TEMPESTE

20 06 2009

Quando ti trovi nella tempesta sappi chi c’è con te sulla barca…

 

 

In quel giorno, verso sera, disse Gesù ai suoi discepoli: "Passiamo all’altra riva". E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: "Maestro, non t’importa che moriamo?". Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: "Taci, calmati!". Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?". E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: "Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?"

Mc 4,35-41

   tempesta-sedata

 

De profundis clamavi ad te, Domine;
Domine, exaudi vocem meam.
Fiant aures tuae intendentes
in vocem deprecationis meae.
Si iniquitates observaveris, Domine,
Domine, quis sustinebit?
Quia apud te propitiatio est,
ut timeamus te.
Sustinui te, Domine,
sustinuit anima mea in verbo eius;
speravit anima mea in Domino
magis quam custodes auroram.
Magis quam custodes auroram
speret Israel in Domino,
quia apud Dominum misericordia,
et copiosa apud eum redemptio.
Et ipse redimet Israel
ex omnibus iniquitatibus eius.



IAM TECUM EST NOSTRA SUBSTANTIA

24 05 2009



Paradiso_Canto_31a

IAM TECUM EST NOSTRA SUBSTANTIA


BeatoAngelico_PolitticoGuidalotti

DONEC OCCURRAMUS OMNES IN VIRUM PERFECTUM

ilparadisobangelico

IN MENSURAM AETATIS PLENITUDINIS CHRISTI

beato-angelico1

(cliccate sull’immagine per ascoltare il "Te Deum" di Arvo Part))

 

 



Quem queritis? – Chi cercate?

11 04 2009

 L

 Chi cercate? Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato

E’ vivo cercatelo tra i vivi…

 

Altarpiece of Holy Sepulcher Discesa agli Inferi

 

La vita e la morte si affrontano oggi in un prodigioso duello, il Signore della vita morto, regna vivo

Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus.

Dic nobis Maria, Quid vidisti in via?

Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis…

 

Victimae Paschali laudes immolent Christiani.

Agnus redemit oves: Christus innocens Patri reconciliavit peccatores.

Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus.

Dic nobis Maria, Quid vidisti in via?

Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis,

Angelicos testes, sudarium et vestes.

Surrexit Christus spes mea: praecedet suos in Galilaeam.

[Credendum est magis soli Mariae veraci Quam Judaeorum Turbae fallaci.]

Scimus Christum surrexisse a mortuis vere: Tu nobis, victor Rex miserere

Amen. Alleluia.

(sequenza del giorno di Pasqua sec. XI)

Alla vittima pasquale i cristiani innalzino il sacrificio di lode,

l’agnello ha redento le pecore, Cristo innocente ha riconciliato i peccatori col Padre.

La morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita morto, regna vivo.

Dicci, o Maria, cosa vedesti sulla via?

Il sepolcro del Cristo vivente e la gloria di colui che risorge;

gli angeli testimoni, il sudario e le vesti;

[Dobbiamo credere alla sola veritiera Maria Maddalena che alla turba fallace dei Giudei]

E’ risorto Cristo, mia speranza e precede i suoi in Galilea.

Sappiamo che Cristo è veramente risorto dalla morte. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi.

Amen. Alleluia.

 



E DISCESE NEGLI INFERI… Sabato santo

11 04 2009

ET PORTAE INFERI NON PRAEVALEBUNT

Cristo apre le porte degli Inferi - San Salvatore in Chora Istanbul

Cristo spalanca le porte degli Inferi e porta con sé i giusti

Una visione di speranza nel dolore di questi giorni

 

exspolians principatus et potestates, scilicet infernales, auferendo Isaac et Iacob et ceteros iustos, traduxit eos, idest, longe ab hoc regno tenebrarum ad caelum duxit

Discesa di cristo al Limbo



CHI SEI TU?

7 04 2009

piero della francesca resurrezione

 

A me piace pensarlo così, risorto con i piedi ben piantati sulla terra ad affermare quello che da sempre è l’unità totale della realtà e la sua inscindibile divinità. Non si può uccidere l’immortale.

piero della francesca battesimo

 

L’espressione perfetta dell’immagine divina del’uomo

 

San Francesco predica agli uccelli

 

Immagine dell’estrema compassione per tutti gli esseri viventi

 

icona russa storie della vita di cristo 

C’è sempre una sola casa da riparare: il proprio cuore



CRISTO E IL DEMONE INTELLIGENTE – L’inutilità del sapere fine a se stesso

1 02 2009
Cristo scaccia il demone«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga [a Cafàrnao] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: "Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!". E Gesù gli ordinò severamente: "Taci! Esci da lui!". E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: "Che è mai questo? Un insegnaménto nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!". La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.»
 
Cristo scaccia i demoni

Questo episodio del Vangelo secondo Marco (1, 26-38), illustra il curioso rapporto tra Cristo e i demoni nei Vangeli. E’ particolarmente significativo, infatti, che il demone sappia chi sia Cristo e lo riconosca chiaramente, però, invece di adorarlo, cerchi di evitarlo, come se non sapesse barattare il proprio ego con la grandezza che si trova di fronte.
Cristo viene percepito come un concorrente sgradito, eppure il demone sa che esiste il bene, ma non vi aderisce, non vuole ammettere che ci sia qualcosa di più alto oltre il proprio io, sa tutto, ma non ha il coraggio di rinnegare se stesso.
La lotta si scatena perché Cristo insegna con autorità e quindi sta diffondendo una nuova dottrina. «Sei venuto per rovinarci» afferma il demone, perché d’ora in avanti l’uomo non potrà più pensare di essere indegno di Dio e lontano da Lui, visto che Dio si è fatto uomo.
«Rovinarci» perché viene affermata la divinità dell’uomo e la sua possibilità di essere perfetto, così i demoni del dubbio, dello scetticismo e della disperazione non potranno più insinuarsi in lui. Egli si sentirà forte e capace di giungere al bene poiché è consapevole di portarlo in se stesso. Inoltre Cristo con il suo estremo sacrificio, con l’atto di più alta compassione nei confronti del genere umano batterà la morte stessa, incluso il demonio. Viene sconfitto il demone del dubbio sulla bontà della natura umana e dello scetticismo sul valore dell’esistenza: infatti il credente, in genere, è un uomo che in qualche modo crede in se stesso e nella vita, magari inizialmente anche come avversario di Dio (come, per esempio, San Paolo), ma ci crede.
Ecco cosa significa «Sei venuto a rovinarci», perché Cristo è la testimonianza diretta che esiste una via alla verità: la verità nuova sull’uomo fa scattare il demone.
E’ lo scontro tra colui che ha appena ricevuto lo Spirito Santo durante il battesimo impartitogli da Giovanni il Battista – e che ha rifiutato Satana tre volte nel deserto – e l’angelo caduto che cerca il male attaccato alle illusioni della carne (tanto che strazia l’uomo andandosene), raggomitolato e chiuso in un sé-centrismo che non gli fa vedere altro che il proprio lamento e la rabbia. Un essere che non sa rinunciare a se stesso e alla propria miseria, pur vedendo la grandezza di Dio.
Lo comprende con l’intelletto, ma non aderisce con la volontà; situazione incredibile per una «sostanza separata»: un essere che sarebbe una diretta emanazione di Dio stesso (costituito da puro intelletto, secondo San Tommaso) non sa poi aderire alla divinità che pure egli vede con maggiore chiarezza di qualsiasi uomo…
La novità del messaggio, però, lo colpisce: nulla sarà più come prima perché Cristo è venuto a testimoniare la divinità della natura umana.
Come sottolinea Dante nel XXXIII canto del Paradiso:
 
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

All’interno dei tre cerchi che rappresentano la natura stessa di Dio egli scorge l’effigie dell’uomo nella sua più autentica e profonda realtà…
 
 
 

 



LA GENESI DELLA BELLEZZA – Geometria, luce, spazio nel “Battesimo di Cristo” di Piero della Francesca

20 01 2009

Qualche giorno fa mi è capitato di citare il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca a proposito del rapporto tra Oriente ed Occidente nella metà del ‘400 e in particolare tra Chiesa orientale ed occidentale.
Allora i miei alunni, che avevano appena sostenuto una verifica sull’argomento hanno esclamato: «No, non ci si metta anche lei, non ne possiamo più di Piero della Francesca! »
Ma io ho risposto: «Voi non capite il privilegio che avete: mentre molti nel mondo sono sempre costretti a preoccuparsi di come riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, e non potranno conoscere l’arte e la poesia, voi potete godere ogni giorno di tanta bellezza! ».
Chissà che cosa avranno pensato, forse che la profe era impazzita o esaltata, ma io la penso proprio così, non l’ho detto per dire, e adesso vi spiego perché… 

Nell’ambito del Cristianesimo l’episodio del battesimo di Cristo è fondamentale, perché rappresenta «un’investitura» ufficiale da parte di Dio Padre nei confronti del Figlio; durante il rito, si svela poi, la Trinità e quindi uno dei dogmi fondanti della fede cristiana. Inoltre, in questa vicenda si unisce l’antica dottrina e la nuova, l’Antico e il Nuovo Testamento; perciò il gesto del battesimo, praticato all’epoca dagli asceti appartenenti alla setta ebraica degli Esseni, unisce l’ultimo dei profeti con il nuovo messia. Un cambiamento che avviene attraverso l’acqua, come, ad esempio, per il paesaggio del mar Rosso, che rappresenta una nuova fase della storia del popolo ebreo.
In questo quadro si addensano, perciò, significati teologici, religiosi e filosofici di grande importanza, ai quali Piero della Francesca aggiunge anche contenuti legati all’attualità del suo tempo.
All’epoca, infatti, il concilio di Firenze per la riunificazione della Chiesa d’Oriente e d’Occidente aveva discusso sul difficile argomento della Trinità che, come è noto, è ancora oggi uno dei punti discriminanti per quanto riguarda le differenze tra cattolici ed ortodossi. A questo concilio aveva partecipato il teologo Ambrogio Traversi appartenente all’ordine dei camaldolesi che commissionò la pala a Piero della Francesca nel 1448. Così nel quadro c’è un’allusione a tale importante concilio attraverso la presenza di personaggi in costumi orientali visibili sullo sfondo e nell’immagine, atipica per il mondo occidentale, dei tre angeli che assistono all’evento, i quali si riferiscono alla cosiddetta «antica trinità» venerata soprattutto in Oriente.
Si sperava allora in una riunificazione delle due Chiese che poi non fu possibile realizzare. L’atteggiamento di Piero in relazione a questa materia così piena di sollecitazioni teologiche e trascendenti, legate a realtà divine eterne è molto interessante: da buon matematico e cultore della geometria la verità per lui è un concetto basato sulla perfezione formale degli elementi.
Ispirato dall’idea che poi ritroveremo nel De divina proportione dell’amico Luca Pacioli, egli trae dalle figure della geometria la legge armonica su cui si basa l’essenza stessa della realtà sulla terra e dei mondi celesti. Così i centri geometrici della composizione sono costituiti da due quadrati sovrapposti nella figura del Cristo, e da un cerchio il cui punto centrale è situato nella colomba dello Spirito Santo. Il centro celeste è lo Spirito Santo, punto focale della discussione del Concilio di Firenze e della sua funzione tra Padre e Figlio (ricordiamo la famosa definizione «procede dal Padre e dal Figlio» mentre per gli ortodossi procederebbe solo dal Padre), mentre il centro della terra è situato nell’ombelico del Cristo intorno a cui tutto ruota. Concetti che ritroviamo anche nei predicatori dell’epoca i quali  vedevano nel Cristo uomo-dio il centro dell’universo. Elemento teologico che per Piero diventa fonte di ispirazione della sua perfetta geometria.
La costruzione di figure geometriche perfette diventa quindi specchio dell’assoluto e in questo senso l’esistente per Piero della Francesca è unicamente realtà dell’Essere, totalmente essenza, tanto che potremmo definire «parmenidea» la sua visione del mondo.
A riprova di ciò notiamo la totale assenza di ombre nella composizione, perché tutto è illuminato in valore assoluto da ogni parte; ogni esistente non riceve luce sensibile o solare, ma una luce cosmica che giunge da qualunque punto e che risulta interna alle figure stesse.
Se questo non bastasse a creare un’opera eccezionale, il nostro Piero, aggiunge anche le altre realtà di fede implicite nell’episodio evangelico e sempre alla sua maniera, ovvero per mezzo della costruzione formale, questa volta ricorrendo alla creazione dello spazio. La profondità spaziale è ottenuta dall’Albero della Vita, che si trova tra il Cristo e gli angeli, e dalla disposizione a semicerchio di questi ultimi. Il fiume Giordano resta dietro, e sebbene ci sia una persona che si sta togliendo le vesti per ricevere a sua volta il battesimo, il Cristo non è immerso nell’acqua, come tradizionalmente avveniva soprattutto nei dipinti bizantini.
Piero nella sua opera intende sottolineare che la novità del Nuovo Testamento ha superato il Vecchio, rappresentato dagli angeli e dal Giordano, ma la rivelazione vetero-testamentaria ne è la base irrinunciabile, poiché crea lo spazio in cui agirà il Nuovo.
Inoltre, l’Albero della Vita al centro, secondo il Physiologus, sarebbe il peridexion l’albero indiano dove i colombi si posano, ma al quale il drago (serpente) non si può avvicinare (in antitesi all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male nel giardino dell’Eden). Esso protegge dal drago i colombi che vivono nella sua ombra, inoltre quando l’ombra dell’albero è proiettata verso Occidente, il drago fugge ad Oriente, quando invece è proiettata verso Oriente, esso fugge ad Occidente, elemento che potrebbe spiegare l’assenza di ombre nel quadro: il drago, cioè, è fuggito da Oriente e da Occidente, con la pacificazione delle due Chiese. “Il frutto celeste dell’albero è la saggezza dello Spirito Santo ricevuto dall’uomo coi sacramenti”, recita il Physiologus, identificando così l’albero stesso con la funzione della Chiesa.
Sullo sfondo, poi, i personaggi con un vesti e copricapi orientali, alluderebbero, secondo le interpretazioni più recenti, alla presenza in quel concilio dell’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo e di alte personalità della Chiesa d’Oriente.
La presenza che unisce tutte queste realtà, cioè Antico e Nuovo Testamento e i due Patriarchi di Roma e di Costantinopoli è una sola: Cristo, la cui verità viene mostrata nella perfetta integrità del suo corpo, elemento fisico e metafisico insieme.
In questa visione perfetta ogni elemento risulta fondamentale, come la presenza dei tre angeli che ricorda, come abbiamo detto, la definizione vetero-testamentaria della Trinità (i tre angeli che si recano da Abramo e Sara) ripresi poi i molti dipinti orientali (ricordiamo quello famosissimo di Rubliev) e allude al dogma in senso dottrinale, ma anche cosmico.
I tre angeli si tengono per mano, ad indicare che ognuna delle persone nella Trinità effettua un mutuo scambio con le altre senza alcuna gerarchia. Suggerisce, inoltre, l’idea di una superiore concordia ed armonia (come nell’immagine pagana delle Grazie) su cui si basa l’universo creato, immagine impressa nell’essenza divina.
A riguardo possiamo far riferimento anche a Dante, il quale nell’ultimo canto del Paradiso scorge all’interno della mente di Dio proprio una forma geometrica perfetta, unione di tutte le geometrie fisiche e metafisiche.
Inoltre la mancanza di ombre appare come un ulteriore omaggio all’arte bizantina, poiché in essa, si tratti di affreschi o di icone, la luce è sempre «divina», mai basata sui dati sensibili. La luce di Piero, però, è quella di un uomo del Rinascimento, del tutto convinto che il cosmo rifletta in ogni suo elemento la Sapienza: le cose non appaiono smaterializzate, ma colte secondo un potenziamento dei sensi, evidenziate con la massima chiarezza possibile.
Così Piero della Francesca diventa il geniale interprete della natura divina del cosmo quale frutto della mente trinitaria  che si manifesta tanto nella fragile apparenza del filo d’erba quanto nella metafisica verità della sezione aurea.
 


UN AUGURIO SPECIALE

1 01 2009

Il Duomo di Brescia con la neve 1-1-2009

 

Brescia questa mattina con la neve. In primo piano vedete il Duomo Vecchio una delle più antiche e suggestive costruzioni romaniche della città, pressoché unica in Italia, essendo a pianta centrale e a due piani. Probabilmente fu costruita così per la sua funzione di martyrium cioè una chiesa-santuario per la conservazione delle reliquie.
Essa conserva, infatti, la preziosa reliquia della Santa Croce che, con la sua stauroteca bizantina, fu portata a Brescia, secondo la tradizione, dal duca Namo di Baviera all’epoca di Carlo Magno. 
Si tratta di un frammento del legno della croce di Cristo rinvenuta da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino in Terrasanta. Molto probabilmente tale reliquia, essendo legata a Costantino il Grande, era messa in relazione anche con la sacralità del potere imperiale, con l’ideale trascendente della giustizia e della pace.
Non so perché vi sto raccontando questa storia, forse perché qui è passata la devozione di tutta la città fin dai tempi più antichi – dal momento che la Santa Croce nel Medioevo era issata anche sul Carroccio di Brescia – e perché mi ricorda la Terrasanta e quello che sta succedendo là proprio in questi giorni. 
All’ingresso di questa chiesa c’è la famosa tomba monumentale del vescovo Berardo Maggi che viene ricordato dai rilievi scolpiti nel XIII secolo per aver riportato la pace nella città tra le famiglie delle fazioni in lotta tra Guelfi e Ghibellini.
Coloro che governano dovrebbero pensare di meritare una scultura come questa sulla loro tomba: dove gli uomini si scambiano "le paci".
Qui nei giorni festivi vado a cantare la messa in latino in gregoriano, e a volte sento sul serio le voci della fede dei padri arrivare fino a me, nella luce della storia. Questo tempio ha un’anima e così possa essere per noi: la nostra storia possa diventare un tempio interiore della nostra vita.

Questo è il mio augurio e non solo per quest’anno.

 

 



Fa’ un’isola di te stesso, opera celermente, sii saggio – Della felicità e delle passioni

26 12 2008
5 Dicembre 2008
Edvard Munch Sun
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
 Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato…

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Esiste probabilmente un unico modo per evitare che la vita sia questo insensato abisso di dolore descritto così bene dal Leopardi: lasciare quel fascio di tutto ciò che ci «appartiene» e ci pesa addosso, di tutto il nostro «amor proprio» (che non è autentico «amore a sé», cioè al nostro destino di felicità) e fermare la corsa. La corsa dei desideri che ci fanno precipitare e ci lacerano ovunque senza lasciarci pensare davvero a chi siamo e a dove stiamo andando. Fermare la corsa.
«L’antidoto», per usare un’espressione cara al Dalai Lama, è appunto far «girare la ruota del Dharma» cioè andare in senso opposto e, come dice il Beato «uscire dalla foresta» degli attaccamenti e dell’odio e diventare invisibili agli occhi di «Mara». Questo si intende per liberazione a beneficio non solo personale, ma di tutti gli esseri.
Di sicuro quel fascio dobbiamo cercare di lasciarlo e, soprattutto, non dobbiamo crearne un altro con le nostre azioni.
Non è una deduzione razionale tipica soltanto del Buddhismo, ma a questa conclusione sono arrivati anche molti artisti, filosofi o religiosi occidentali.
Per esempio l’Ariosto, con la sua consueta leggerezza ci propone una «allegoria» molto realistica, sui desideri degli uomini e sulla loro fine.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l’astuzie che sono ora,
a piè d’un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non so mostrar, vivea ne la val ima;
che più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;
e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;
chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.
Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d’esser rimasi giù.
Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi.
Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

Insomma, gli uomini tendono sempre a correre dietro le loro illusioni pensando che siano reali, ma più corrono e più non si avvicinano neanche di un passo alla felicità, così come non si può catturare la luna dentro un canestro…

Preziosi consigli su come vivere ci vengono dagli antichi. Seneca, ad esempio, ha meditato a lungo sulla felicità e sulla possibilità dell’uomo di essere felice. In particolare osserva: «I mali che fuggi sono in te», E poiché è conscio dell’impermanenza delle cose arriva a questa conclusione: «Non esiste alcun bene duraturo all’infuori di quello che l’animo trova dentro di sé.».
Dove si trova quindi la possibilità della stabilità dell’animo e quindi, della felicità? A questa domanda Seneca risponde che la felicità sta in ciò che è consono all’uomo cioè alla sua aspirazione al bene vale a dire la virtù ovvero l’abitudine al bene e quindi: « Non si compie un’azione virtuosa in vista di un premio, il premio sta nell’averla compiuta.». Solo così si acquista la libertà che è «l’affrancamento dalle passioni». Così anche altri pensatori antichi, come per esempio Cicerone, hanno affermato a riguardo concetti molto simili. Se ci rivolgiamo ai grandi filosofi greci come Socrate e Platone essi considerano la felicità come frutto della ‘temperanza’ e come libertà dai desideri e dagli impulsi.

Nei Vangeli, poi, Cristo è piuttosto deciso sul fatto di dover rinunciare ai propri attaccamenti se si vuole ottenere un vero progresso spirituale – «la vita» – e consiglia senza mezzi termini: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. »
Dove, come si sa, il fuoco, più che essere un concetto esterno all’uomo è qualcosa che brucia dentro di lui «dannandolo», poiché l’uomo ha alla fine quello che ha cercato e rincorso per tutta la vita, quindi si deve pensare bene a quello che si cerca.
E ancora racconta il Vangelo di Matteo:
«Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: ‘Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti’. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: ‘Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre’.»
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna da Cartesio a Spinoza, da Pascal a Schopenhauer, sulla ricerca della felicità, il perseguimento della virtù e il controllo delle passioni, poiché l’attaccamento eccessivo a ciò che è fuggevole ed impermanente porta fatalmente all’infelicità.
Però mi fermo qui. E permettetemi di raccontarvi una storia… (ma le citazioni dagli antichi testi sono autentiche!)

Un giorno un anziano disse ad un suo giovane discepolo:
«Molti dicono: ‘Cavalchiamo la tigre e dominiamola.’ Ma io ti dico coloro che così faranno presto dovranno fare i conti con i denti della tigre che li divorerà. Può l’uomo ammansire la tigre? Forse con la frusta in mano può farlo e con sbarre di ferro, ma, anche se può, quanti altri dovranno morire perché uno solo riesca? E ha poi così senso sfidarla volontariamente, non è forse un atto di inutile superbia? Quanti divorati dalla tigre saranno in futuro come lei?
E altri dicono ‘Cavalchiamo l’onda’, seguendo, a loro dire, il sentiero di Diamante, ma il Beato stesso disse:
‘Colui che ha una visione errata, le cui trentasei correnti
scorrono impetuose verso il piacere,
i suoi pensieri fondati sull’attaccamento come onde
lo trascinano via’
Shakyamuni affermò e questo ricordalo, se vuoi andare ‘al di là’ del fiume:
‘Avendo ucciso madre, padre e due re di casta guerriera,
avendo distrutto un regno con i suoi sudditi,
il brahmano se ne va senza tremare.
Avendo ucciso madre, padre e due re di casta sacerdotale,
e una tigre come quinto,
il brahmano se ne va senza tremare’
cioè sconfiggendo gli attaccamenti della nascita, del potere, del piacere e del dubbio, allora si fermerà la rinascita.
E disse ancora Shakyamuni:
‘Di ciò che potrebbe fare un odiatore ad un odiatore, un nemico ad un nemico, molto più male fa [all’uomo stesso] il [suo] pensiero falsamente diretto.’
Perché l’uomo che non saprà custodire se stesso sarà il proprio peggiore nemico…
Non credere che si possa accorciare la Via né che basti dire di essere arrivato perché la meta del tuo viaggio compaia davanti a te, ma sii umile. Perciò io ti dico: segui la via certa delle Quattro Nobili Verità e dell’Ottuplice Sentiero e non cercare nelle illusioni risposte che non ti daranno, ma più ti avvolgeranno nelle loro catene. Non fare come colui che avendo tagliato il sottobosco si inoltra di nuovo nella foresta… Medita in cuor tuo sulla radice del dolore e se così farai ti convincerai che è necessario tagliarla così come esorta il Beato. Ma se di questo non ti convincerai da solo non sarà un’imposizione che potrà cambiare la tua mente. E non ti avvolgere nell’ignoranza, ma medita sulle testimonianze e le parole immortali del Beato: in esse è racchiuso il Dharma, l’insegnamento e la natura profonda della realtà. Così apprenderai che non per te da solo puoi andare al di là del fiume, ma per tutti gli esseri senzienti perché solo apparentemente siamo divisi, ma finché non proverai gioia nella pratica del Dharma, non sarai arrivato davvero a comprenderla…
C’è una storia nel Sutra del Loto che voglio raccontarti:
«Supponiamo, figli di nobile schiatta, che vi sia un certo medico, colto, saggio, intelligente, abile nell’eliminare ogni malanno. Costui ha molti figli, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta o cento. Ma un giorno il medico va all’estero e tutti i suoi figli si ammalano per un’intossicazione o avvelenamento e in seguito a ciò sono tormentati da sensazioni dolorose e si rotolano per terra dal bruciore. Il medico, loro padre, ritorna dal viaggio mentre i suoi figli sono tormentati da quelle sensa­zioni dolorose in seguito all’intossicazione o avvelenamento. Alcuni di loro hanno idee sbagliate, altri idee giuste, ma tutti soffrono dello stesso dolore. Vedendo il padre lo salutano con gioia e gli dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato sano e salvo perché devi liberarci da questa calamità, intossicazione o avvelenamento che sia. Caro padre, facci vivere’. Allora il medico, nel vedere i suoi figli in preda al dolore e tormentati dalle sensa­zioni dolorose mentre si rotolano per terra dal bruciore, prepara un potente rimedio dal colore, odore, sapore appropriato, lo pesta col mortaio, e lo dà da bere ai suoi figli con queste parole: ‘Bevete, figli, questo potente ri­medio dal colore, odore, sapore appropriato. Bevendolo sarete subito liberi, l’intossicazione o l’avvelenamento saranno eliminati e vi sentirete bene e in salute’. I figli del medico dalle idee giuste, vedendo il colore, sentendo l’odore e assaggiando il sapore del rimedio, lo prendono in fretta e si sentono subito sollevati. Ma i figli del medico dalle idee sbagliate, dando il benvenuto al padre, dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato in salute e in buona forma perché devi curarci’. Ma costoro, pur par­lando in tal modo, non bevono il rimedio offerto. Per quale ragione? Di idee sbagliate, a costoro non piace il colore del rimedio, non piace il suo odore e, il suo sapore. Allora il medico riflette: ‘Questi figli hanno delle idee sbagliate per via dell’intossicazione o avvelenamento e non bevono il potente rimedio né lo accettano. Pertanto io dovrò indurli a bere questo rimedio con un abile mezzo’. Così il medico desiderando che i figli bevano il rimedio, con un abile mezzo dice loro: ‘Figli d i nobile schiatta, io sono vecchio, avanti negli anni, sono arrivato al termine della mia vita. Ma non dispiacetevene, figli, non sentitevi depressi. Ho preparato questo potente rimedio, se lo desiderate potete berlo’. Ammoniti i figli con questo abile mezzo, egli parte per un altro paese e fa annunciare ai figli esausti la sua morte. In quel momento essi si affliggono e lo piangono moltissimo. ‘Invero costui che èstato nostro padre, guida, genitore amorevole, è morto. Oggi noi siamo rimasti senza protettore.’ Consapevoli di essere senza una protezione e senza un rifugio, si sentono costantemente afflitti dal dolore, ma proprio per questo continuo dolore e afflizione le loro idee sbagliate vengono soppiantate da quelle giuste. Si rendono così conto che il colore, l’odore e il sapore del rimedio è quello appropriato e pertanto prendono subito il rimedio e vengono liberati dall’infermità. Allora il medico, venuto a sapere che i suoi figli sono liberi dal dolore, ritorna.»

Dunque procura di essere tra coloro che hanno pensieri giusti per non perdere inutilmente il tempo, non è necessario che il Buddha scompaia perché tu debba desiderare di cercarlo e vederlo dentro di te…



MEDITANDO SULLA VITA, LA MORTE, LA FELICITA’

26 12 2008
2 Novembre 2008
Dedicato ad A. e alla sua relazione sulla felicità inviatami in questi giorni
 
 
«ch’i’ non averei credutoche morte tantan’avesse disfatta. » (Dante, Inf. III)
 
Oggi è un giorno per meditare, e non è mai un giorno facile, perché si entra in contatto più da vicino con la morte. Non solo una morte astratta, ma spesso con la perdita molto concreta delle persone a noi care. Dobbiamo fare i conti con il loro ricordo e con il nostro stesso destino. Ci sono persone che semplicemente non vanno al cimitero, scansano il problema, fanno finta che non esista e continuano a vivere.
Io sono sempre stata dell’idea che non ci sia nulla di umano che possa non riguardarmi e men che meno il nostro destino finale. Sono sempre stata convinta che si debba studiare e capire quello che siamo, quali siano i nostri limiti e se ci sia un modo per superarli, per potersi rapportare anche con la morte, perché la risposta che diamo a questo termine ultimo, di fatto, determina fortemente la nostra esistenza adesso.
Per questo nella mia vita ho sempre cercato di studiare molto, perché la luce della nostra ragione spesso ha già in sé parecchie risposte, e non solo la razionalità, ma anche la coscienza degli uomini del passato ci può aiutare a capire quello che siamo veramente. Ciò che sicuramente, a mio parere, non si deve fare è arrivare alla fine della vita inconsapevoli, senza aver pensato davvero al senso ultimo di questo nascere e morire di noi e di ogni cosa.
Per questa ragione è nata anche la mia passione per i viaggi, per cercare di capire gli esseri umani anche di altri luoghi e scoprire punti di vista differenti. E poi l’arte e la cultura dell’uomo ci parlano costantemente dei suoi sogni, delle sue più alte aspirazioni e di tutto ciò che sembra stridere fortemente con il destino finale dell’annullamento.
 
LA REALTA’ DEL DOLORE
Sicuramente, se si valuta la vita umana nella sua apparenza materialistica si è certi di come andrà a finire: l’uomo nasce con fatica e dolore, il primo vagito è già un pianto e via via che gli anni passano è sottoposto alla malattia e alla vecchiaia e infine alla morte. E forse la morte non è l’aspetto peggiore, considerando che il maggior dolore si prova nella malattia e nella vecchiaia. Ho potuto constatare personalmente entrambi gli aspetti sia quello della malattia (è sufficiente stare una ventina di giorni in un ospedale per capire quanto basta) sia la vecchiaia. Per me quest’ultima si identifica con l’immagine di mia nonna paterna, morta a 99 anni semplicemente di ‘vecchiaia’ appunto, per la naturale decadenza organica: quello che tutti forse vorrebbero augurarsi e in genere si augurano. Nonostante questo, vederla ridotta impotente in un letto, rattrappita dagli anni e con la mente lucidissima, implorare il dono della morte, eppure continuare a combattere per la vita come aveva sempre fatto e fino all’ultimo, mi ha fatto molto riflettere. Questo è il nostro destino materiale, se ci va bene.
 
LA NECESSITA’ DELLA COMPASSIONE
Però sicuramente, gli uomini potrebbero fare qualcosa per se stessi e per gli altri, proprio perché se davvero si prende atto che questo è il limite della natura umana, allora si comprende anche come sia del tutto inutile e dannoso assumere atteggiamenti trionfalistici sull’essere umano e sulle sue ‘magnifiche sorti e progressive’.
Il nostro destino è quello invece, di dover abbandonare tutto a poco a poco ed, inoltre, tutto ci abbandonerà, tutto ciò che c’è in questo mondo è fatto per perire con noi o prima di noi.
Questo dovrebbe farci nascere un forte sentimento di compassione, perché tutti gli esseri umani sono accomunati dallo stesso destino di distacco progressivo dalla vita e da tutto ciò che essa rappresenta, compreso tutto ciò che amiamo e che ci dà piacere.
La pietà potrebbe alleviare le nostre e le altrui sofferenze, perché molti dei mali derivano dal nostro agire nei confronti di noi stessi e degli altri.
E d’altra parte, molte nostre azioni nascono dal desiderio di provare piacere e di possedere, illudendoci che questo possa creare in noi la felicità. Tutte le cose che abbiamo accumulato, invece, se ne andranno, e i piaceri durano solo un attimo e significano ben poco.
Bisogna meditare sul destino dell’essere umano perché non ci colga impreparati. Solo condividere e cercare di alleviare il dolore può avere un senso nella vita degli uomini. Non tentare di appropriarsi di ogni cosa, creandosi l’illusione di una falsa onnipotenza legata alle cose o alle persone che si possiedono. Il nostro mondo non è affatto compassionevole perché si basa sull’illusione che ammassando beni essi possano costituire una diga contro la realtà del destino umano. Ma ciò è del tutto ingannevole.
 
IL DESIDERIO DELL’ETERNO
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite? (Foscolo, dei Sepolcri)
 
Quello che invece l’uomo vorrebbe e non ha è ben altro. Basta conoscere il pensiero dell’uomo di ogni epoca, guardare le sue opere per capire che l’essere umano anela ad una felicità eterna e al di fuori dello spazio e del tempo. Di questo ci parla la voce degli uomini che dal passato ci raggiunge anche oggi. La perfezione dell’essere, l’eternità.
Io personalmente ritengo che, considerando tutto ciò che gli uomini hanno creato e sognato la posizione più razionale e sottolineo razionale, sia quella di credere che ci sia un oltre, un infinito che possa colmare il desiderio che la nostra natura continuamente ci ripropone, anche nella forma del piacere, ma che in realtà richiama sempre il sogno di un soddisfacimento infinito, sebbene rivolto ad un oggetto inadeguato.
Del resto anche un intellettuale illuminista come Diderot (e quindi non certo sospettabile di essere un fautore di una qualche religione) affermò: ‘Esiste solo una passione, la passioneper la felicità‘…..
Blaise Pascal parlava di una ‘scommessa’, di un salto della fede che si deve compiere per uscire dall’empasse della condanna della natura. Per conto mio ritengo che tutto ci parli dell’eternità e soprattutto che questa sia connaturata con la nostra coscienza. Forse, riprendendo l’affermazione di Diderot, siamo fatti solo di quel desiderio, alla fine. Se solo lo sapessimo riconoscere con la mente chiara, allora potremmo anche capire che non si può conseguire senza un ‘tu’ a cui rivolgerci. Ci vuole una condivisione con gli altri se si vuole arrivare, ci vuole la compassione.
 
LA RICERCA DI UN MAESTRO
Ma come fare per perseguirla? Dov’è la strada?
Sono necessari, come in tutte le altre cose lo studio e l’educazione. Tutti capiscono che si deve andare a scuola per imparare a leggere e scrivere, ma spesso non si ritiene che si debba imparare a capire la vita.
Non siamo soli in questo viaggio, c’è molta antica saggezza a cui possiamo attingere. Soprattutto ci sono esempi di vita importanti. In particolare di coloro che hanno esercitato la perfetta compassione, e che quindi hanno già percorso la strada che porta verso la felicità, il luogo verso il quale si è chiamati.
Da questo punto di vista bisogna cercare un Maestro, qualcuno che abbia già percorso la strada e imparare da lui.
Personalmente ritengo che colui che più compiutamente ha incarnato questo esempio sia Cristo, soprattutto per quanto riguarda il nostro mondo occidentale. Di recente ho letto diversi volumi sul Buddhismo e devo dire che mi hanno dato la possibilità di approfondire molto la mia fede e la mia pratica, ma ritengo che l’insegnamento di Cristo sia ancora più compiuto e perfetto.
Considero, comunque, con il massimo rispetto ed ammirazione chi attraverso un’altra religione intraprende la ricerca delle Verità ultime e credo che, se paradossalmente, non esistesse il cristianesimo probabilmente sarei buddhista; anzi, devo dire che proprio con l’aiuto degli insegnamenti del Buddha alcune verità comuni al cristianesimo sono risultate per me più evidenti; però ritengo che la rivelazione che siamo stati amati da Dio dal primo istante della nostra esistenza e fino alla Sua stessa morte non abbia eguali in alcuna altra fede.
Anzitutto perché Cristo ci parla dell’amore di Dio attraverso il suo esempio di dedizione totale a tutta l’umanità, ci mostra come il Padre non sia un’entità staccata dall’uomo, ma ci abbia voluto a sua immagine, al punto tale da generare Lui stesso, il Figlio, Figlio che è anche il Verbo, cioè la Parola attraverso cui tutto ciò che esiste è stato creato.
 
Α Ω
Questa è la grande scoperta nello studio dei testi sacri e delle meditazioni dei teologi: noi siamo fatti a Sua immagine ed è tale immagine che portiamo dentro di noi: noi siamo il tempio di essa, ma dobbiamo assumerne consapevolezza, dobbiamo vivere perseguendola, amandola e rispettandola, meditando sugli insegnamenti di Cristo perché essa diventi sempre più concreta e visibile.
In definitiva, vivere dell’imitazione di Cristo stesso. Solo perseguendo quell’immagine divina dentro di noi potremo conseguire la felicità.
‘Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto’diceva San Paolo; in realtà, credo, noi stessi gemiamo nel partorire la nostra vera natura, perché dobbiamo riconoscerla e perseguirla attraverso la pratica cioè l’azione, la meditazione e la preghiera, e non è sempre facile. Solo se faremo ‘partorire’ la realtà, però, progrediremo nel cammino anche personale. Una collaborazione alla creazione divina che nel Vangelo viene definita con l’espressione ‘lavorare nella vigna del Signore’.
Il nostro essere nel mondo è un viaggio, ‘un pellegrinaggio’ dicevano gli antichi Padri della Chiesa, perché attraverso questa prova noi possiamo imparare ciò che non passa con il tempo e ciò che invece è destinato a finire. Perché possiamo imparare a vedere ciò che è impermanente come il riflesso e la testimonianza di ciò che è eterno e così possiamo amarlo, senza attaccamento.
Siamo qui per tornare da dove siamo venuti, ma con la consapevolezza nuova che è quanto vogliamo veramente.
Tornare alla nostra origine, tornare alla nostra più compiuta Immagine.
Questa è la vera libertà: compiere le azioni per cui siamo stati fatti, cioè volte alla ricerca della felicità, intesa come vero totale appagamento della coscienza. Le azioni che corrispondono alla nostra vera natura, cioè quelle che ci rendono consapevoli di essa, ci faranno tornare alla nostra Origine perché ci faranno appartenere sempre di più ad essa.
‘Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo cherisuona o un cembalo che tintinna ‘ scrisse San Paolo, perché la Carità è Dio stesso.
Per questo nella vita presente imitando Cristo e quindi praticando tali azioni, avremo un anticipo della beatitudine, quello che Cristo chiama ‘il centuplo quaggiù’ e, infine, la vita eterna dopo la morte, cioè la compiuta visione di Dio.
Il dolore e la morte sono dunque una prova, ma non sono la parola finale sull’essere umano. Sono un mezzo per vedere con mente più chiara la verità dell’esistenza, un crogiuolo, come lo definisce l’Antico Testamento, dove l’oro si raffina. E se avremo paura ci sarà un Tu, che ha condiviso in tutto le nostre sofferenze umane al quale poter dire: ‘Signore, ho paura…’.
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