Fa’ un’isola di te stesso, opera celermente, sii saggio – Della felicità e delle passioni

26 12 2008
5 Dicembre 2008
Edvard Munch Sun
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
 Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato…

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Esiste probabilmente un unico modo per evitare che la vita sia questo insensato abisso di dolore descritto così bene dal Leopardi: lasciare quel fascio di tutto ciò che ci «appartiene» e ci pesa addosso, di tutto il nostro «amor proprio» (che non è autentico «amore a sé», cioè al nostro destino di felicità) e fermare la corsa. La corsa dei desideri che ci fanno precipitare e ci lacerano ovunque senza lasciarci pensare davvero a chi siamo e a dove stiamo andando. Fermare la corsa.
«L’antidoto», per usare un’espressione cara al Dalai Lama, è appunto far «girare la ruota del Dharma» cioè andare in senso opposto e, come dice il Beato «uscire dalla foresta» degli attaccamenti e dell’odio e diventare invisibili agli occhi di «Mara». Questo si intende per liberazione a beneficio non solo personale, ma di tutti gli esseri.
Di sicuro quel fascio dobbiamo cercare di lasciarlo e, soprattutto, non dobbiamo crearne un altro con le nostre azioni.
Non è una deduzione razionale tipica soltanto del Buddhismo, ma a questa conclusione sono arrivati anche molti artisti, filosofi o religiosi occidentali.
Per esempio l’Ariosto, con la sua consueta leggerezza ci propone una «allegoria» molto realistica, sui desideri degli uomini e sulla loro fine.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l’astuzie che sono ora,
a piè d’un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non so mostrar, vivea ne la val ima;
che più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;
e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;
chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.
Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d’esser rimasi giù.
Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi.
Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

Insomma, gli uomini tendono sempre a correre dietro le loro illusioni pensando che siano reali, ma più corrono e più non si avvicinano neanche di un passo alla felicità, così come non si può catturare la luna dentro un canestro…

Preziosi consigli su come vivere ci vengono dagli antichi. Seneca, ad esempio, ha meditato a lungo sulla felicità e sulla possibilità dell’uomo di essere felice. In particolare osserva: «I mali che fuggi sono in te», E poiché è conscio dell’impermanenza delle cose arriva a questa conclusione: «Non esiste alcun bene duraturo all’infuori di quello che l’animo trova dentro di sé.».
Dove si trova quindi la possibilità della stabilità dell’animo e quindi, della felicità? A questa domanda Seneca risponde che la felicità sta in ciò che è consono all’uomo cioè alla sua aspirazione al bene vale a dire la virtù ovvero l’abitudine al bene e quindi: « Non si compie un’azione virtuosa in vista di un premio, il premio sta nell’averla compiuta.». Solo così si acquista la libertà che è «l’affrancamento dalle passioni». Così anche altri pensatori antichi, come per esempio Cicerone, hanno affermato a riguardo concetti molto simili. Se ci rivolgiamo ai grandi filosofi greci come Socrate e Platone essi considerano la felicità come frutto della ‘temperanza’ e come libertà dai desideri e dagli impulsi.

Nei Vangeli, poi, Cristo è piuttosto deciso sul fatto di dover rinunciare ai propri attaccamenti se si vuole ottenere un vero progresso spirituale – «la vita» – e consiglia senza mezzi termini: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. »
Dove, come si sa, il fuoco, più che essere un concetto esterno all’uomo è qualcosa che brucia dentro di lui «dannandolo», poiché l’uomo ha alla fine quello che ha cercato e rincorso per tutta la vita, quindi si deve pensare bene a quello che si cerca.
E ancora racconta il Vangelo di Matteo:
«Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: ‘Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti’. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: ‘Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre’.»
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna da Cartesio a Spinoza, da Pascal a Schopenhauer, sulla ricerca della felicità, il perseguimento della virtù e il controllo delle passioni, poiché l’attaccamento eccessivo a ciò che è fuggevole ed impermanente porta fatalmente all’infelicità.
Però mi fermo qui. E permettetemi di raccontarvi una storia… (ma le citazioni dagli antichi testi sono autentiche!)

Un giorno un anziano disse ad un suo giovane discepolo:
«Molti dicono: ‘Cavalchiamo la tigre e dominiamola.’ Ma io ti dico coloro che così faranno presto dovranno fare i conti con i denti della tigre che li divorerà. Può l’uomo ammansire la tigre? Forse con la frusta in mano può farlo e con sbarre di ferro, ma, anche se può, quanti altri dovranno morire perché uno solo riesca? E ha poi così senso sfidarla volontariamente, non è forse un atto di inutile superbia? Quanti divorati dalla tigre saranno in futuro come lei?
E altri dicono ‘Cavalchiamo l’onda’, seguendo, a loro dire, il sentiero di Diamante, ma il Beato stesso disse:
‘Colui che ha una visione errata, le cui trentasei correnti
scorrono impetuose verso il piacere,
i suoi pensieri fondati sull’attaccamento come onde
lo trascinano via’
Shakyamuni affermò e questo ricordalo, se vuoi andare ‘al di là’ del fiume:
‘Avendo ucciso madre, padre e due re di casta guerriera,
avendo distrutto un regno con i suoi sudditi,
il brahmano se ne va senza tremare.
Avendo ucciso madre, padre e due re di casta sacerdotale,
e una tigre come quinto,
il brahmano se ne va senza tremare’
cioè sconfiggendo gli attaccamenti della nascita, del potere, del piacere e del dubbio, allora si fermerà la rinascita.
E disse ancora Shakyamuni:
‘Di ciò che potrebbe fare un odiatore ad un odiatore, un nemico ad un nemico, molto più male fa [all’uomo stesso] il [suo] pensiero falsamente diretto.’
Perché l’uomo che non saprà custodire se stesso sarà il proprio peggiore nemico…
Non credere che si possa accorciare la Via né che basti dire di essere arrivato perché la meta del tuo viaggio compaia davanti a te, ma sii umile. Perciò io ti dico: segui la via certa delle Quattro Nobili Verità e dell’Ottuplice Sentiero e non cercare nelle illusioni risposte che non ti daranno, ma più ti avvolgeranno nelle loro catene. Non fare come colui che avendo tagliato il sottobosco si inoltra di nuovo nella foresta… Medita in cuor tuo sulla radice del dolore e se così farai ti convincerai che è necessario tagliarla così come esorta il Beato. Ma se di questo non ti convincerai da solo non sarà un’imposizione che potrà cambiare la tua mente. E non ti avvolgere nell’ignoranza, ma medita sulle testimonianze e le parole immortali del Beato: in esse è racchiuso il Dharma, l’insegnamento e la natura profonda della realtà. Così apprenderai che non per te da solo puoi andare al di là del fiume, ma per tutti gli esseri senzienti perché solo apparentemente siamo divisi, ma finché non proverai gioia nella pratica del Dharma, non sarai arrivato davvero a comprenderla…
C’è una storia nel Sutra del Loto che voglio raccontarti:
«Supponiamo, figli di nobile schiatta, che vi sia un certo medico, colto, saggio, intelligente, abile nell’eliminare ogni malanno. Costui ha molti figli, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta o cento. Ma un giorno il medico va all’estero e tutti i suoi figli si ammalano per un’intossicazione o avvelenamento e in seguito a ciò sono tormentati da sensazioni dolorose e si rotolano per terra dal bruciore. Il medico, loro padre, ritorna dal viaggio mentre i suoi figli sono tormentati da quelle sensa­zioni dolorose in seguito all’intossicazione o avvelenamento. Alcuni di loro hanno idee sbagliate, altri idee giuste, ma tutti soffrono dello stesso dolore. Vedendo il padre lo salutano con gioia e gli dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato sano e salvo perché devi liberarci da questa calamità, intossicazione o avvelenamento che sia. Caro padre, facci vivere’. Allora il medico, nel vedere i suoi figli in preda al dolore e tormentati dalle sensa­zioni dolorose mentre si rotolano per terra dal bruciore, prepara un potente rimedio dal colore, odore, sapore appropriato, lo pesta col mortaio, e lo dà da bere ai suoi figli con queste parole: ‘Bevete, figli, questo potente ri­medio dal colore, odore, sapore appropriato. Bevendolo sarete subito liberi, l’intossicazione o l’avvelenamento saranno eliminati e vi sentirete bene e in salute’. I figli del medico dalle idee giuste, vedendo il colore, sentendo l’odore e assaggiando il sapore del rimedio, lo prendono in fretta e si sentono subito sollevati. Ma i figli del medico dalle idee sbagliate, dando il benvenuto al padre, dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato in salute e in buona forma perché devi curarci’. Ma costoro, pur par­lando in tal modo, non bevono il rimedio offerto. Per quale ragione? Di idee sbagliate, a costoro non piace il colore del rimedio, non piace il suo odore e, il suo sapore. Allora il medico riflette: ‘Questi figli hanno delle idee sbagliate per via dell’intossicazione o avvelenamento e non bevono il potente rimedio né lo accettano. Pertanto io dovrò indurli a bere questo rimedio con un abile mezzo’. Così il medico desiderando che i figli bevano il rimedio, con un abile mezzo dice loro: ‘Figli d i nobile schiatta, io sono vecchio, avanti negli anni, sono arrivato al termine della mia vita. Ma non dispiacetevene, figli, non sentitevi depressi. Ho preparato questo potente rimedio, se lo desiderate potete berlo’. Ammoniti i figli con questo abile mezzo, egli parte per un altro paese e fa annunciare ai figli esausti la sua morte. In quel momento essi si affliggono e lo piangono moltissimo. ‘Invero costui che èstato nostro padre, guida, genitore amorevole, è morto. Oggi noi siamo rimasti senza protettore.’ Consapevoli di essere senza una protezione e senza un rifugio, si sentono costantemente afflitti dal dolore, ma proprio per questo continuo dolore e afflizione le loro idee sbagliate vengono soppiantate da quelle giuste. Si rendono così conto che il colore, l’odore e il sapore del rimedio è quello appropriato e pertanto prendono subito il rimedio e vengono liberati dall’infermità. Allora il medico, venuto a sapere che i suoi figli sono liberi dal dolore, ritorna.»

Dunque procura di essere tra coloro che hanno pensieri giusti per non perdere inutilmente il tempo, non è necessario che il Buddha scompaia perché tu debba desiderare di cercarlo e vederlo dentro di te…


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