TANNHAUSER E LA “MANO” DI DIO – La Fura dels Baus e il suo allestimento super tecnologico alla Scala

13 04 2010
Un’Ouverture come quella del Tannhauser, andato in scena alla fine di marzo alla Scala, fa subito pensare alle visioni più solenni, ai grandi misteri della nostra esistenza, alle passioni, all’energia vitale che pervade ogni fibra dell’essere umano, al suo slancio verso un mondo «altro», cosmico, forse incomprensibile e irraggiungibile se non attraverso l’arte e la sua conoscenza profonda e onirica dell’essere. Riconoscendosi nelle affermazioni di Schopenhauer, nella musica Wagner cercava l’espressione stessa della Volontà di vita, il misterioso motore del mondo, perpetuo ed eterno come la sua «Melodia infinita», da trascendere attraverso l’arte nella visione degli archetipi universali della Bellezza e dell’Amore. Tannhauser rappresenta l’autonomia dell’artista rispetto alla società, ma anche alla divinità e la sua certezza di non appartenere ad alcun mondo e ad alcun potere, proteso nella ricerca di una propria via, la via della libertà, quella che né il Venusberg né la Wartburg gli consentono. Il leggendario cantore intende levarsi oltre e al di sopra del divino se per divinità si intende un’entità che mira ad imbrigliare l’uomo nei meccanismi di una rivelazione, di una conoscenza data per acquisita e quindi, in qualche modo, non conquistata e né cercata.
Tutti gli chiedono di accettare quella conoscenza e quel limite, lo implorano di fermarsi, di non continuare il suo cammino, ma Tannhauser, il trovatore profetico, non appartiene né al platonismo senz’anima né a Venere, perché ciò che davvero lo spinge è lo spirito dionisiaco che unisce indissolubilmente le più grandi esperienze mistiche e i più estremi piaceri carnali. L’artista deve conoscere tutto, solo così potrà apprendere ciò che esiste al di là. La Fura dels Baus e il regista Carlus Padrissa hanno colto pienamente questo aspetto del Tannhauser, tutto proteso verso la rivelazione delle grandi verità sul mondo e sull’uomo in un affascinante viaggio alle origini della vita attuato non con i mezzi della scienza, ma con quelli dell’arte. Se poi alle immagini sublimi che vorticano davanti agli occhi dello spettatore aggiungiamo la direzione del maestro Zubin Metha, che valorizza pienamente la meravigliosa varietà del cromatismo wagneriano, l’effetto è assicurato. La musica di Wagner con le sue molteplici sonorità, con il tipico andamento a spirale che galvanizza lo spettatore fino al parossismo assume così una potenza trascinante, si riempie di suoni evocativi, di vento, di acque, di ninfe e di abissi del tempo e dello spazio, per poi ritornare ai richiami della terra, ai prati e ai boschi, alle danze e agli armenti. Intanto sulla mano della divinità che sempre sovrasta la scena (sofisticato gioiello di automazione meccanica) viene scritto incessantemente, racchiuso in una serie infinita di simboli, il destino dell’uomo e del mondo.
Sono state ideate visioni e «macchine» altamente tecnologiche per questo allestimento, utilizzando costantemente proiezioni dietro e davanti alla scena, evocando così un paesaggio sempre surreale, sia all’interno della grotta del Venusberg sia all’esterno di essa nel cosiddetto «mondo reale». Cosiddetto perché per La Fura del Baus forse è più reale il Venusberg di ciò che noi consideriamo «vero». Un omaggio a tutti i grandi visionari del passato, coloro che con le loro ardite innovazioni hanno permesso allo spirito umano di procedere nella civiltà. Giunto nel mondo fenomenico, infatti, Tannhauser si ritrova prima in un deserto popolato da strani cavalieri primitivi, poi deve fronteggiare la gara della Wartburg ambientata in una sorta di corte di un antico maraja, una bollywood coloratissima e vacua che nulla ha della solennità drammatica dell’arte del grande trovatore.
L’amore cantato dagli altri poeti non ha carne né sangue, non è sofferto né vissuto. Soprattutto nessuno è consapevole che esso con la sua primitiva e ancestrale energia è il vero e unico motore del mondo, ciò che suscita la tragica quanto insopprimibile, perché profondamente umana, volontà di vita. Per tutti gli altri l’amore è uno stilema senza corpo né anima, una fredda entità platonica. Questo emerge dall’allestimento geniale della Fura del Baus: il mondo reale è il vero velo di Maya assai più del Venusberg da dove si sprigiona la vita di ogni essere. Anche la grotta di Venere, il luogo dell’immortalità, sta però stretto al grande cantore erede di Orfeo. Egli lo afferma chiaramente fin dall’inizio dell’opera: come un novello Ulisse dell’arte egli ha bisogno di soffrire e morire, toccando così l’essenza del mondo. Di fronte alla sua poesia «scandalosa», perché vera, soltanto Elizabeth applaude, perché forse ella rappresenta l’elemento apollineo che sempre si accompagna al dionisiaco, perfetto, ma inscindibile dal suo compagno sotterraneo e nascosto che ne è l’anima stessa. Così, alla fine, Tannhauser si salverà morendo, non per il perdono della divinità, ma per la sua stessa capacità di sublimarsi e andare oltre il pensiero, insieme alla perfezione celeste di Elizabeth. Il prezzo da pagare è il passaggio nel mondo dello spirito, il raggiungimento di un’altra dimensione. Come sempre in Wagner la sublimazione e l’inscindibilità finale avvengono attraverso l’unione con l’assoluto che può compiersi pienamente solo con la morte. Se l’allestimento e la regia – ingiustamente fischiati dal pubblico alla prima per le loro caratteristiche così innovative – e la direzione di Metha hanno fatto di questo Tannhauser una versione da ricordare, non altrettanto si può dire, purtroppo, dei cantanti (almeno nello spettacolo che abbiamo seguito il 27 marzo scorso). Innanzitutto perché il tenore Robert Dean Smith, mancava della potenza necessaria per sostenere il ruolo del protagonista che dovrebbe essere dotato di grande energia comunicativa ed emotiva. Del resto il personaggio di Tannhauser richiede delle capacità di tenuta vocale ai limiti dell’eccezionalità. Tra le interpreti femminili la migliore è stata sicuramente Anja Harteros una Elizabeth sensibile e di notevole espressività, ma anche Julia Gertseva (Venus) si è distinta seppure con qualche incertezza. Non altrettanto si può dire di Roman Trekel (Wolfram) che è apparso spesso in difficoltà e ha interpretato il famosissimo «O du, mein holder Abendstern» senza alcuna passione né chiaroscuro.
Più che gli interpreti, insomma, è stato interessante l’allestimento in generale e l’immaginoso susseguirsi di colori e suoni in una continua sarabanda di visioni che si esprimono in modo metafisico e surreale e interpretano egregiamente quella mistica pagana e decadente, estetizzante ed eroica tipica dell’universo poetico wagneriano. Da questo punto di vista si può parlare senz’altro di un’occasione perduta.

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