Fidelio: un messaggio agli uomini di ogni tempo

8 01 2012

La grande musica di Beethoven ci parla di diritti umani, libertà e fratellanza come basi autentiche della convivenza civile

«Di tutte le mie creature, il “Fidelio” è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte».


A conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, il Teatro Regio di Torino ha aperto la stagione 2012 riproponendo, con un nuovo allestimento, il Fidelio di Ludwig van Beethoven. Un’opera ancora modernissima, che va oltre le epoche storiche restando sempre attuale, ed è forse questa la ragione per la quale ai tempi in cui fu composta, tra il 1803 e il 1814, non fu compresa, ma restò un unicum nel panorama della lirica ottocentesca e per giunta sempre gravata dallo spettro dell’insuccesso. “Fidelio” è paragonabile alle opere di Mazzini, Rousseau o Beccaria, troppo avanzate per la loro epoca e ancora oggi capaci di porre fondamentali domande sul rapporto Stato- società civile, sull’applicazione dei diritti umani in generale, e, tema oggi di stretta attualità, sui diritti anche di coloro che sono colpiti da provvedimenti giudiziari e privati della libertà personale. In altre parole, sulla condizione nelle carceri. Al centro della vicenda c’è, infatti, la drammatica situazione di un prigioniero, Florestan, incarcerato ingiustamente, per aver denunciato i crimini di un funzionario del regime. Gettato in una cella di isolamento senza processo, la sua storia ricorda i tanti casi di desaparecidos delle dittature dei nostri giorni. L’opera, però, mette in discussione anche la condizione del sistema carcerario nel suo complesso, l’orribile sensazione del buio da cui sono oppressi i prigionieri e che ci ha ricordato per il senso di claustrofobia, un celebre dipinto di van Gogh, (attualmente a Brera nell’ambito della mostra dedicata al Museo Puškin di Mosca), dove in un pozzo profondissimo e stretto si vedono girare in tondo i carcerati nell’”ora d’aria”. Tornano alla mente le orribili visioni del disumano carcere di Guantanamo (tuttora aperto, nonostante le promesse del presidente Obama e le censure della Corte Suprema) dove sono segregati senza processo e senza diritti i presunti terroristi islamici di al-Qaida. Senza andare molto lontano, poi, possiamo ricordare anche ciò che sta succedendo oggi nelle carceri italiane, soprattutto per le problematiche irrisolte del sovraffollamento.


Se l’opera del grande compositore tedesco rappresentasse anche soltanto una denuncia sociale, già assumerebbe di per sé una valenza universale di grande portata storica, ma essa si spinge ben oltre, al di là del fatto contingente, evidenziando valori filosofici elevati e nobili su cui basare autenticamente la convivenza civile e lo Stato. Beethoven riprende a suo modo dalla Rivoluzione francese il concetto di fratellanza che, dal suo punto di vista, non può essere disgiunta dalla libertà e dalla verità. L’opera propone una profonda meditazione sui limiti della possibilità coercitiva dello Stato nei riguardi del cittadino, sul valore della pena a cui i condannati sono sottoposti, ma anche sul rapporto tra vita e moralità pubblica e privata. L’altro elemento fondamentale del Fidelio è, infatti, il profondo legame tra umanità e amore coniugale, tra fratellanza tra gli uomini e fedeltà di coppia in un’identità tra etica pubblica e privata che stupisce per la nettezza e l’incisività con cui viene affermata. Non possiamo dimenticare che ancora oggi questa posizione così chiara, legata alla trasparenza dei comportamenti è contraddetta e mascherata dietro ipocrisie e doppie vite difese ad oltranza in nome della privacy. In realtà, sarà anche una dura presa di posizione, ma per Beethoven ciò che avviene nella vita privata trova una sua continuità anche nell’ambito pubblico. Chi agisce bene nel poco agirà bene nel molto e, al contrario, chi tradirà nel poco lo farà a maggior ragione anche nelle questioni più importanti.


Altro elemento di assoluta novità e volutamente rivoluzionario è far assumere il ruolo di eroina e salvatrice ad una donna, come vedremo poi anche nell’Attila di Verdi, sebbene in un contesto del tutto diverso. Se per Verdi il ricorso ad una donna come vendicatrice dell’onore della patria mira a sottolineare la viltà di coloro che dovrebbero combattere contro l’invasore, per Beethoven la figura di Leonore, la protagonista, rappresenta il trionfo della verità con le sole armi del coraggio, del sacrificio e dell’amore puro che diventa compassione. L’uso del travestimento di Leonore, che per tutta l’opera si nasconde sotto le mentite spoglie del giovane carceriere Fidelio, al di là delle apparenze, non ha nulla a che vedere con la commedia, ma mette in luce piuttosto la drammaticità dell’esistenza in una società violenta, tirannica e prevaricatrice, che non consente a nessuno di essere se stesso e che trasforma una donna in una combattente disposta a tutto pur di salvare la vita del marito, e, in qualche modo, anche degli altri prigionieri. Per questo il personaggio di Leonore è simile a quello dell’”Efigenia in Tauride” di Goethe, dove la giovane, accompagnata dal fratello Oreste e contro il parere dell’amico Pilade, decide di informare della loro partenza il re dei Tauri e di accettare il rischio della condanna. Ella intraprende la strada più difficile: quella di veder trionfare la verità oppure morire, contraddicendo, sotto questo aspetto, in modo sostanziale il finale scritto da Euripide. La verità sostenuta dalla coscienza morale (“l’interno impulso” così ben sottolineato in una celebre aria della protagonista) è dunque il concetto centrale dell’opera unito al senso del dovere che essa impone. Questi due aspetti fondamentali animano entrambi i protagonisti Leonore e Florestan, così che tale unità di intenti costituisce il vero punto di forza della coppia. La verità contro la tirannide è quella che Florestan ha affermato fino al punto di rischiare la vita, la stessa che Leonore sostiene come un vessillo invincibile dell’umanità nuova. Verità che si traduce nell’opera nella presenza luce, e nella sensazione indescrivibile dei carcerati quando finalmente riescono a rivedere il cielo dopo anni in cui ciò era stato impossibile. Il loro inno alla luce e alla libertà appare in qualche modo complementare a quello della nona sinfonia. Quest’ultimo, infatti, inizialmente doveva essere dedicato alla libertà, ma poi fu modificato per questioni di censura. E’ significativo, comunque, che le due parole in tedesco risultino molto simili. Del resto, sempre per motivi di censura la trama del Fidelio nel corso delle diverse stesure fu via via “addolcita” perché considerata troppo libertaria e così si spiega anche l’esaltazione della giustizia del sovrano (rappresentata dall’arrivo del ministro Don Fernando) alla fine dell’opera, esaltazione che, comunque, non può prescindere dal diritto.

L’affermazione dei diritti civili contro la segregazione passa per Beethoven anche attraverso il riconoscimento dell’umanità e della pietà, anche nel caso in cui il carcerato sia veramente colpevole. Leonore, infatti, vuole salvare il prigioniero dalla morte indipendentemente che si tratti o meno di suo marito, per puro sentimento di compassione e fratellanza. Questo messaggio universale si estende però idealmente a tutti gli esseri umani, alla loro condizione, in cui solo la fratellanza e la solidarietà possono concorrere al raggiungimento della felicità. Basta un solo uomo per spingere gli altri verso il bene, purché essi manifestino un minimo di apertura verso l’altro, come nell’opera è dimostrato dal vecchio capocarceriere Rocco, che si lascia impietosire dalle richieste di Fidelio in favore dei prigionieri. Una società che non sia basata su questi presupposti, per Beethoven non ha vere speranze. Molto interessante in questo senso anche l’interpretazione del personaggio di Jaquino, che resta sordo ad ogni richiamo di sensibilità umana, come invece richiederebbe il continuo bussare alla porta del carcere nella prima scena. Con questa immagine l’autore ha voluto simboleggiare da un lato le ragioni dell’umanità che bussano continuamente alla porta di ogni uomo e dall’altro anche il rifiuto di chi intende la vita solo come possesso e personale interesse. Marzelline, infatti, si innamora di Leonora- Fidelio, per le sue qualità morali, le stesse che Jaquino non possiede.
La musica esprime in maniera mirabile i sentimenti e le idealità dei personaggi con i magistrali chiaroscuri, i momenti lirici, l’esaltazione della luce e del bene, nonostante la drammaticità della condizione umana, aprendo una visione quasi mistica sull’idea di libertà che accomuna tutti gli esseri umani, sebbene all’epoca la società fosse ancora autoritaria e rigidamente divisa in caste chiuse.

Come anticipavamo, altro elemento interessante, che distingue Beethoven da Verdi, è la fiducia tutta illuminista del primo nella possibilità di avere un monarca che sapesse governare con giustizia; questo nelle opere di Verdi non può più verificarsi perché i governi assoluti descritti dal compositore di Busseto sono figli della Restaurazione e non certo della Ragione, animati da cupidigia, corruzione, sopruso, al punto tale da aver diseducato il popolo, mosso solo dall’incoscienza e dalla paura; così anche il sovrano clemente non viene rispettato, ma eliminato. In questo senso nelle opere di Verdi domina una sostanziale sfiducia nel governo e/o nel suo rapporto con il popolo; pessimismo che non troviamo in Beethoven, segno che purtroppo i tempi erano cambiati e c’era stata una sostanziale regressione rispetto agli alti ideali della Rivoluzione francese al punto che tutto sembrava perduto.
Nel “Fidelio”, invece, il positivo epilogo finale è dovuto alla provvidenza e al diritto, poiché si ritiene che Dio non possa abbandonare l’uomo, ma anche che possano trionfare le ragioni della civiltà contro la barbarie. In questo senso l’opera di Beethoven è un miracolo, l’alba di un nuovo giorno dell’uomo che ancora oggi possiamo in gran parte solo immaginare.
Non c’è da stupirsi che un’opera così moderna e all’avanguardia fosse poi trascurata a lungo nell’Ottocento, e che sia stata riscoperta solo piuttosto di recente, pur avendo ispirato anche grandi compositori come Wagner e Mahler. Ciò spiega anche la condizione di Beethoven, che sempre si sentì isolato, esiliato nella propria epoca, amato dai contemporanei, ma, come un secondo Michelangelo, mai fino in fondo compreso, per l’universalità e l’idealità sovrumana delle sue visioni.
Il nuovo allestimento del Regio di Torino, in coproduzione con Opera Royal de Wallonie, per la regia di Mario Martone (autore del bel film sul Risorgimento italiano “Noi credevamo”) ha valorizzato in modo significativo le tematiche dell’opera sia nella scenografia di Sergio Tramonti, sia per la scelta di smorzare i possibili toni da commedia del primo atto e di esaltare, invece, l’elemento drammatico e le parti corali dove maggiormente si dispiega il messaggio universale dell’autore. La scelta di inaugurare con quest’opera la nuova stagione del Regio si inquadra perfettamente nelle celebrazioni conclusive dei 150 perché ricorda non solo gli ideali risorgimentali e ciò che è stato realizzato, ma anche quanto resta da fare, ciò che ancora di quegli ideali resta incompiuto o tradito.
Ci è capitato di sentire tra il pubblico anche qualcuno che ancora oggi non sa comprendere la bellezza del Fidelio definendolo “la solita opera tedesca, pesante”. Questo, sia detto senza mezzi termini, significa non capire la musica e forse neppure la funzione della lirica e del teatro e limitarsi alle storielle sentimentali che a prima vista il melodramma racconta. Fortunatamente ad assistere alla rappresentazione c’era anche un pubblico colto e attento che ha partecipato con calore e si è sinceramente commosso.
Per quanto riguarda gli interpreti dello spettacolo del giorno 11 dicembre, il soprano Ricarda Merbeth è stata molto applaudita dal pubblico per le qualità vocali e per la grande espressività con la quale ha dato vita ad un efficacissimo personaggio di Leonore; notevoli i mezzi vocali di Lucio Gallo che ha interpretato magistralmente il “cattivo” della storia, cioè Don Pizzarro; ottimo il soprano Talia Or (Marzelline) che ha tratteggiato il proprio personaggio con intelligenza e profondità, senza cedere a tentazioni macchiettistiche; buone anche le interpretazioni del basso Franz Hawlata nei panni del capocarceriere Rocco, di Robert Holzer (Don Fernando e del tenore Alexander Kaimbacher che impersonava il portinaio Jaquino. Unico caso in controtendenza il tenore Ian Storey che è apparso in grave difficoltà nella parte di Florestan: la voce è risultata poco timbrata, con acuti compromessi e problemi di intonazione.
Il direttore Gianandrea Noseda, che già in altre occasioni ci ha entusiasmato per le sue doti interpretative, su questa straordinaria partitura di Beethoven ha, se è possibile, superato se stesso, esprimendo lo spirito romantico del grande compositore tedesco, la sua filantropia illuministica, la luce della speranza, l’elegia dolcissima dell’amore come l’ira e la disperazione, lo sforzo titanico per affermare la verità contro tutti, il grande sogno della salvezza dell’umanità e della civiltà; tutto questo attraverso le innumerevoli sfumature dell’interpretazione musicale che con sapienza sono state raccolte e comunicate in un’unica grande e complessa unità concettuale e stilistica.

Rossana Cerretti



Don Giovanni l’immortale

2 01 2012

L’apertura della Stagione alla Scala tra stelle in crisi e “trovate” del regista Robert Carsen

Il “Don Giovanni” con il quale la Scala ha aperto la stagione 2012 si annunciava con un primo cast prestigioso: da Peter Mattei a Ildebrando D’Arcangelo (e/o Bryn Terfel), da Barbara Frittoli a Giuseppe Filianoti fino a Anna Netrebko, al punto da far registrare il tutto esaurito già all’apertura delle vendite (con immancabili polemiche annesse e connesse) e code interminabili per aggiudicarsi nei giorni di spettacolo i tradizionali 140 posti di loggione. Anche la regia di Robert Carsen era molto attesa perché presentata come decisamente innovativa e originale, secondo lo stile dell’estroso regista canadese. Perplessità, invece, già dall’inizio sul nome di Barenboim come direttore, notoriamente non molto amato dai loggionisti della Scala se non nel repertorio wagneriano e affini. L’esito finale ha in parte deluso le aspettative, almeno a giudicare dalla recita del 23 dicembre, ma ha anche fornito interessanti conferme e proposto ingegnose novità nell’interpretazione dell’opera.
Protagonista fin troppo invasivo, proprio il regista Carsen con tutte le sue trovate più o meno originali, coadiuvato da Michael Levine per le scene. L’idea di fondo consiste nell’ambientare il personaggio di Don Giovanni e le sue infinite storie di trasgressione in uno spazio metafisico per eccellenza, cioè nel teatro stesso, sottolineato prima da uno specchio che riflette l’interno della Scala, poi rompendo la finzione scenica attraverso le luci di sala accese in diversi momenti dello spettacolo. Le strutture dietro le quinte irrompono spesso sul palcoscenico, per poi ricomporsi in pannelli mobili che riproducono, creando infinite prospettive, il sipario rosso del teatro, volutamente ispirati alla tradizionale copertina dei libretti scaligeri. Ma quale sarebbe il significato di questo strano apparato? Il tentativo di Carsen, in parte riuscito, è stato di dare vita al mito di Don Giovanni piuttosto che raccontare la sua storia. In effetti, questo personaggio va oltre le definizioni di uno o dell’altro scrittore: dalle prime caratterizzazioni dell’”Ateista fulminato” della Commedia dell’arte a “El Burlador de Sevilla” di Tirso de Molina, da Moliere a Mozart fino a Kierkegaard e Camus ognuno ha inventato per l’inguaribile libertino nuove vicende da raccontare, e altrettante interpretazioni; episodi che rappresentassero aspetti diversi della sua personalità ed esemplificassero il giudizio di ogni autore a riguardo, ponendo l’accento, a seconda delle epoche, su svariati elementi.

Così Mozart e Da Ponte, da buoni illuministi, in Don Giovanni criticano soprattutto l’eccesso, la “barbarie”, intesa come incapacità di vivere secondo regole comuni; Moliere, invece, vede in lui un prototipo della corruzione di alcuni profittatori sociali, simile in questo a Tartufo, un affabulatore imbroglione che usa la nuova scienza per scopi nient’affatto scientifici, anzi, del tutto prosaici, e si trincera dietro il privilegio nobiliare. Sta di fatto, però, che Don Giovanni è stato spesso accostato proprio al personaggio di Faust per il comportamento trasgressivo e delinquenziale, quanto irriducibile; in questo senso Don Juan appare privo di redenzione più ancora di Faust anche perché incapace di provare paura perfino di fronte alla morte. Don Giovanni, perciò, da alcuni, come, per esempio, Albert Camus, è stato identificato nel prototipo dell’uomo assurdo, il ribelle, cioè l’emblema della libertà senza limiti, slegata dal futuro, dall’interesse e dalla contingenza. In definitiva egli incarna un vero e proprio superuomo senza speranza che va incontro all’autodistruzione senza rimpianti. E in effetti, il suo mito per quanto esecrato, non solo sopravvive, ma prospera ancora oggi. Questi sono i presupposti da cui è partito Carsen contrapponendo il carpe diem di Don Giovanni e il suo desiderio di assaporare ogni aspetto della vita in tutte le sue forme, ai divieti del potere. Così si spiega la scelta di far comparire nel primo atto il Commendatore dietro gli spettatori del palco reale. Don Giovanni, quindi, continua ad abitare tra noi, amato-odiato dalle donne e ammirato-invidiato dagli uomini, al punto che entrambi i sessi non possono fare a meno di subirne il fascino.

Tutte sono Elvira, Anna o Zerlina, incapaci di resistere alle sue seduzioni, tutti sono un po’ complici, come Leporello che, pur criticandolo, si identifica in lui e lo imita appena può. L’intenzione di Carsen era appunto quella di dimostrare come Don Giovanni non abbia mai smesso di andare in scena: egli è dunque immortale, mentre i suoi detrattori sono solo piccoli uomini come tutti gli altri, destinati ad essere dimenticati dopo la loro breve vita. Questo il senso dell’operazione metateatrale dove il regista suggerisce che i personaggi sulla scena siano consapevoli di stare recitando il Don Giovanni o, addirittura, facciano parte del pubblico stesso dello spettacolo e assistano divertiti all’azione; questo spiega anche le frequenti incursioni in platea e nei palchi circostanti degli interpreti durante la rappresentazione. In definitiva, nonostante le donne e gli uomini di tutte le epoche abbiano sempre demonizzato Don Giovanni, questo personaggio continua ad essere a amato e ricercato come un archetipo del mondo moderno: incarnazione dell’individualismo e del materialismo della società post galileiana e antesignano della relatività soggettiva e scettica della morale. Nello stesso tempo, la sua irriducibilità lo pone proprio in un confronto-scontro di aspirazione e repulsione con l’assoluto: è talmente “anti” da diventare egli stesso un concetto metafisico. In questo senso Carsen ha creato un’elaborazione scenica ingegnosa e con diverse invenzioni interessanti. Il risultato, però, non è molto coeso e coerente, e a volte la macchinosità dell’impianto prende il sopravvento sulla rappresentazione che diventa eccessivamente caotica e invasiva rispetto alla musica e all’azione scenica.


Per quanto riguarda i cantanti, lo spettacolo è stato caratterizzato da luci ed ombre: Peter Mattei è stato un ottimo Don Giovanni sia dal punto di vista vocale sia per l’interpretazione del personaggio, cinico, dandy, temerario quanto basta. Mefistofelicamente attraente, esaltando l’aspetto della vita come gioco vitalistico. Ildebrando D’Arcangelo è stato un Leporello, ancora migliore, comico, divertente, esilarante caricatura del padrone. Le voci di entrambi, solide e di bel timbro, non hanno mostrato difficoltà o incertezze di rilievo. Barbara Frittoli si è distinta per essere una Donna Elvira di carattere, ma innamorata perdutamente di questo protagonista inafferrabile dei sogni femminili; dotata di una sicura tecnica, ben utilizzata nell’interpretazione. Per sottolineare la sua situazione di eterna innamorata-disperata Donna Elvira recita praticamente per tutto lo spettacolo in sottoveste, inizialmente nascosta sotto un impermeabile “da viaggio”: ironia del regista, come versione femminile dell’esibizionismo tradizionalmente maschile. Carsen del resto, immagina che tutte le donne di fronte a Don Giovanni comincino a spogliarsi anche senza volerlo – Donna Anna compresa – con grande scandalo dei puristi, che avrebbero voluto fosse ribadito il tentativo di violenza carnale del protagonista sulla figlia del Commendatore. Ma naturalmente, ciò non era consentito dalla lettura dell’opera data dal regista. A questo riguardo è da segnalare anche la presenza del nudo con la cameriera di Donna Elvira che, dopo aver amoreggiato con Don Giovanni, assistendo alla famosa scena dello scambio con Leporello, si alza dalla sedia e torna indietro, vestita delle sole autoreggenti, per portarsi via il libretto dell’opera.


Purtroppo Anna Netrebko, molto attesa come donna Anna, ha dato forfait alla recita del 23 dicembre come già si era verificato nella precedente. Così, con disappunto, qualche loggionista ironicamente ha commentato: “Insomma praticamente aveva già fatto le valigie”. Delusione del pubblico a cui non ha posto rimedio la sostituzione con Tamar Iveri. La sua performance è apparsa debole, come del resto la voce: l’emissione ha dato una generale impressione di difficoltà, con suoni spesso poco udibili oppure, nei momenti di maggiore impegno, quasi urlati e scarsamente controllati. Giuseppe Filianoti, noto interprete nel repertorio belcantistico è apparso in difficoltà negli acuti e con problemi di intonazione rilevati a volte anche con mormorii inequivocabili del pubblico. Molto applauditi da alcuni Anna Prohaska (Zerlina) e Štefan Kocán (Masetto). In realtà soprattutto Zerlina ci è parsa dotata di una voce veramente esile, poco aggraziata e piuttosto incolore nell’interpretazione. Abbastanza bene Kwangchul Youn nei panni del Commendatore, soprattutto nella parte finale della statua misteriosa e orrifica. La direzione di Barenboim, confermando i timori iniziali, non ha convinto: soprattutto è apparsa priva di brio, piuttosto pesante e lenta, tra l’altro in netto contrasto con le scelte registiche, che, come abbiamo visto, esaltavano l’ironia e l’aspetto giocoso della coppia Don Giovanni-Leporello. Tra il pubblico, c’è stato anche chi non ha digerito un finale controcorrente rispetto alla tradizione, ma non bisogna mai dimenticare che sia Mozart sia soprattutto Da Ponte incarnavano con la loro vita, fatta di genio e sregolatezza, proprio il mito di Don Giovanni, al di là dell’epilogo apparentemente moraleggiante dell’opera.

Rossana Cerretti



Un Trovator incantò

26 12 2011

L’atteso debutto del tenore Francesco Meli nel ruolo di Manrico alla Fenice di Venezia

Il Trovatore è sempre un evento, per la meravigliosa partitura verdiana e per i ritmi teatrali serrati ed efficacissimi dove si intrecciano e si scontrano amore e guerra, necessità e libertà, potere e anarchia variopinta dei gitani.
Ma a rendere speciale lo spettacolo della Fenice della prima metà di dicembre era anche l’atteso debutto del tenore Francesco Meli nel ruolo del protagonista, il quale, dal canto suo, non ha deluso le aspettative degli appassionati. Meli è stato un Manrico sensibilissimo e lirico, passionale ed eroico, giovane dalle grandi aspirazioni, ma insicuro e incerto sulle sue origini. Cieco, come tutti, e, soprattutto, come l’ignaro fratello, Conte di Luna, di fronte ai molti presagi, alle coincidenze inspiegabili, alle strane e terrificanti rivelazioni della zingara che egli crede sua madre. Il giovane tenore genovese ha conferito all’opera una suggestione unica per la dolcezza virile del timbro, la chiarezza della dizione caratteristica del suo stile e per l’incanto indicibile di alcune arie come il dolcissimo e appassionato “Ah sì ben mio”. Meli ha sostenuto egregiamente l’opera insieme agli altri interpreti principali, creando uno spettacolo che ha emozionato ed entusiasmato il pubblico. Anche la famosa “pira”, la micidiale cabaletta che dovrebbe
terminare con il classico do acuto, peraltro mai scritto da Verdi, ma che fa parte della tradizione operistica, è stata affrontata bene da Meli, con l’esecuzione del da capo – quello sì previsto da Verdi, ma che non sempre viene cantato – terminandolo con l’acuto della tradizione. L’unico momento di leggera difficoltà si è verificato nella parte finale del successivo “All’armi”, che conclude la scena, dove la voce non è sembrata abbastanza potente e sicura. Un’incertezza, che, comunque, non penalizza un’interpretazione di alto livello.


Notevoli anche gli altri protagonisti come la brava Maria José Siri che, pur non avendo un timbro sempre ineccepibile, è dotata di una buona tecnica e ha interpretato una Leonora piena di energia e di coraggio. Franco Vassallo nei panni del Conte di Luna ha dato buona prova di sé anche se non sempre è riuscito a risolvere a livello vocale e interpretativo la complessità del personaggio oscillante tra una passione amorosa immensa quanto disperata e l’odio geloso per il fratello suo mortale nemico. Il Conte è apparso a volte troppo sbilanciato verso questo secondo aspetto, personaggio autoritario e forse poco duttile, privo dei cedimenti emotivi di un uomo innamorato. Veronica Simeoni, che interpretava Azucena, non è dotata delle note gravi e profonde che caratterizzano in genere altre interpreti della misteriosa zingara, le quali, però, finiscono spesso per sacrificare le molte incursioni in zona acuta della partitura. Proprio valorizzando questi tratti la Simeoni ha conferito un personale carattere al personaggio, sottolineando l’aspetto quasi delirante della zingara che corre verso la propria rovina come mossa da una forza che proviene dall’oltretomba, tanto che neppure gli altri gitani amano ascoltarla nelle sue terrificanti rievocazioni. Ella appare divorata da un desiderio di vendetta come un’ossessione incontrollabile che non è neppure sua, ma le viene dalla madre arsa sul rogo, la cui anima perduta continua ad aleggiare e ad apparire di notte agli incauti che osano avventurarsi nell’oscurità.
Efficace anche l’interpretazione di Ferrando da parte del basso Giorgio Giuseppini.
Senza infamia e senza lode la regia e l’allestimento già prodotti dal Regio di Parma per la scorsa edizione del Festival Verdi. Decisamente rigida e troppo veloce la direzione del maestro Frizza al quale sono state tributate sonore e non immotivate contestazioni.
Il Trovatore, comunque, vince sempre nel cuore del pubblico, come dimostrano le ovazioni finali per l’opera forse più bella che Verdi abbia mai scritto.

 



TANNHAUSER E LA “MANO” DI DIO – La Fura dels Baus e il suo allestimento super tecnologico alla Scala

13 04 2010
Un’Ouverture come quella del Tannhauser, andato in scena alla fine di marzo alla Scala, fa subito pensare alle visioni più solenni, ai grandi misteri della nostra esistenza, alle passioni, all’energia vitale che pervade ogni fibra dell’essere umano, al suo slancio verso un mondo «altro», cosmico, forse incomprensibile e irraggiungibile se non attraverso l’arte e la sua conoscenza profonda e onirica dell’essere. Riconoscendosi nelle affermazioni di Schopenhauer, nella musica Wagner cercava l’espressione stessa della Volontà di vita, il misterioso motore del mondo, perpetuo ed eterno come la sua «Melodia infinita», da trascendere attraverso l’arte nella visione degli archetipi universali della Bellezza e dell’Amore. Tannhauser rappresenta l’autonomia dell’artista rispetto alla società, ma anche alla divinità e la sua certezza di non appartenere ad alcun mondo e ad alcun potere, proteso nella ricerca di una propria via, la via della libertà, quella che né il Venusberg né la Wartburg gli consentono. Il leggendario cantore intende levarsi oltre e al di sopra del divino se per divinità si intende un’entità che mira ad imbrigliare l’uomo nei meccanismi di una rivelazione, di una conoscenza data per acquisita e quindi, in qualche modo, non conquistata e né cercata.
Tutti gli chiedono di accettare quella conoscenza e quel limite, lo implorano di fermarsi, di non continuare il suo cammino, ma Tannhauser, il trovatore profetico, non appartiene né al platonismo senz’anima né a Venere, perché ciò che davvero lo spinge è lo spirito dionisiaco che unisce indissolubilmente le più grandi esperienze mistiche e i più estremi piaceri carnali. L’artista deve conoscere tutto, solo così potrà apprendere ciò che esiste al di là. La Fura dels Baus e il regista Carlus Padrissa hanno colto pienamente questo aspetto del Tannhauser, tutto proteso verso la rivelazione delle grandi verità sul mondo e sull’uomo in un affascinante viaggio alle origini della vita attuato non con i mezzi della scienza, ma con quelli dell’arte. Se poi alle immagini sublimi che vorticano davanti agli occhi dello spettatore aggiungiamo la direzione del maestro Zubin Metha, che valorizza pienamente la meravigliosa varietà del cromatismo wagneriano, l’effetto è assicurato. La musica di Wagner con le sue molteplici sonorità, con il tipico andamento a spirale che galvanizza lo spettatore fino al parossismo assume così una potenza trascinante, si riempie di suoni evocativi, di vento, di acque, di ninfe e di abissi del tempo e dello spazio, per poi ritornare ai richiami della terra, ai prati e ai boschi, alle danze e agli armenti. Intanto sulla mano della divinità che sempre sovrasta la scena (sofisticato gioiello di automazione meccanica) viene scritto incessantemente, racchiuso in una serie infinita di simboli, il destino dell’uomo e del mondo.
Sono state ideate visioni e «macchine» altamente tecnologiche per questo allestimento, utilizzando costantemente proiezioni dietro e davanti alla scena, evocando così un paesaggio sempre surreale, sia all’interno della grotta del Venusberg sia all’esterno di essa nel cosiddetto «mondo reale». Cosiddetto perché per La Fura del Baus forse è più reale il Venusberg di ciò che noi consideriamo «vero». Un omaggio a tutti i grandi visionari del passato, coloro che con le loro ardite innovazioni hanno permesso allo spirito umano di procedere nella civiltà. Giunto nel mondo fenomenico, infatti, Tannhauser si ritrova prima in un deserto popolato da strani cavalieri primitivi, poi deve fronteggiare la gara della Wartburg ambientata in una sorta di corte di un antico maraja, una bollywood coloratissima e vacua che nulla ha della solennità drammatica dell’arte del grande trovatore.
L’amore cantato dagli altri poeti non ha carne né sangue, non è sofferto né vissuto. Soprattutto nessuno è consapevole che esso con la sua primitiva e ancestrale energia è il vero e unico motore del mondo, ciò che suscita la tragica quanto insopprimibile, perché profondamente umana, volontà di vita. Per tutti gli altri l’amore è uno stilema senza corpo né anima, una fredda entità platonica. Questo emerge dall’allestimento geniale della Fura del Baus: il mondo reale è il vero velo di Maya assai più del Venusberg da dove si sprigiona la vita di ogni essere. Anche la grotta di Venere, il luogo dell’immortalità, sta però stretto al grande cantore erede di Orfeo. Egli lo afferma chiaramente fin dall’inizio dell’opera: come un novello Ulisse dell’arte egli ha bisogno di soffrire e morire, toccando così l’essenza del mondo. Di fronte alla sua poesia «scandalosa», perché vera, soltanto Elizabeth applaude, perché forse ella rappresenta l’elemento apollineo che sempre si accompagna al dionisiaco, perfetto, ma inscindibile dal suo compagno sotterraneo e nascosto che ne è l’anima stessa. Così, alla fine, Tannhauser si salverà morendo, non per il perdono della divinità, ma per la sua stessa capacità di sublimarsi e andare oltre il pensiero, insieme alla perfezione celeste di Elizabeth. Il prezzo da pagare è il passaggio nel mondo dello spirito, il raggiungimento di un’altra dimensione. Come sempre in Wagner la sublimazione e l’inscindibilità finale avvengono attraverso l’unione con l’assoluto che può compiersi pienamente solo con la morte. Se l’allestimento e la regia – ingiustamente fischiati dal pubblico alla prima per le loro caratteristiche così innovative – e la direzione di Metha hanno fatto di questo Tannhauser una versione da ricordare, non altrettanto si può dire, purtroppo, dei cantanti (almeno nello spettacolo che abbiamo seguito il 27 marzo scorso). Innanzitutto perché il tenore Robert Dean Smith, mancava della potenza necessaria per sostenere il ruolo del protagonista che dovrebbe essere dotato di grande energia comunicativa ed emotiva. Del resto il personaggio di Tannhauser richiede delle capacità di tenuta vocale ai limiti dell’eccezionalità. Tra le interpreti femminili la migliore è stata sicuramente Anja Harteros una Elizabeth sensibile e di notevole espressività, ma anche Julia Gertseva (Venus) si è distinta seppure con qualche incertezza. Non altrettanto si può dire di Roman Trekel (Wolfram) che è apparso spesso in difficoltà e ha interpretato il famosissimo «O du, mein holder Abendstern» senza alcuna passione né chiaroscuro.
Più che gli interpreti, insomma, è stato interessante l’allestimento in generale e l’immaginoso susseguirsi di colori e suoni in una continua sarabanda di visioni che si esprimono in modo metafisico e surreale e interpretano egregiamente quella mistica pagana e decadente, estetizzante ed eroica tipica dell’universo poetico wagneriano. Da questo punto di vista si può parlare senz’altro di un’occasione perduta.


“L’amore ond’ardo” – Il fuoco inestinguibile delle passioni nel “Trovatore”

14 04 2009

Trovatore

«Il Trovatore» è la tragedia del fuoco, ovunque divampa in modi diversi, ma sempre feroce e autodistruttivo. Sono i gitani, il signori del fuoco, uomini reietti e fatati, che lo usano per forgiare i metalli, ma anche per le loro magie e le loro vendette. Essi animano mirabilmente le parti corali dell’opera, che sono tra le più belle della produzione verdiana. E’ questa l’altra essenziale caratteristica di questo melodramma «popolare», come dimostrano anche la scena iniziale e le parti dedicate alle schiere dei due eserciti in lotta.
Come in certi canti della Divina Commedia, anche nel libretto di Salvatore Cammarano un’unica immagine simbolica dà forma a tutte le altre. Il fuoco dell’odio e dell’amore, della crudeltà e del dolore, del supplizio finale e della guerra. La fiamma che tutto arde e riduce in cenere.
A evocarlo involontariamente è quella sorta di danza delle streghe intonata da Ferrando all’inizio dell’opera, con un andamento che ricorda un girotondo ritmico e che evoca anche nelle parole la leggenda del fantasma della zingara maledetta, condannata al rogo e di sua figlia, rea di avere per vendetta sacrificato addirittura un bambino, il figlio del conte che ha rapito.
«È credenza che dimori
Ancor nel mondo l’anima perduta
Dell’empia strega, e quando il cielo è nero
In varie forme altrui si mostri.»
Esseri fatati gli zingari, le loro leggi sono diverse da quelle degli altri uomini, così come il loro modo di reagire selvaggio e imprevedibile: la figlia Azucena, in realtà, ha gettato come in stato di trance il proprio figlio nel fuoco al posto del bambino rapito e così si è compiuto lo scambio. Un errore fatale, voluto dalla presenza oscura della madre che sembra assetata di una vendetta esemplare: non le basta vendicarsi prendendo una vita sola per la propria, ma tutta la casa del Conte dovrà cadere nella rovina.
Il cerchio di fuoco si stringe intorno alla famiglia del Conte di Luna a sua insaputa, e la danza si fa sempre più vorticosa e terribile. I due fratelli ignari di essere consanguinei, vivono una violenta e crudele passione amorosa, entrambi per la stessa donna, una passione che è inferiore soltanto al desiderio reciproco di vendetta e di vedere morto l’altro contendente. Si direbbero davvero vittime di un incantesimo maligno.
Le forze oscure dell’oltretomba, ormai uscite allo scoperto, suscitano casi sempre più drammatici: Azucena presunta madre di Manrico, viene riconosciuta da Ferrando e condannata a sua volta al rogo. Manrico, come in ogni tragedia che si rispetti, corre in suo aiuto deciso a liberarla o a vendicarla.
Come sempre accade in questi casi, l’odio divora l’amore e la prima vittima è proprio la dolce e sognatrice Leonora: Manrico la abbandona così all’altare, facile preda del Conte di Luna e dei suoi ricatti. Il Trovatore, infatti, è un uomo coraggioso, ma un pessimo soldato. Guidato più dall’istinto e dalle emozioni che si susseguono frenetiche che dalla ragione e dal realismo, alla fine, viene fatto a sua volta prigioniero. Il Conte di Luna ora più che mai vuole la sua testa, lo ha giurato fin dall’inizio quando ha subito l’affronto più grande: essere scambiato per il Trovatore e poi essere respinto da Leonora, quasi con violenza, senza alcuno scrupolo se non quello dell’amore per il suo rivale. «Un accento proferisti che a morir lo condannò» urla pazzo di dolore, e così sarà, come in un giuramento a se stesso. Non serve, per lui pensare di stare abusando del proprio potere per frenarsi. La sua indomita passione per Leonora sembra fargli dimenticare tutto: dice di vederla come una stella che lo illumina (Il balen del suo sorriso D’una stella vince il raggio!) ma dentro di sé cova un profondo risentimento, pronto a scoppiare.
Sarà proprio il Conte con la sua passione amorosa senza freni e il suo odio contro Manrico a decretare la fine anche della sua stessa famiglia: Leonora per non cadere nelle sue mani si avvelena e il Trovatore subito dopo viene giustiziato. Su tutti domina la figura di Azucena, che gli dei lasciano dormire, di un sonno tutt’altro che provvidenziale – degno di un’opera omerica – quasi non fosse partecipe della vicenda. In realtà è lei l’artefice di tutto, combattuta com’è tra l’affetto che in qualche modo prova per quel figlio non suo e le parole indelebili della madre «Mi vendica!». L’immagine incancellabile del suo supplizio con le chiome ridotte in faville e gli occhi che schizzano dalle orbite la perseguita senza tregua. Alla fine è la vendetta a prevalere e la violenza folle non risparmia neppure l’amore di Leonora e Manrico il quale prima la maledice e poi, ma troppo tardi, si pente: «Insano, ed io quest’angelo osava maledir». Il cerchio di fuoco si stringe intorno ai protagonisti. Alla fine non resta di amore e dolore, di vendetta e odio, di magia e passione che un cumulo di cenere fumante…