in uno spettacolo infinito, ma sempre con un testo diverso. Si presume, infatti, che Bene e Gassman reciteranno per sempre. Il palcoscenico del teatro si trova al Purgatorio: è lì che vogliono eternamente vivere, sebbene essi siano stati mandati in Paradiso, a dispetto di tutti i loro eccessi, mentre Dante è all’inferno, secondo un tipico meccanismo di inversione carnevalesca.
Per questo il suo Don Chisciotte non muore?
Il «Don» sul mio palcoscenico non muore mai. Inganna anche Cervantes: non muore perché sta al Purgatorio cioè, come dicevo, nel teatro (perché il Purgatorio è il luogo «ove ragion ne fruga» come spiega Dante nel III canto, ndr) luogo sospeso tra terra e cielo, tra Paradiso e Inferno. Questa soluzione viene anticipata da Miguel de Unamuno il quale ha scritto una Vita di Don Chisciotte e di Sancio dove attacca Cervantes perché a suo parere non avrebbe capito realmente il valore del suo personaggio. Secondo de Unamuno il fondamentale delitto di Cervantes è che interrompe il romanzo facendo rinsavire il protagonista e facendogli rinnegare la cavalleria errante. Il romanzo infatti, è costruito come una sfida e una lotta tra Cervantes, che non può più credere alla cavalleria e il suo personaggio che tenta di seguirla in tutto e per tutto.
A volte sembra che il suo Don Chisciotte sia nato improvvisando e che anche in scena lei stesso talvolta improvvisi…
E’ vero, è nato improvvisando e anche in scena c’è questo rapporto diretto con il pubblico al quale ci si rivolge e che rompe la finzione, anche introducendo gli applausi di un altro pubblico virtuale.
Inoltre, questo mio progetto ha preso corpo durante la tournee del Galileo di Brecht: durante le pause perseguitavo gli attori della compagnia di fronte a quali improvvisavo delle scene del Don Chisciotte con le voci di Bene e Gassman per vedere se «funzionavano» se avrebbero riso.
Ad un certo punto dello spettacolo si parla di identità, verità e amore, le tre domande che Don Chisciotte si pone, perché?
Che cos’è l’amore, l’identità, la verità: tutte e tre queste componenti sono messe in discussione dalla nuova visione del mondo dell’uomo moderno. Come Shakespeare lo fa con Amleto in modo tragico, Cervantes mostra attraverso il suo personaggio la precarietà di questi tre concetti che prima sembravano indiscutibili: Don Chisciotte non ha un’identità sua, ma è frutto di pura imitazione, la «sua» verità è un fatto del tutto soggettivo, e nel suo romanzo anche la realtà sembra sempre ingannevole; infine, come si fa ad amare una donna che non si conosce? Quindi tutte le certezze risultano volutamente sovvertite. E’ il mistero del falso che affascina più del vero e che da sempre fa parte del gioco del teatro e della letteratura.
Perché augura buon viaggio agli spettatori alla fine dello spettacolo?
Perché si immagina che anche gli spettatori siano entrati in questo luogo dell’aldilà privo di tempo, dove la loro stessa corporeità si sia frantumata, allora alla fine dello spettacolo sarebbe come dire «ricomponete i vostri elettroni e tornate a recitare nella vita».
Perché il personaggio di Don Chisciotte non è solo comico, ma anche ferisce?
Ferisce perché nell’opera c’è lo humour che rende ambiguo tutto. Lo humour è un’invenzione del Don Chisciotte: prima c’era la comicità, poi l’ironia ariostesca che già ci si avvicina, ma lo humour dilacera, perché pirandellianamente mette a nudo la verità. Non nasconde, ma esalta l’elemento patetico che viene svelato al di là dell’apparenza.

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RICORDO DI DUE «MATTATORI»
Gassman e Bene si conoscevano? Erano amici?
Sì si conoscevano ma non erano amiconi, direi piuttosto, «amicani», nel senso che si punzecchiavano spesso e volentieri.
Ricordo uno scontro su uno spettacolo di Carmelo Bene. Il figlio di Vittorio Gassman andò a complimentarsi con lui, ma Bene gli disse che suo padre lo aveva mandato perché non aveva avuto il coraggio di venire personalmente… Allora ad un incontro pubblico successivo, Gassman si presentò di sorpresa e lo mise in difficoltà chiedendogli che cosa fosse un anacoluto. Allora, poiché Bene non seppe rispondere, lo accusò di «coglionare» il pubblico.
Nello spettacolo spesso sembra che, in realtà, Bene e Gassman siano le due facce della stessa medaglia…
In effetti è così, come Sancio e Don Chisciotte, entrambi sono funzionali l’uno a l’altro. Del resto, Bene e Gassman venivano dalla stessa scuola di recitazione, detta dei «fonatori»: uno recitava di più con il diaframma e l’altro più di «maschera», ma entrambi con una sorta di intonazione musicale derivata forse anche dal fatto che inizialmente i testi teatrali venivano tradotti dal francese e mantenevano quella musicalità. Entrambi, perciò, hanno creato una sorta di manierismo, tant’è vero che sono imitabili. Si tratta di una recitazione «filosofica», astratta. Al contrario, ad esempio, della scuola di Salvo Randone che sembrava voler costruire una sorta di «parlato vero».
Com’erano umanamente Gassman e Bene?
Non erano due mostri di simpatia anche perché erano soggetti a continui cambiamenti di umore. Ma sicuramente erano due attori eccezionali. L’interpretazione più incredibile di Gassman è nel film I mostri perché rivela tutte le sue possibilità espressive, anche su registri differenti. Bene interpretava soprattutto se stesso e tendeva a sovrapporsi ai personaggi. Tra il Sorpasso e Profumo di donna, invece, c’è uno sforzo di recitazione, poiché si tratta due personaggi ben differenziati. E pensare che Gassman si vergognava a interpretare questi ruoli al cinema, invece erano geniali! Tra i due Gassman era una personalità forse più instabile, stranamente tormentato, come poi abbiamo visto negli ultimi anni della sua vita. Bene era un bevitore accanito di gin, un fumatore a livello autodistruttivo, con i suoi tre pacchetti di Gitanes al giorno, ma era più stabile nella sua sregolatezza, e al di là del suo «personaggio» come artista, era un vero gentiluomo del Sud. Comunque, i suoi eccessi non li ho mai molto apprezzati. A mio parere un artista finisce il suo apprendistato quando smette di essere un "genio".

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LE TAPPE DI UNA «VITA INIMITABILE»
Quali sono state le personalità artistiche che hanno segnato la sua carriera?
Ci sono tre grandi personaggi dai quali ho appreso molto: Aldo Trionfo, con il quale io e Carmelo abbiamo interpretato il Faust-Marlowe-Burlesque, regista geniale e quasi sconosciuto perché facendo il teatro solo per passione e non per vivere (visto che era di famiglia molto ricca) non pubblicizzava neppure i suoi spettacoli e non invitava i critici. Con lui Carmelo Bene ha interpretato il suo primo Caligola. E poi mi ricordo ancora un suo famoso Sandokan… A lui piaceva fare un tipo di teatro «di rivista».
Un altro regista importante per me è stato Luca Ronconi con il quale ho interpretato Medea: lui mi ha insegnato che il teatro può essere vissuto come esperienza e conoscenza filosofica.
E infine, Giovanni Testori perché creava i suoi testi modellandoli direttamente sull’attore e la compagnia che li avrebbe recitati, quindi è stata un’esperienza irripetibile. E’ stato fondamentale per me anche per il suo aspetto visionario, calato, però, profondamente nel reale, come quando rappresentammo In exitu su una scalinata della Stazione Centrale di Milano, usando una lingua lombarda tutta sua.
C’è uno spettacolo o un personaggio a cui è particolarmente legato?
In genere non è affatto vero che per interpretare un personaggio si deve sentire profondamente quello che prova, anzi, una volta conclusa una tournee spesso viene dimanticato, ma ce n’è uno che mi è rimasto veramente impresso: Hamm di Finale di partita di Beckett. Non lo so perché, ma le sue battute continuavano a riecheggiarmi nella mente, questo personaggio mi mancava, anche finite le repliche. Anche Medea, quando ero in scena vestito come Anna Magnani, per me è stato il massimo… E poi mi ha segnato molto, come dicevo, il protagonista di In exitu, ma ricordo anche con grande piacere lo spettacolo Nerone è morto, di Aldo Trionfo nel quale recitava anche Wanda Osiris.
Com’è il suo rapporto con il cinema e la televisione?
Con la televisione, non ho praticamente rapporti, semplicemente non mi interessa. Il cinema, invece, non è mai stato veramente il mio mondo: ho fatto cinque film con Tinto Brass perché è un amco e con lui sul set ci si divertiva. Per il resto, ogni tanto accetto qualche ruolo altrimenti – accenna un sorrisetto beffardo – il mio agente cinematografico resta disoccupato… Il cinema, insomma non è proprio il mio ambito, resta per me un altro mondo, un altro paese.
Come dovrebbe essere secondo lei il nuovo teatro?
Oggi si tende a descrivere quello che si vede e basta e chi lo fa rischia anche di essere definito un genio…. In realtà non sta proponendo altro che quello che vede. Il vero artista, invece, dovrebbe ricercare in ciò che osserva la verità sull’uomo. Occuparsi della gente che vive e chiedersi come può crescere, descrivere non basta; ci vorrebbe un teatro propositivo. Forrest Wallace è un grande autore contemporaneo proprio per questo perché non si limita a descrivere «l’orrenda società americana», ma si spinge oltre. Mostrare il nulla non basta: la difficoltà è far vivere nel teatro che cos’è l’uomo.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm