L’Innominato di Branciaroli – La fede è sempre una lotta

2 09 2016

Al Meeting di Rimini 2016 la sera del 23 agosto, un’interpretazione superlativa di Franco Branciaroli della Notte dell’Innominato e della sua conversione, una lettura toccante, dalle mille sfumature che ha suscitato in un intenso crescendo la commozione generale. Nel finale alcuni secondi interminabili di silenzio del pubblico esterrefatto e poi è esplosa meritatamente l’ovazione dalla platea sold out. E pensare che durante l’intervista precedente lo spettacolo il Nostro non sembrava molto convinto della riuscita dello spettacolo, rimarcando il fatto che la scelta del testo manzoniano non era partita da lui. Non ce ne voglia il Maestro, ma, visto l’eccezionale risultato, speriamo in altre simili imposizioni!

 

Leggi l’intervista a Franco Branciaroli cliccando sull’immagine

Anche i prof a scuola quando leggono il Manzoni dovrebbero ricordarsi di queste considerazioni di Branciaroli, invece di preoccuparsi solo che i ragazzi non usino i bigini. Naturalmente il filmato si riferisce ad un altro evento, ma comunque a partire da 3.47 si può intuire qualcosa della bellezza di questa lettura.



Per far capire questo grande autore bisogna renderlo vivo, come Branciaroli ha fatto allo spettacolo del Meeting, e questo vale non solo per la notte dell’Innominato, ma anche per molte considerazioni storiche e sociali contenute nel romanzo e di grande attualità. Eccezionale è la visione del cristianesimo da cui si può solo imparare, tratteggiata sul modello di San Filippo Neri e del Francescanesimo seicentesco, con le sue opere sociali e di assistenza. Un capitolo a parte, poi, è il rapporto con i luoghi manzoniani, che consiglio a tutti di visitare, perché attraverso di essi il romanzo assume un’altra prospettiva. Scoprire, per esempio, che la salita al castello dell’Innominato è in realtà una antica Via Crucis punteggiata di cappelle votive e che, arrivati quasi in cima, si trova una scala santa che porta all’eremo di San Girolamo Emiliani, un santo vissuto in quei luoghi nel ‘600 il quale viveva poveramente dedicandosi al soccorso degli emarginati e dei sofferenti, fa capire molte cose… Così come scoprire che la storia delle intimidazioni ad un prete per non far celebrare un matrimonio riguardava non un nobile qualunque, ma un antenato dello stesso Manzoni, ci fa capire che il grande scrittore, raccontando di Don Rodrigo, era ben consapevole di non parlare del male di altri ma di quello che può esistere in tutti noi… La grande capacità del Manzoni, poi, è di rendere vivo il Vangelo attraverso le azioni e le parole semplici del romanzo. “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia” ci fa pensare al buon ladrone, per il quale un atto di misericordia disinteressato, insieme al riconoscimento dei propri errori, ha voluto dire la salvezza…

 



ANCHE IL MERCATO ASPETTA GODOT – “L’Affarista”, l’impietosa satira di Honoré de Balzac sul mondo della speculazione borsistica, è ancora un’opera teatrale di sorprendente attualità

1 02 2012

“Ah! Conoscete la nostra epoca! Oggi, signora, tutti i sentimenti svaniscono e il denaro li sospinge. Non esistono più interessi perché non esiste più la famiglia, ma solo individui! Vedete! L’avvenire di ciascuno è in una cassa pubblica (…) Vendete gesso per zucchero: se riuscite a far fortuna senza suscitare lamentele, diventate deputato, pari di Francia o ministro.”

Se volete divertirvi andando a teatro, ridere di gusto, in modo intelligente, della crisi finanziaria dei nostri giorni e magari scoprire anche qualche bandolo dell’intricata matassa dei mercati, allora “L’affarista” è lo spettacolo giusto. L’opera, pubblicata da Honoré de Balzac durante la crisi economica del 1848, sembra più o meno scritta oggi, visto che le problematiche legate al funzionamento dell’economia di mercato – tra banche, Borse e consigli di amministrazione – somigliano in modo sorprendente alle notizie dei nostri telegiornali. Nello spettacolo presentato nei giorni scorsi al Teatro Sociale di Brescia, all’attualità del testo si aggiunge poi la brillante messa in scena del regista Antonio Calenda, nella quale si impone il protagonista Mercadet, interpretato con travolgente verve da Geppy Gleijeses.

In questa esilarante e illuminante cavalcata all’interno delle assurde e farsesche contraddizioni del nostro sistema economico, il protagonista è accompagnato da un gruppo di ottimi attori tra i quali ricordiamo soprattutto Marianella Bargilli che interpreta la figlia Julie e Paila Pavese la moglie dell'”affarista”, funambolo folle e incosciente della speculazione borsistica. L’opera propone, con accenti ironici e sarcastici, una lucida analisi della situazione in cui la borghesia si è venuta a trovare da quando allo sviluppo industriale si è aggiunto lo strapotere del capitale finanziario attraverso l’introduzione delle quotazioni di borsa. Con la giustificazione, infatti, di trovare finanziatori per le proprie imprese, si è dato il via all’emissione di azioni da quotare, in base, appunto, alla credibilità a breve e a lungo termine delle aziende, vale a dire in base all’odierno temutissimo rating di cui tanto sentiamo parlare in questi giorni. Peccato, però, che tutto sia fondato in gran parte su notizie che sconfinano nelle dicerie, su bilanci non si sa fino a che punto veritieri, su voci incontrollate che possono far alzare o abbassare il prezzo di un’azione all’improvviso e in modo inopinato. Balzac senza mezzi termini colpisce duro i fautori del mercato ad ogni costo e con ogni mezzo, gli speculatori, quelli che sfruttano le disgrazie altrui, quando addirittura non le creano; quelli che, come lo stesso Mercadet, inventano false notizie per abbassare il prezzo di un’azione e quindi ricomprarla prevedendo un rialzo nel momento in cui tali notizie saranno smentite. E che dire dei giochi al ribasso e a borsa chiusa dove le cose si decidono dietro le quinte all’insaputa di risparmiatori e piccoli investitori? Ma se Mercadet è un malato dell’affare, un trader da rischio estremo, d’altra parte i suoi creditori – trasformati da Calenda in caricature ispirate a Honoré Daumier – non sono da meno: come le banche di oggi, anche loro sono lì a speculare sulle disgrazie altrui, come corvacci che si addensino nel cielo del dichiarato fallimento oppure stiano a vedere se si possa in un modo o nell’altro trovare ancora l'”affare” miracoloso che risolva tutti i problemi. E così, se l’affare non c’è, si può sempre inventare. Come? Semplicemente emettendo azioni di una meravigliosa azienda fantasma: dal giornale che non si stampa alla miniera di carbone scoppiata, l’importante è “far credere che…” qualunque cosa sia, purché il mercato cada nella trappola anche solo per un giorno, il tempo di far salire il prezzo e vendere. Oppure ci si inventa un fantomatico socio venuto da Calcutta che ripianerà tutti i debiti…

Il mitico signor Godeau in realtà scappato con la cassa di Mercadet (ma sarà vero? magari è sempre stato un’invenzione!) che, si favoleggia, tornerà ricchissimo dalle Indie. Il suo nome vi ricorda qualcosa? E’ il personaggio al quale Beckett si è ispirato nel suo Aspettando Godot, per identificare qualcuno che non arriva mai e che l’uomo stesso si è inventato. Godeau, insomma è “il salvatore del mercato” atteso da tutti. E d’altra parte non si vende anche oggi non tanto quello che c’è, ma soprattutto quello che non c’è? Non ci si basa su veri o presunti soci (magari proprio indiani o cinesi), su cordate e Opa più o meno fantasma? Com’è piccolo il mondo! Stupisce l’acume di Balzac e la sua straordinaria lucidità quando enuncia la logica del mondo moderno che è soltanto una somma di egoismi ed è completamente governato dal denaro e dalle leggi dell’economia in modo assolutamente “bypartisan”, visto che, quando si tenta la carta della carriera politica, fare i progressisti pare sia molto chic e quindi perché non optare per una bella candidatura socialista? Così De la Brieve, il più sfacciato degli impostori che subito fa lega con Mercadet, tra i suoi sogni, ha proprio quello di diventare ministro… socialista ovviamente.
Molto meglio che lavorare, tanto che quando la signora Mercadet invita entrambi finalmente a rinunciare alle loro trappole da imbroglioni e ricominciare da capo con un lavoro onesto, tutti e due rispondono con orrore: “Un lavoro??!!” Alla fine la “geniale” soluzione di Mercadet mette d’accordo tutti, compresi gli scrupoli di coscienza delle due donne di famiglia, madre e figlia, che da buone borghesi, sperano di salvare l’onorabilità. Non sanno, però, che in una società del genere nessuno entrato in quel meccanismo potrà mai preservare l’onore né l’etica e men che meno la virtù, con buona pace dei fiduciosi riformatori del mercato. In realtà molto poco è stato fatto da allora ad oggi per modificare seriamente determinati meccanismi economici e probabilmente nulla si farà, al di là delle belle parole, data l’enorme importanza degli interessi in gioco. Sono passati quasi due secoli da quando Balzac scriveva ed è forse cambiato qualcosa di sostanziale? Anzi, al contrario, ciò che si vende e si compra a livello finanziario appare talvolta ancora più virtuale e pericoloso di una volta. Derivati e affini docent.

Rossana Cerretti



E QUESTA SAREBBE ANTIGONE? Uno spettacolo da dimenticare per le Belle Bandiere al Teatro Sociale di Brescia

12 01 2012

Ormai da parecchi anni il Teatro Stabile di Brescia ad ogni nuova Stagione di prosa ci infligge le uggiose performance delle Belle Bandiere, compagnia composta da Marco Sgrosso, Elena Bucci & C..
Già in altre occasioni ha destato un certo attonito stupore l’insistenza con la quale questo gruppo di attori venga riproposto in qualunque tipo di repertorio, anche in opere per le quali risulta assolutamente inadatto.
Se, infatti, su testi contemporanei come “L’amante” di A. Pinter o “Edda Gabler” di Ibsen, i loro spettacoli, con un tipo di recitazione piuttosto straniante e fredda, potevano anche avere un senso e in qualche modo funzionare, già con il “Macbeth” e ancor più con la “Locandiera” di Goldoni sono stati dolori: molto poco credibile Marco Sgrosso nel ruolo del crudele sovrano scozzese e, soprattutto, priva del temperamento necessario la Lady Macbeth di Elena Bucci.
Della “Locandiera”, poi, meglio non parlarne: negati completamente i presupposti dell’opera goldoniana, le Belle Bandiere sono andate semplicemente per conto loro, trasformando la protagonista da un’icona dell’intelligenza borghese ad una specie di insulso e riprovevole playboy in gonnella.
L’apoteosi negativa, però, è stata raggiunta mercoledì scorso con “Antigone”: in questo caso la compagnia ha veramente superato se stessa (in peggio ovviamente) creando un’opera lenta, senza ritmo, priva di qualunque drammaticità, svuotata completamente del suo contenuto.
E, a dire la verità, ce n’è voluto perché il capolavoro di Sofocle è veramente difficile da distruggere: generalmente riesce sempre ad imporsi per la forza straordinaria delle sue ragioni contrapposte e per il conflitto, ancora attuale, tra morale naturale e legge dello Stato. Da oggi, però, dovremo dire “quasi sempre”, visto che, alla fine, anche quest’opera è stata costretta a soccombere sotto il peso di una messa in scena a dir poco grottesca: movimenti scenici inesistenti o inutili, ritmi lenti e goffi, recitazione (?) pessima, gridolini, risolini e mossettine che, probabilmente, nelle intenzioni della regista Elena Bucci (ma parlare di regia in questo caso sembra davvero azzardato!) dovevano significare il coro… Che dire?
Dobbiamo senz’altro riconoscere alle Belle Bandiere la “gloria” di essere riusciti nell’impresa fino ad oggi ritenuta pressoché impossibile, di annichilire Sofocle e la sua immortale poesia.
Il pubblico, sbigottito, ha applaudito ben poco, lasciando la sala mentre gli attori ancora si profondevano negli inchini finali…
Rimane solo da fare un appello accorato ai direttori artistici: per gli anni a venire meditate, gente, meditate! Possibile che non ci si possa guardare un po’ più intorno?
Per adesso, intanto, chi se la sente continuerà a sorbirsi le Belle Bandiere e buon divertimento! Per parte nostra, a questo punto, abbiamo già dato…



Fidelio: un messaggio agli uomini di ogni tempo

8 01 2012

La grande musica di Beethoven ci parla di diritti umani, libertà e fratellanza come basi autentiche della convivenza civile

«Di tutte le mie creature, il “Fidelio” è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte».


A conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, il Teatro Regio di Torino ha aperto la stagione 2012 riproponendo, con un nuovo allestimento, il Fidelio di Ludwig van Beethoven. Un’opera ancora modernissima, che va oltre le epoche storiche restando sempre attuale, ed è forse questa la ragione per la quale ai tempi in cui fu composta, tra il 1803 e il 1814, non fu compresa, ma restò un unicum nel panorama della lirica ottocentesca e per giunta sempre gravata dallo spettro dell’insuccesso. “Fidelio” è paragonabile alle opere di Mazzini, Rousseau o Beccaria, troppo avanzate per la loro epoca e ancora oggi capaci di porre fondamentali domande sul rapporto Stato- società civile, sull’applicazione dei diritti umani in generale, e, tema oggi di stretta attualità, sui diritti anche di coloro che sono colpiti da provvedimenti giudiziari e privati della libertà personale. In altre parole, sulla condizione nelle carceri. Al centro della vicenda c’è, infatti, la drammatica situazione di un prigioniero, Florestan, incarcerato ingiustamente, per aver denunciato i crimini di un funzionario del regime. Gettato in una cella di isolamento senza processo, la sua storia ricorda i tanti casi di desaparecidos delle dittature dei nostri giorni. L’opera, però, mette in discussione anche la condizione del sistema carcerario nel suo complesso, l’orribile sensazione del buio da cui sono oppressi i prigionieri e che ci ha ricordato per il senso di claustrofobia, un celebre dipinto di van Gogh, (attualmente a Brera nell’ambito della mostra dedicata al Museo Puškin di Mosca), dove in un pozzo profondissimo e stretto si vedono girare in tondo i carcerati nell’”ora d’aria”. Tornano alla mente le orribili visioni del disumano carcere di Guantanamo (tuttora aperto, nonostante le promesse del presidente Obama e le censure della Corte Suprema) dove sono segregati senza processo e senza diritti i presunti terroristi islamici di al-Qaida. Senza andare molto lontano, poi, possiamo ricordare anche ciò che sta succedendo oggi nelle carceri italiane, soprattutto per le problematiche irrisolte del sovraffollamento.


Se l’opera del grande compositore tedesco rappresentasse anche soltanto una denuncia sociale, già assumerebbe di per sé una valenza universale di grande portata storica, ma essa si spinge ben oltre, al di là del fatto contingente, evidenziando valori filosofici elevati e nobili su cui basare autenticamente la convivenza civile e lo Stato. Beethoven riprende a suo modo dalla Rivoluzione francese il concetto di fratellanza che, dal suo punto di vista, non può essere disgiunta dalla libertà e dalla verità. L’opera propone una profonda meditazione sui limiti della possibilità coercitiva dello Stato nei riguardi del cittadino, sul valore della pena a cui i condannati sono sottoposti, ma anche sul rapporto tra vita e moralità pubblica e privata. L’altro elemento fondamentale del Fidelio è, infatti, il profondo legame tra umanità e amore coniugale, tra fratellanza tra gli uomini e fedeltà di coppia in un’identità tra etica pubblica e privata che stupisce per la nettezza e l’incisività con cui viene affermata. Non possiamo dimenticare che ancora oggi questa posizione così chiara, legata alla trasparenza dei comportamenti è contraddetta e mascherata dietro ipocrisie e doppie vite difese ad oltranza in nome della privacy. In realtà, sarà anche una dura presa di posizione, ma per Beethoven ciò che avviene nella vita privata trova una sua continuità anche nell’ambito pubblico. Chi agisce bene nel poco agirà bene nel molto e, al contrario, chi tradirà nel poco lo farà a maggior ragione anche nelle questioni più importanti.


Altro elemento di assoluta novità e volutamente rivoluzionario è far assumere il ruolo di eroina e salvatrice ad una donna, come vedremo poi anche nell’Attila di Verdi, sebbene in un contesto del tutto diverso. Se per Verdi il ricorso ad una donna come vendicatrice dell’onore della patria mira a sottolineare la viltà di coloro che dovrebbero combattere contro l’invasore, per Beethoven la figura di Leonore, la protagonista, rappresenta il trionfo della verità con le sole armi del coraggio, del sacrificio e dell’amore puro che diventa compassione. L’uso del travestimento di Leonore, che per tutta l’opera si nasconde sotto le mentite spoglie del giovane carceriere Fidelio, al di là delle apparenze, non ha nulla a che vedere con la commedia, ma mette in luce piuttosto la drammaticità dell’esistenza in una società violenta, tirannica e prevaricatrice, che non consente a nessuno di essere se stesso e che trasforma una donna in una combattente disposta a tutto pur di salvare la vita del marito, e, in qualche modo, anche degli altri prigionieri. Per questo il personaggio di Leonore è simile a quello dell’”Efigenia in Tauride” di Goethe, dove la giovane, accompagnata dal fratello Oreste e contro il parere dell’amico Pilade, decide di informare della loro partenza il re dei Tauri e di accettare il rischio della condanna. Ella intraprende la strada più difficile: quella di veder trionfare la verità oppure morire, contraddicendo, sotto questo aspetto, in modo sostanziale il finale scritto da Euripide. La verità sostenuta dalla coscienza morale (“l’interno impulso” così ben sottolineato in una celebre aria della protagonista) è dunque il concetto centrale dell’opera unito al senso del dovere che essa impone. Questi due aspetti fondamentali animano entrambi i protagonisti Leonore e Florestan, così che tale unità di intenti costituisce il vero punto di forza della coppia. La verità contro la tirannide è quella che Florestan ha affermato fino al punto di rischiare la vita, la stessa che Leonore sostiene come un vessillo invincibile dell’umanità nuova. Verità che si traduce nell’opera nella presenza luce, e nella sensazione indescrivibile dei carcerati quando finalmente riescono a rivedere il cielo dopo anni in cui ciò era stato impossibile. Il loro inno alla luce e alla libertà appare in qualche modo complementare a quello della nona sinfonia. Quest’ultimo, infatti, inizialmente doveva essere dedicato alla libertà, ma poi fu modificato per questioni di censura. E’ significativo, comunque, che le due parole in tedesco risultino molto simili. Del resto, sempre per motivi di censura la trama del Fidelio nel corso delle diverse stesure fu via via “addolcita” perché considerata troppo libertaria e così si spiega anche l’esaltazione della giustizia del sovrano (rappresentata dall’arrivo del ministro Don Fernando) alla fine dell’opera, esaltazione che, comunque, non può prescindere dal diritto.

L’affermazione dei diritti civili contro la segregazione passa per Beethoven anche attraverso il riconoscimento dell’umanità e della pietà, anche nel caso in cui il carcerato sia veramente colpevole. Leonore, infatti, vuole salvare il prigioniero dalla morte indipendentemente che si tratti o meno di suo marito, per puro sentimento di compassione e fratellanza. Questo messaggio universale si estende però idealmente a tutti gli esseri umani, alla loro condizione, in cui solo la fratellanza e la solidarietà possono concorrere al raggiungimento della felicità. Basta un solo uomo per spingere gli altri verso il bene, purché essi manifestino un minimo di apertura verso l’altro, come nell’opera è dimostrato dal vecchio capocarceriere Rocco, che si lascia impietosire dalle richieste di Fidelio in favore dei prigionieri. Una società che non sia basata su questi presupposti, per Beethoven non ha vere speranze. Molto interessante in questo senso anche l’interpretazione del personaggio di Jaquino, che resta sordo ad ogni richiamo di sensibilità umana, come invece richiederebbe il continuo bussare alla porta del carcere nella prima scena. Con questa immagine l’autore ha voluto simboleggiare da un lato le ragioni dell’umanità che bussano continuamente alla porta di ogni uomo e dall’altro anche il rifiuto di chi intende la vita solo come possesso e personale interesse. Marzelline, infatti, si innamora di Leonora- Fidelio, per le sue qualità morali, le stesse che Jaquino non possiede.
La musica esprime in maniera mirabile i sentimenti e le idealità dei personaggi con i magistrali chiaroscuri, i momenti lirici, l’esaltazione della luce e del bene, nonostante la drammaticità della condizione umana, aprendo una visione quasi mistica sull’idea di libertà che accomuna tutti gli esseri umani, sebbene all’epoca la società fosse ancora autoritaria e rigidamente divisa in caste chiuse.

Come anticipavamo, altro elemento interessante, che distingue Beethoven da Verdi, è la fiducia tutta illuminista del primo nella possibilità di avere un monarca che sapesse governare con giustizia; questo nelle opere di Verdi non può più verificarsi perché i governi assoluti descritti dal compositore di Busseto sono figli della Restaurazione e non certo della Ragione, animati da cupidigia, corruzione, sopruso, al punto tale da aver diseducato il popolo, mosso solo dall’incoscienza e dalla paura; così anche il sovrano clemente non viene rispettato, ma eliminato. In questo senso nelle opere di Verdi domina una sostanziale sfiducia nel governo e/o nel suo rapporto con il popolo; pessimismo che non troviamo in Beethoven, segno che purtroppo i tempi erano cambiati e c’era stata una sostanziale regressione rispetto agli alti ideali della Rivoluzione francese al punto che tutto sembrava perduto.
Nel “Fidelio”, invece, il positivo epilogo finale è dovuto alla provvidenza e al diritto, poiché si ritiene che Dio non possa abbandonare l’uomo, ma anche che possano trionfare le ragioni della civiltà contro la barbarie. In questo senso l’opera di Beethoven è un miracolo, l’alba di un nuovo giorno dell’uomo che ancora oggi possiamo in gran parte solo immaginare.
Non c’è da stupirsi che un’opera così moderna e all’avanguardia fosse poi trascurata a lungo nell’Ottocento, e che sia stata riscoperta solo piuttosto di recente, pur avendo ispirato anche grandi compositori come Wagner e Mahler. Ciò spiega anche la condizione di Beethoven, che sempre si sentì isolato, esiliato nella propria epoca, amato dai contemporanei, ma, come un secondo Michelangelo, mai fino in fondo compreso, per l’universalità e l’idealità sovrumana delle sue visioni.
Il nuovo allestimento del Regio di Torino, in coproduzione con Opera Royal de Wallonie, per la regia di Mario Martone (autore del bel film sul Risorgimento italiano “Noi credevamo”) ha valorizzato in modo significativo le tematiche dell’opera sia nella scenografia di Sergio Tramonti, sia per la scelta di smorzare i possibili toni da commedia del primo atto e di esaltare, invece, l’elemento drammatico e le parti corali dove maggiormente si dispiega il messaggio universale dell’autore. La scelta di inaugurare con quest’opera la nuova stagione del Regio si inquadra perfettamente nelle celebrazioni conclusive dei 150 perché ricorda non solo gli ideali risorgimentali e ciò che è stato realizzato, ma anche quanto resta da fare, ciò che ancora di quegli ideali resta incompiuto o tradito.
Ci è capitato di sentire tra il pubblico anche qualcuno che ancora oggi non sa comprendere la bellezza del Fidelio definendolo “la solita opera tedesca, pesante”. Questo, sia detto senza mezzi termini, significa non capire la musica e forse neppure la funzione della lirica e del teatro e limitarsi alle storielle sentimentali che a prima vista il melodramma racconta. Fortunatamente ad assistere alla rappresentazione c’era anche un pubblico colto e attento che ha partecipato con calore e si è sinceramente commosso.
Per quanto riguarda gli interpreti dello spettacolo del giorno 11 dicembre, il soprano Ricarda Merbeth è stata molto applaudita dal pubblico per le qualità vocali e per la grande espressività con la quale ha dato vita ad un efficacissimo personaggio di Leonore; notevoli i mezzi vocali di Lucio Gallo che ha interpretato magistralmente il “cattivo” della storia, cioè Don Pizzarro; ottimo il soprano Talia Or (Marzelline) che ha tratteggiato il proprio personaggio con intelligenza e profondità, senza cedere a tentazioni macchiettistiche; buone anche le interpretazioni del basso Franz Hawlata nei panni del capocarceriere Rocco, di Robert Holzer (Don Fernando e del tenore Alexander Kaimbacher che impersonava il portinaio Jaquino. Unico caso in controtendenza il tenore Ian Storey che è apparso in grave difficoltà nella parte di Florestan: la voce è risultata poco timbrata, con acuti compromessi e problemi di intonazione.
Il direttore Gianandrea Noseda, che già in altre occasioni ci ha entusiasmato per le sue doti interpretative, su questa straordinaria partitura di Beethoven ha, se è possibile, superato se stesso, esprimendo lo spirito romantico del grande compositore tedesco, la sua filantropia illuministica, la luce della speranza, l’elegia dolcissima dell’amore come l’ira e la disperazione, lo sforzo titanico per affermare la verità contro tutti, il grande sogno della salvezza dell’umanità e della civiltà; tutto questo attraverso le innumerevoli sfumature dell’interpretazione musicale che con sapienza sono state raccolte e comunicate in un’unica grande e complessa unità concettuale e stilistica.

Rossana Cerretti



Don Giovanni l’immortale

2 01 2012

L’apertura della Stagione alla Scala tra stelle in crisi e “trovate” del regista Robert Carsen

Il “Don Giovanni” con il quale la Scala ha aperto la stagione 2012 si annunciava con un primo cast prestigioso: da Peter Mattei a Ildebrando D’Arcangelo (e/o Bryn Terfel), da Barbara Frittoli a Giuseppe Filianoti fino a Anna Netrebko, al punto da far registrare il tutto esaurito già all’apertura delle vendite (con immancabili polemiche annesse e connesse) e code interminabili per aggiudicarsi nei giorni di spettacolo i tradizionali 140 posti di loggione. Anche la regia di Robert Carsen era molto attesa perché presentata come decisamente innovativa e originale, secondo lo stile dell’estroso regista canadese. Perplessità, invece, già dall’inizio sul nome di Barenboim come direttore, notoriamente non molto amato dai loggionisti della Scala se non nel repertorio wagneriano e affini. L’esito finale ha in parte deluso le aspettative, almeno a giudicare dalla recita del 23 dicembre, ma ha anche fornito interessanti conferme e proposto ingegnose novità nell’interpretazione dell’opera.
Protagonista fin troppo invasivo, proprio il regista Carsen con tutte le sue trovate più o meno originali, coadiuvato da Michael Levine per le scene. L’idea di fondo consiste nell’ambientare il personaggio di Don Giovanni e le sue infinite storie di trasgressione in uno spazio metafisico per eccellenza, cioè nel teatro stesso, sottolineato prima da uno specchio che riflette l’interno della Scala, poi rompendo la finzione scenica attraverso le luci di sala accese in diversi momenti dello spettacolo. Le strutture dietro le quinte irrompono spesso sul palcoscenico, per poi ricomporsi in pannelli mobili che riproducono, creando infinite prospettive, il sipario rosso del teatro, volutamente ispirati alla tradizionale copertina dei libretti scaligeri. Ma quale sarebbe il significato di questo strano apparato? Il tentativo di Carsen, in parte riuscito, è stato di dare vita al mito di Don Giovanni piuttosto che raccontare la sua storia. In effetti, questo personaggio va oltre le definizioni di uno o dell’altro scrittore: dalle prime caratterizzazioni dell’”Ateista fulminato” della Commedia dell’arte a “El Burlador de Sevilla” di Tirso de Molina, da Moliere a Mozart fino a Kierkegaard e Camus ognuno ha inventato per l’inguaribile libertino nuove vicende da raccontare, e altrettante interpretazioni; episodi che rappresentassero aspetti diversi della sua personalità ed esemplificassero il giudizio di ogni autore a riguardo, ponendo l’accento, a seconda delle epoche, su svariati elementi.

Così Mozart e Da Ponte, da buoni illuministi, in Don Giovanni criticano soprattutto l’eccesso, la “barbarie”, intesa come incapacità di vivere secondo regole comuni; Moliere, invece, vede in lui un prototipo della corruzione di alcuni profittatori sociali, simile in questo a Tartufo, un affabulatore imbroglione che usa la nuova scienza per scopi nient’affatto scientifici, anzi, del tutto prosaici, e si trincera dietro il privilegio nobiliare. Sta di fatto, però, che Don Giovanni è stato spesso accostato proprio al personaggio di Faust per il comportamento trasgressivo e delinquenziale, quanto irriducibile; in questo senso Don Juan appare privo di redenzione più ancora di Faust anche perché incapace di provare paura perfino di fronte alla morte. Don Giovanni, perciò, da alcuni, come, per esempio, Albert Camus, è stato identificato nel prototipo dell’uomo assurdo, il ribelle, cioè l’emblema della libertà senza limiti, slegata dal futuro, dall’interesse e dalla contingenza. In definitiva egli incarna un vero e proprio superuomo senza speranza che va incontro all’autodistruzione senza rimpianti. E in effetti, il suo mito per quanto esecrato, non solo sopravvive, ma prospera ancora oggi. Questi sono i presupposti da cui è partito Carsen contrapponendo il carpe diem di Don Giovanni e il suo desiderio di assaporare ogni aspetto della vita in tutte le sue forme, ai divieti del potere. Così si spiega la scelta di far comparire nel primo atto il Commendatore dietro gli spettatori del palco reale. Don Giovanni, quindi, continua ad abitare tra noi, amato-odiato dalle donne e ammirato-invidiato dagli uomini, al punto che entrambi i sessi non possono fare a meno di subirne il fascino.

Tutte sono Elvira, Anna o Zerlina, incapaci di resistere alle sue seduzioni, tutti sono un po’ complici, come Leporello che, pur criticandolo, si identifica in lui e lo imita appena può. L’intenzione di Carsen era appunto quella di dimostrare come Don Giovanni non abbia mai smesso di andare in scena: egli è dunque immortale, mentre i suoi detrattori sono solo piccoli uomini come tutti gli altri, destinati ad essere dimenticati dopo la loro breve vita. Questo il senso dell’operazione metateatrale dove il regista suggerisce che i personaggi sulla scena siano consapevoli di stare recitando il Don Giovanni o, addirittura, facciano parte del pubblico stesso dello spettacolo e assistano divertiti all’azione; questo spiega anche le frequenti incursioni in platea e nei palchi circostanti degli interpreti durante la rappresentazione. In definitiva, nonostante le donne e gli uomini di tutte le epoche abbiano sempre demonizzato Don Giovanni, questo personaggio continua ad essere a amato e ricercato come un archetipo del mondo moderno: incarnazione dell’individualismo e del materialismo della società post galileiana e antesignano della relatività soggettiva e scettica della morale. Nello stesso tempo, la sua irriducibilità lo pone proprio in un confronto-scontro di aspirazione e repulsione con l’assoluto: è talmente “anti” da diventare egli stesso un concetto metafisico. In questo senso Carsen ha creato un’elaborazione scenica ingegnosa e con diverse invenzioni interessanti. Il risultato, però, non è molto coeso e coerente, e a volte la macchinosità dell’impianto prende il sopravvento sulla rappresentazione che diventa eccessivamente caotica e invasiva rispetto alla musica e all’azione scenica.


Per quanto riguarda i cantanti, lo spettacolo è stato caratterizzato da luci ed ombre: Peter Mattei è stato un ottimo Don Giovanni sia dal punto di vista vocale sia per l’interpretazione del personaggio, cinico, dandy, temerario quanto basta. Mefistofelicamente attraente, esaltando l’aspetto della vita come gioco vitalistico. Ildebrando D’Arcangelo è stato un Leporello, ancora migliore, comico, divertente, esilarante caricatura del padrone. Le voci di entrambi, solide e di bel timbro, non hanno mostrato difficoltà o incertezze di rilievo. Barbara Frittoli si è distinta per essere una Donna Elvira di carattere, ma innamorata perdutamente di questo protagonista inafferrabile dei sogni femminili; dotata di una sicura tecnica, ben utilizzata nell’interpretazione. Per sottolineare la sua situazione di eterna innamorata-disperata Donna Elvira recita praticamente per tutto lo spettacolo in sottoveste, inizialmente nascosta sotto un impermeabile “da viaggio”: ironia del regista, come versione femminile dell’esibizionismo tradizionalmente maschile. Carsen del resto, immagina che tutte le donne di fronte a Don Giovanni comincino a spogliarsi anche senza volerlo – Donna Anna compresa – con grande scandalo dei puristi, che avrebbero voluto fosse ribadito il tentativo di violenza carnale del protagonista sulla figlia del Commendatore. Ma naturalmente, ciò non era consentito dalla lettura dell’opera data dal regista. A questo riguardo è da segnalare anche la presenza del nudo con la cameriera di Donna Elvira che, dopo aver amoreggiato con Don Giovanni, assistendo alla famosa scena dello scambio con Leporello, si alza dalla sedia e torna indietro, vestita delle sole autoreggenti, per portarsi via il libretto dell’opera.


Purtroppo Anna Netrebko, molto attesa come donna Anna, ha dato forfait alla recita del 23 dicembre come già si era verificato nella precedente. Così, con disappunto, qualche loggionista ironicamente ha commentato: “Insomma praticamente aveva già fatto le valigie”. Delusione del pubblico a cui non ha posto rimedio la sostituzione con Tamar Iveri. La sua performance è apparsa debole, come del resto la voce: l’emissione ha dato una generale impressione di difficoltà, con suoni spesso poco udibili oppure, nei momenti di maggiore impegno, quasi urlati e scarsamente controllati. Giuseppe Filianoti, noto interprete nel repertorio belcantistico è apparso in difficoltà negli acuti e con problemi di intonazione rilevati a volte anche con mormorii inequivocabili del pubblico. Molto applauditi da alcuni Anna Prohaska (Zerlina) e Štefan Kocán (Masetto). In realtà soprattutto Zerlina ci è parsa dotata di una voce veramente esile, poco aggraziata e piuttosto incolore nell’interpretazione. Abbastanza bene Kwangchul Youn nei panni del Commendatore, soprattutto nella parte finale della statua misteriosa e orrifica. La direzione di Barenboim, confermando i timori iniziali, non ha convinto: soprattutto è apparsa priva di brio, piuttosto pesante e lenta, tra l’altro in netto contrasto con le scelte registiche, che, come abbiamo visto, esaltavano l’ironia e l’aspetto giocoso della coppia Don Giovanni-Leporello. Tra il pubblico, c’è stato anche chi non ha digerito un finale controcorrente rispetto alla tradizione, ma non bisogna mai dimenticare che sia Mozart sia soprattutto Da Ponte incarnavano con la loro vita, fatta di genio e sregolatezza, proprio il mito di Don Giovanni, al di là dell’epilogo apparentemente moraleggiante dell’opera.

Rossana Cerretti



Un Trovator incantò

26 12 2011

L’atteso debutto del tenore Francesco Meli nel ruolo di Manrico alla Fenice di Venezia

Il Trovatore è sempre un evento, per la meravigliosa partitura verdiana e per i ritmi teatrali serrati ed efficacissimi dove si intrecciano e si scontrano amore e guerra, necessità e libertà, potere e anarchia variopinta dei gitani.
Ma a rendere speciale lo spettacolo della Fenice della prima metà di dicembre era anche l’atteso debutto del tenore Francesco Meli nel ruolo del protagonista, il quale, dal canto suo, non ha deluso le aspettative degli appassionati. Meli è stato un Manrico sensibilissimo e lirico, passionale ed eroico, giovane dalle grandi aspirazioni, ma insicuro e incerto sulle sue origini. Cieco, come tutti, e, soprattutto, come l’ignaro fratello, Conte di Luna, di fronte ai molti presagi, alle coincidenze inspiegabili, alle strane e terrificanti rivelazioni della zingara che egli crede sua madre. Il giovane tenore genovese ha conferito all’opera una suggestione unica per la dolcezza virile del timbro, la chiarezza della dizione caratteristica del suo stile e per l’incanto indicibile di alcune arie come il dolcissimo e appassionato “Ah sì ben mio”. Meli ha sostenuto egregiamente l’opera insieme agli altri interpreti principali, creando uno spettacolo che ha emozionato ed entusiasmato il pubblico. Anche la famosa “pira”, la micidiale cabaletta che dovrebbe
terminare con il classico do acuto, peraltro mai scritto da Verdi, ma che fa parte della tradizione operistica, è stata affrontata bene da Meli, con l’esecuzione del da capo – quello sì previsto da Verdi, ma che non sempre viene cantato – terminandolo con l’acuto della tradizione. L’unico momento di leggera difficoltà si è verificato nella parte finale del successivo “All’armi”, che conclude la scena, dove la voce non è sembrata abbastanza potente e sicura. Un’incertezza, che, comunque, non penalizza un’interpretazione di alto livello.


Notevoli anche gli altri protagonisti come la brava Maria José Siri che, pur non avendo un timbro sempre ineccepibile, è dotata di una buona tecnica e ha interpretato una Leonora piena di energia e di coraggio. Franco Vassallo nei panni del Conte di Luna ha dato buona prova di sé anche se non sempre è riuscito a risolvere a livello vocale e interpretativo la complessità del personaggio oscillante tra una passione amorosa immensa quanto disperata e l’odio geloso per il fratello suo mortale nemico. Il Conte è apparso a volte troppo sbilanciato verso questo secondo aspetto, personaggio autoritario e forse poco duttile, privo dei cedimenti emotivi di un uomo innamorato. Veronica Simeoni, che interpretava Azucena, non è dotata delle note gravi e profonde che caratterizzano in genere altre interpreti della misteriosa zingara, le quali, però, finiscono spesso per sacrificare le molte incursioni in zona acuta della partitura. Proprio valorizzando questi tratti la Simeoni ha conferito un personale carattere al personaggio, sottolineando l’aspetto quasi delirante della zingara che corre verso la propria rovina come mossa da una forza che proviene dall’oltretomba, tanto che neppure gli altri gitani amano ascoltarla nelle sue terrificanti rievocazioni. Ella appare divorata da un desiderio di vendetta come un’ossessione incontrollabile che non è neppure sua, ma le viene dalla madre arsa sul rogo, la cui anima perduta continua ad aleggiare e ad apparire di notte agli incauti che osano avventurarsi nell’oscurità.
Efficace anche l’interpretazione di Ferrando da parte del basso Giorgio Giuseppini.
Senza infamia e senza lode la regia e l’allestimento già prodotti dal Regio di Parma per la scorsa edizione del Festival Verdi. Decisamente rigida e troppo veloce la direzione del maestro Frizza al quale sono state tributate sonore e non immotivate contestazioni.
Il Trovatore, comunque, vince sempre nel cuore del pubblico, come dimostrano le ovazioni finali per l’opera forse più bella che Verdi abbia mai scritto.

 



TANNHAUSER E LA “MANO” DI DIO – La Fura dels Baus e il suo allestimento super tecnologico alla Scala

13 04 2010
Un’Ouverture come quella del Tannhauser, andato in scena alla fine di marzo alla Scala, fa subito pensare alle visioni più solenni, ai grandi misteri della nostra esistenza, alle passioni, all’energia vitale che pervade ogni fibra dell’essere umano, al suo slancio verso un mondo «altro», cosmico, forse incomprensibile e irraggiungibile se non attraverso l’arte e la sua conoscenza profonda e onirica dell’essere. Riconoscendosi nelle affermazioni di Schopenhauer, nella musica Wagner cercava l’espressione stessa della Volontà di vita, il misterioso motore del mondo, perpetuo ed eterno come la sua «Melodia infinita», da trascendere attraverso l’arte nella visione degli archetipi universali della Bellezza e dell’Amore. Tannhauser rappresenta l’autonomia dell’artista rispetto alla società, ma anche alla divinità e la sua certezza di non appartenere ad alcun mondo e ad alcun potere, proteso nella ricerca di una propria via, la via della libertà, quella che né il Venusberg né la Wartburg gli consentono. Il leggendario cantore intende levarsi oltre e al di sopra del divino se per divinità si intende un’entità che mira ad imbrigliare l’uomo nei meccanismi di una rivelazione, di una conoscenza data per acquisita e quindi, in qualche modo, non conquistata e né cercata.
Tutti gli chiedono di accettare quella conoscenza e quel limite, lo implorano di fermarsi, di non continuare il suo cammino, ma Tannhauser, il trovatore profetico, non appartiene né al platonismo senz’anima né a Venere, perché ciò che davvero lo spinge è lo spirito dionisiaco che unisce indissolubilmente le più grandi esperienze mistiche e i più estremi piaceri carnali. L’artista deve conoscere tutto, solo così potrà apprendere ciò che esiste al di là. La Fura dels Baus e il regista Carlus Padrissa hanno colto pienamente questo aspetto del Tannhauser, tutto proteso verso la rivelazione delle grandi verità sul mondo e sull’uomo in un affascinante viaggio alle origini della vita attuato non con i mezzi della scienza, ma con quelli dell’arte. Se poi alle immagini sublimi che vorticano davanti agli occhi dello spettatore aggiungiamo la direzione del maestro Zubin Metha, che valorizza pienamente la meravigliosa varietà del cromatismo wagneriano, l’effetto è assicurato. La musica di Wagner con le sue molteplici sonorità, con il tipico andamento a spirale che galvanizza lo spettatore fino al parossismo assume così una potenza trascinante, si riempie di suoni evocativi, di vento, di acque, di ninfe e di abissi del tempo e dello spazio, per poi ritornare ai richiami della terra, ai prati e ai boschi, alle danze e agli armenti. Intanto sulla mano della divinità che sempre sovrasta la scena (sofisticato gioiello di automazione meccanica) viene scritto incessantemente, racchiuso in una serie infinita di simboli, il destino dell’uomo e del mondo.
Sono state ideate visioni e «macchine» altamente tecnologiche per questo allestimento, utilizzando costantemente proiezioni dietro e davanti alla scena, evocando così un paesaggio sempre surreale, sia all’interno della grotta del Venusberg sia all’esterno di essa nel cosiddetto «mondo reale». Cosiddetto perché per La Fura del Baus forse è più reale il Venusberg di ciò che noi consideriamo «vero». Un omaggio a tutti i grandi visionari del passato, coloro che con le loro ardite innovazioni hanno permesso allo spirito umano di procedere nella civiltà. Giunto nel mondo fenomenico, infatti, Tannhauser si ritrova prima in un deserto popolato da strani cavalieri primitivi, poi deve fronteggiare la gara della Wartburg ambientata in una sorta di corte di un antico maraja, una bollywood coloratissima e vacua che nulla ha della solennità drammatica dell’arte del grande trovatore.
L’amore cantato dagli altri poeti non ha carne né sangue, non è sofferto né vissuto. Soprattutto nessuno è consapevole che esso con la sua primitiva e ancestrale energia è il vero e unico motore del mondo, ciò che suscita la tragica quanto insopprimibile, perché profondamente umana, volontà di vita. Per tutti gli altri l’amore è uno stilema senza corpo né anima, una fredda entità platonica. Questo emerge dall’allestimento geniale della Fura del Baus: il mondo reale è il vero velo di Maya assai più del Venusberg da dove si sprigiona la vita di ogni essere. Anche la grotta di Venere, il luogo dell’immortalità, sta però stretto al grande cantore erede di Orfeo. Egli lo afferma chiaramente fin dall’inizio dell’opera: come un novello Ulisse dell’arte egli ha bisogno di soffrire e morire, toccando così l’essenza del mondo. Di fronte alla sua poesia «scandalosa», perché vera, soltanto Elizabeth applaude, perché forse ella rappresenta l’elemento apollineo che sempre si accompagna al dionisiaco, perfetto, ma inscindibile dal suo compagno sotterraneo e nascosto che ne è l’anima stessa. Così, alla fine, Tannhauser si salverà morendo, non per il perdono della divinità, ma per la sua stessa capacità di sublimarsi e andare oltre il pensiero, insieme alla perfezione celeste di Elizabeth. Il prezzo da pagare è il passaggio nel mondo dello spirito, il raggiungimento di un’altra dimensione. Come sempre in Wagner la sublimazione e l’inscindibilità finale avvengono attraverso l’unione con l’assoluto che può compiersi pienamente solo con la morte. Se l’allestimento e la regia – ingiustamente fischiati dal pubblico alla prima per le loro caratteristiche così innovative – e la direzione di Metha hanno fatto di questo Tannhauser una versione da ricordare, non altrettanto si può dire, purtroppo, dei cantanti (almeno nello spettacolo che abbiamo seguito il 27 marzo scorso). Innanzitutto perché il tenore Robert Dean Smith, mancava della potenza necessaria per sostenere il ruolo del protagonista che dovrebbe essere dotato di grande energia comunicativa ed emotiva. Del resto il personaggio di Tannhauser richiede delle capacità di tenuta vocale ai limiti dell’eccezionalità. Tra le interpreti femminili la migliore è stata sicuramente Anja Harteros una Elizabeth sensibile e di notevole espressività, ma anche Julia Gertseva (Venus) si è distinta seppure con qualche incertezza. Non altrettanto si può dire di Roman Trekel (Wolfram) che è apparso spesso in difficoltà e ha interpretato il famosissimo «O du, mein holder Abendstern» senza alcuna passione né chiaroscuro.
Più che gli interpreti, insomma, è stato interessante l’allestimento in generale e l’immaginoso susseguirsi di colori e suoni in una continua sarabanda di visioni che si esprimono in modo metafisico e surreale e interpretano egregiamente quella mistica pagana e decadente, estetizzante ed eroica tipica dell’universo poetico wagneriano. Da questo punto di vista si può parlare senz’altro di un’occasione perduta.


LA BORGHESIA CI SALVERA’? L’illuminista Goldoni alle prese con l’ipotesi di un nuovo modello sociale nel Sior Todero Brontolon»

23 03 2009
Sior Todero Brontolon
Chiuso nella sua torre di difesa, una torre che deve salvaguardarlo non dagli intrusi esterni, ma soprattutto dalla sua stessa casa e dai suoi familiari, Sior Todero è un vecchio «rustego», un veneziano all’antica, di quelli che, secondo il Goldoni, hanno determinato la ricchezza della città lagunare, ma anche il suo inguaribile anacronismo. Un padre – padrone, che, se da un lato ha saputo preservare il patrimonio familiare senza andare dietro le mode del momento (come invece hanno fatto, ad esempio, i protagonisti della Trilogia della villeggiatura) dall’altro si è lasciato poi ingenuamente derubare dal suo fattore e ha reso il proprio figlio un imbelle senza spina dorsale.
Ancora una volta per il Goldoni non è solo la ricchezza ammassata che conta, ma assai più importante è quella guadagnata con il proprio lavoro e la propria intraprendenza. Una concezione moderna della società che, come è noto, non sempre gli fruttò grandi simpatie nella sua città. Inoltre l’autore indaga sulla funzione della borghesia come innovativo motore sociale, che dovrebbe essere capace di determinare nuovi modelli di sviluppo economico e di ordinamento statale.
Come sempre nelle opere goldoniane, anche qui le classi popolari sbagliano e risultano inconsapevoli se non addirittura poco oneste, mentre i «vecchi», pur con i loro meriti, appaiono immobili e troppo ancorati al passato.
E allora largo ai giovani e alle donne, molto più disposte a cambiare e ad evolversi, qui tutte intraprendenti e decise come delle moderne locandiere. Ma a moderare lo scontro tra vecchio e nuovo, come accade anche nella Famiglia dell’antiquario, ci vuole un arbitro, qualcuno che giunga ad un onorevole compromesso e che mostri quella avveduta generosità che manca al Sior Todero.
Tra vecchio e nuovo ecco apparire, alla fine, il solito deus ex machina di molte commedie goldoniane, specializzato nel risolvere baruffe: di solito è un gentiluomo borghese evoluto che con il suo equilibrio e la sua capacità di mediazione riesce a mettere d’accordo tutti: il desiderio di cambiamento delle donne e l’inamovibilità del vecchio capofamiglia.
Una commedia sulle dinamiche familiari e sociali che ripropone la morale goldoniana del giusto mezzo, basata sulla ragione e sui principi illuministici.
L’opera, frutto della coproduzione della Compagnia del Teatro Carcano, Teatro Fondamenta Nuove e Teatro Stabile del Veneto, si avvale della regia di Giuseppe Emiliani con l’ottimo Giulio Bosetti come protagonista e la spumeggiante figura della nuora Marcolina, interpretata da Nora Fuser. La messa in scena appare a volte fin troppo perfetta, e magari qualche incursione sull’attualità sarebbe stata consigliabile, ma i ritmi sono comunque molto godibili e la vivacità popolare e colorita del dialetto veneziano è resa con efficacia.
Il Sior Todero Brontolon, attualmente ancora in tournée in questo finale di stagione, andrà in scena dal 31 marzo al 9 aprile al teatro Carcano di Milano


L’ULTIMO GIORNO DI NAPOLEONE IN UNO SPETTACOLO DI ANDREA BRUNETTI CON FABIO BANFO

14 02 2009

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«Napoleone», lo spettacolo presentato nei giorni scorsi al Teatro Olmetto di Milano, descrive il grande generale corso alla fine della sua parabola umana e politica, ma, nonostante tutto, ancora con il suo carisma intatto. 
Il testo scritto dal regista Andrea Brunetti sembra costruito sulle caratteristiche di Fabio Banfo a cui è affidato il ruolo del protagonista. Ne esce un ritratto di Napoleone per nulla scontato, con le sue luci e le sue ombre, ma sempre grande anche nella sconfitta e continuamente in cerca di qualcosa da conquistare, in una sorta di perenne e atavica «fame» di possesso, di dominio, di vittoria.
Alla stregua di un Don Giovanni o di un Faust, Napoleone non cessa di essere un superuomo anche nei pochi chilometri quadrati di un’isola sperduta nell’oceano.
Un personaggio non facile da interpretare, ma brillantemente risolto da Banfo, perennemente in bilico tra grandezza e pathos, tra carisma e nevrosi.
Un Napoleone che pensa a Waterloo continuamente e non sa come possa aver perduto quella battaglia. Vittima, del destino, della follia del suo più fidato generale o, forse, solo di quel Dio che lo volle per un suo disegno misterioso «due volte nella polvere, due volte sull’altar».
Un uomo che viene messo a confronto con un «giovane» e che si trova ad invidiarlo; che pagherebbe tutto ciò che aveva un tempo per poter tornare alla sua età e ricominciare la sua avventura da capo.
Lui che ha avuto tutto, tutti ai suoi piedi e ha perso tutto, ora si ritrova a contendersi le attenzioni di una puttana la quale guarda con maggiore interesse il suo servitore di quanto non guardi lui.
Ora le sue strategie di battaglia servono solo a bloccare una colonna di formiche al lavoro per la conquista spasmodica delle sue «scorte». Quelle formiche sono le schiere umane della storia, l’avanzare lento, ma inarrestabile di quel popolo che per lui era così lontano, così inferiore da doversi chinare per ascoltarlo.
Quel popolo ora è lì e lo venera come sempre, non riesce a non amarlo, nonostante la sua arroganza, lo venera anche da sconfitto, per il suo carisma che incantava gli uomini e suscitava in loro grandi sogni, quella «fantasia» che sempre ha colpito l’immaginario di tutti. Il popolo lo adora, ma alla fine lo supera, semplicemente va oltre.
Napoleone è solo un uomo che voleva sempre vincere, che non tollera di perdere anche se in gioco c’è solo una giovane contadina troppo "generosa". Vuole vincere a tutti i costi, anche contro un’ordinata colonna di formiche; non importa se per farlo dovrà distruggere lo stesso oggetto da conquistare: questa è la vittoria e la vittoria viene prima di tutto.
Alla fine, il popolo che tanto lo aveva amato sarà proprio il primo a tradirlo, servendogli più o meno consapevolmente del cibo avvelenato.



DIALOGO CON FRANCO BRANCIAROLI – Uno dei grandi mattatori del teatro italiano parla di sé e del suo Don Chisciotte

14 02 2009
11-02-09_1814Mercoledì scorso al Mondadori Multicenter di Piazza del Duomo a Milano, Franco Branciaroli ha presentato il suo spettacolo Don Chisciotte – in scena in questi giorni al Teatro Strehler- nel corso di un incontro condotto da Antonio Calibi, Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano. In quest’occasione, attraverso le domande del conduttore e del pubblico, Branciaroli ha ripercorso le varie fasi di ideazione del suo spettacolo, chiarendo il rapporto con i due mattatori del teatro italiano, Vittorio Gassman e Carmelo Bene ai quali si ispira per dare voce a Don Chisciotte.e Sancio Panza. Vi proponiamo il suo intervento così come lo abbiamo raccolto, sotto forma di un dialogo – intervista con l’attore.
 
L’IDEAZIONE DEL «DON CHISCIOTTE»
Come ha concepito l’idea di mettere in scena il cavaliere della Mancia in modo così originale?
Questo strano Don Chisciotte nasce da una sfida: non c’è attore che non sogni di interpretarlo, ma già mettere in scena i romanzi è un controsenso perché i romanzi sono fatti di personaggi, caratteri, mentre nel teatro si affrontano miti e i miti antichi sono funzioni e rappresentazioni. I personaggi moderni come Don Giovanni, Faust e Don Chisciotte sono, invece, caratteri: si sa troppo di loro, sono eccessivamente concreti. Si sa cosa mangiano e come sono, non sono funzioni astratte come Edipo per questo «funzionano» meglio se interpretati con il canto o la parodia.
Sta dicendo, quindi, che rappresentare Don Chisciotte sul palcoscenico è impossibile?
Proprio così, i fallimenti che si sono susseguiti nel tentativo di mettere in scena questo personaggio lo dimostrano. Pabst è l’unico regista che è riuscito a tradurre il Don Chisciotte in un film, ma le sue parti erano cantate altrimenti sulla scena non sarebbe stato efficace. Un attore non regge per più di 5 minuti con un bacile sulla testa, a meno che non sia tutto trasfigurato attraverso una visione più onirica ed artificiale. E’ la sfida che già Shakespeare aveva capito: mettere in scena un personaggio attraverso la sua assenza, perché, altrimenti, sarebbe risultato troppo debole, come accade, per esempio, nel Giulio Cesare: quello che dovrebbe essere il protagonista, sta in scena al massimo per un quarto d’ora in tutto, per pochi minuti ogni volta.
C’è un perfetto parallelismo nello spettacolo perché Cervantes e Shakespeare sono morti lo stesso giorno (23 aprile 1616), mentre Bene e Gassman erano nati lo stesso giorno, il primo settembre.
Una bella sfida insomma… come ha pensato di risolverla?
Ho pensato di concentrarmi su che cosa fa Don Chisciotte, anziché su chi sia. In realtà, egli è fondamentalmente un imitatore e il romanzo di cui è protagonista è una sorta di trattato sull’imitazione. In genere, è considerato un personaggio positivo, ma questo giudizio sarebbe in parte da rivedere, perché non è autonomo, imita personalità anacronistiche, si uniforma in tutto e per tutto ad Amadigi di Gaula, che per lui resta un modello inarrivabile.
Allora ho pensato che, se volevo portare in scena Don Chisciotte, anziché imitare i cavalieri erranti, dovevo imitare «i cavalieri della scena» che si cimentano nella sfida impossibile di «rappresentare» il Don Chisciotte.
Insomma lei nei confronti di Bene e Gassman si comporta come Don Chisciotte, di fatto compie la medesima operazione…
Esatto, io sono come Don Chisciotte: io imito Bene e Gassman che interpretano il personaggio di Cervantes. Un percorso metateatrale degno di Borges: essi escono sconfitti dall’impossibilità di mettere in scena il Don Chisciotte, mentre io lo «faccio», cioè divento l’imitatore dei miti del teatro italiano ed esco vincente dalla sfida. Il vero Chisciotte sono io: infatti la mia vera voce non si sente mai, perché il «Don» è solo imitazione.
L’altra idea comica è stata quella di creare una coppia che reggesse la scena come Totò e Peppino o Stanlio e Ollio. Inoltre, lo spettacolo è organizzato per episodi anche slegati perché così è simile alla trama del libro: si possono estrapolare passi diversi anche senza rispettare un ordine narrativo dal momento che è costruito per giustapposizione.
 
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IL ROMANZO DELL’ILLUSIONE BAROCCA
Insomma sembra di capire che il Don Chisciotte sia un romanzo «allo specchio», secondo il procedimento dell’illusione barocca. Specchio che, infatti, appare in scena, quando viene aperto il libro di Cervantes…
Nel romanzo c’è un plagio: Don Chisciotte diventa lettore di se stesso in diretta, e la conclusione del duello con Biscaino, infatti, viene letta sull’altro libro quello ritrovato per caso a Toledo, opera di uno scrittore moro. E’ come se il protagonista ritrovasse il suo libro dove si raccontano le sue gesta, anche quelle che non ha ancora compiuto. Ciò può accadere solo perché è un essere del tutto virtuale. Il plagio fornisce una scusa a Cervantes per scrivere il secondo volume che non sarebbe frutto d’imitazione. Lo spettacolo ha la stessa funzione: provocare nello spettatore l’idea dell’impossibilità dell’illusione scenica del teatro. Nell’era di un programma come il «Grande Fratello» che scimmiotta la vita vera «facendo la vita vera», il teatro, che è finzione volta al vero, quale funzione può assumere? Per questo Don Chisciotte è l’eroe di un’epoca di crisi: se c’è un romanzo uguale al romanzo che racconta la vostra vita, allora anche voi potreste essere finti. Si potrebbe arrivare a mostrare in televisione me seduto sul divano che guardo la televisione (dove ovviamente sullo schermo ci sono io).
Mi pare che lei abbia voluto restituire al teatro il suo senso proprio attraverso la funzione di quel sipario barocco che non cala mai, ma si apre su una vertigine.
Sì, il sipario barocco disvela un antro che è una vertigine, perché al centro c’è la porta dell’inferno e ai lati il bancone di un bar ingombro di superalcolici.
Lo specchio, infatti, determina il meccanismo barocco: non deve essere un doppio sterile, ma attraverso l’oggettivazione esterna in un altro elemento, mostrerà la verità a chi guarda. Questa è la funzione del romanzo barocco ovvero del Don Chisciotte.
Lo spettacolo però è anche molto comico… Non è solo un’operazione intellettuale
Questo spettacolo è basato sul cabaret: due morti vi invitano sul loro palcoscenico nell’aldilà dove si vive una sorta di atmosfera allucinatoria. Trascinati dall’alcool che era la droga degli anni ’50, i due «mattatori» introducono a freddo i pezzi di Cervantes come se fossero alticci, in preda ad una sorta di veggenza o di delirio. Gassman, per esempio, beve «il biondo amico della notte» (whisky) e poi vede i mulini a vento. Quando scambia i mulini per giganti, però, Don Chisciotte non prende semplicemente "Roma per toma" perché la sua visione fa parte del concetto di maraviglioso dell’epoca nel quale si affermava l’identità di giganti e torri. Insomma, tra torri e mulini, poi, non c’è tutta questa differenza: è un mondo che egli non riconosce più e non vuole consapevolmente riconoscere (cioè il mondo della tecnica ndr).
 
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L’IMMORTALITA’ DI DON CHISCIOTTE E’ IL TEATRO
Come mai nell’opera si allude al fatto che ogni sera cambierebbero gli episodi narrati?
Ho voluto dare la sensazione di un’opera in fieri che viene costantemente ripetuta dai due attori, in uno spettacolo infinito, ma sempre con un testo diverso. Si presume, infatti, che Bene e Gassman reciteranno per sempre. Il palcoscenico del teatro si trova al Purgatorio: è lì che vogliono eternamente vivere, sebbene essi siano stati mandati in Paradiso, a dispetto di tutti i loro eccessi, mentre Dante è all’inferno, secondo un tipico meccanismo di inversione carnevalesca.
Per questo il suo Don Chisciotte non muore?
Il «Don» sul mio palcoscenico non muore mai. Inganna anche Cervantes: non muore perché sta al Purgatorio cioè, come dicevo, nel teatro (perché il Purgatorio è il luogo «ove ragion ne fruga» come spiega Dante nel III canto, ndr) luogo sospeso tra terra e cielo, tra Paradiso e Inferno. Questa soluzione viene anticipata da Miguel de Unamuno il quale ha scritto una Vita di Don Chisciotte e di Sancio dove attacca Cervantes perché a suo parere non avrebbe capito realmente il valore del suo personaggio. Secondo de Unamuno il fondamentale delitto di Cervantes è che interrompe il romanzo facendo rinsavire il protagonista e facendogli rinnegare la cavalleria errante. Il romanzo infatti, è costruito come una sfida e una lotta tra Cervantes, che non può più credere alla cavalleria e il suo personaggio che tenta di seguirla in tutto e per tutto.
A volte sembra che il suo Don Chisciotte sia nato improvvisando e che anche in scena lei stesso talvolta improvvisi…
E’ vero, è nato improvvisando e anche in scena c’è questo rapporto diretto con il pubblico al quale ci si rivolge e che rompe la finzione, anche introducendo gli applausi di un altro pubblico virtuale.
Inoltre, questo mio progetto ha preso corpo durante la tournee del Galileo di Brecht: durante le pause perseguitavo gli attori della compagnia di fronte a quali improvvisavo delle scene del Don Chisciotte con le voci di Bene e Gassman per vedere se «funzionavano» se avrebbero riso.
Ad un certo punto dello spettacolo si parla di identità, verità e amore, le tre domande che Don Chisciotte si pone, perché?
Che cos’è l’amore, l’identità, la verità: tutte e tre queste componenti sono messe in discussione dalla nuova visione del mondo dell’uomo moderno. Come Shakespeare lo fa con Amleto in modo tragico, Cervantes mostra attraverso il suo personaggio la precarietà di questi tre concetti che prima sembravano indiscutibili: Don Chisciotte non ha un’identità sua, ma è frutto di pura imitazione, la «sua» verità è un fatto del tutto soggettivo, e nel suo romanzo anche la realtà sembra sempre ingannevole; infine, come si fa ad amare una donna che non si conosce? Quindi tutte le certezze risultano volutamente sovvertite. E’ il mistero del falso che affascina più del vero e che da sempre fa parte del gioco del teatro e della letteratura.
Perché augura buon viaggio agli spettatori alla fine dello spettacolo?
Perché si immagina che anche gli spettatori siano entrati in questo luogo dell’aldilà privo di tempo, dove la loro stessa corporeità si sia frantumata, allora alla fine dello spettacolo sarebbe come dire «ricomponete i vostri elettroni e tornate a recitare nella vita».
Perché il personaggio di Don Chisciotte non è solo comico, ma anche ferisce?
Ferisce perché nell’opera c’è lo humour che rende ambiguo tutto. Lo humour è un’invenzione del Don Chisciotte: prima c’era la comicità, poi l’ironia ariostesca che già ci si avvicina, ma lo humour dilacera, perché pirandellianamente mette a nudo la verità. Non nasconde, ma esalta l’elemento patetico che viene svelato al di là dell’apparenza.

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RICORDO DI DUE «MATTATORI»
Gassman e Bene si conoscevano? Erano amici?
Sì si conoscevano ma non erano amiconi, direi piuttosto, «amicani», nel senso che si punzecchiavano spesso e volentieri.
Ricordo uno scontro su uno spettacolo di Carmelo Bene. Il figlio di Vittorio Gassman andò a complimentarsi con lui, ma Bene gli disse che suo padre lo aveva mandato perché non aveva avuto il coraggio di venire personalmente… Allora ad un incontro pubblico successivo, Gassman si presentò di sorpresa e lo mise in difficoltà chiedendogli che cosa fosse un anacoluto. Allora, poiché Bene non seppe rispondere, lo accusò di «coglionare» il pubblico.
Nello spettacolo spesso sembra che, in realtà, Bene e Gassman siano le due facce della stessa medaglia…
In effetti è così, come Sancio e Don Chisciotte, entrambi sono funzionali l’uno a l’altro. Del resto, Bene e Gassman venivano dalla stessa scuola di recitazione, detta dei «fonatori»: uno recitava di più con il diaframma e l’altro più di «maschera», ma entrambi con una sorta di intonazione musicale derivata forse anche dal fatto che inizialmente i testi teatrali venivano tradotti dal francese e mantenevano quella musicalità. Entrambi, perciò, hanno creato una sorta di manierismo, tant’è vero che sono imitabili. Si tratta di una recitazione «filosofica», astratta. Al contrario, ad esempio, della scuola di Salvo Randone che sembrava voler costruire una sorta di «parlato vero».
Com’erano umanamente Gassman e Bene?
Non erano due mostri di simpatia anche perché erano soggetti a continui cambiamenti di umore. Ma sicuramente erano due attori eccezionali. L’interpretazione più incredibile di Gassman è nel film I mostri perché rivela tutte le sue possibilità espressive, anche su registri differenti. Bene interpretava soprattutto se stesso e tendeva a sovrapporsi ai personaggi. Tra il Sorpasso e Profumo di donna, invece, c’è uno sforzo di recitazione, poiché si tratta due personaggi ben differenziati. E pensare che Gassman si vergognava a interpretare questi ruoli al cinema, invece erano geniali! Tra i due Gassman era una personalità forse più instabile, stranamente tormentato, come poi abbiamo visto negli ultimi anni della sua vita. Bene era un bevitore accanito di gin, un fumatore a livello autodistruttivo, con i suoi tre pacchetti di Gitanes al giorno, ma era più stabile nella sua sregolatezza, e al di là del suo «personaggio» come artista, era un vero gentiluomo del Sud. Comunque, i suoi eccessi non li ho mai molto apprezzati. A mio parere un artista finisce il suo apprendistato quando smette di essere un "genio".

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LE TAPPE DI UNA «VITA INIMITABILE»
Quali sono state le personalità artistiche che hanno segnato la sua carriera?
Ci sono tre grandi personaggi dai quali ho appreso molto: Aldo Trionfo, con il quale io e Carmelo abbiamo interpretato il Faust-Marlowe-Burlesque, regista geniale e quasi sconosciuto perché facendo il teatro solo per passione e non per vivere (visto che era di famiglia molto ricca) non pubblicizzava neppure i suoi spettacoli e non invitava i critici. Con lui Carmelo Bene ha interpretato il suo primo Caligola. E poi mi ricordo ancora un suo famoso Sandokan… A lui piaceva fare un tipo di teatro «di rivista».
Un altro regista importante per me è stato Luca Ronconi con il quale ho interpretato Medea: lui mi ha insegnato che il teatro può essere vissuto come esperienza e conoscenza filosofica.
E infine, Giovanni Testori perché creava i suoi testi modellandoli direttamente sull’attore e la compagnia che li avrebbe recitati, quindi è stata un’esperienza irripetibile. E’ stato fondamentale per me anche per il suo aspetto visionario, calato, però, profondamente nel reale, come quando rappresentammo In exitu su una scalinata della Stazione Centrale di Milano, usando una lingua lombarda tutta sua.
C’è uno spettacolo o un personaggio a cui è particolarmente legato?
In genere non è affatto vero che per interpretare un personaggio si deve sentire profondamente quello che prova, anzi, una volta conclusa una tournee spesso viene dimanticato, ma ce n’è uno che mi è rimasto veramente impresso: Hamm di Finale di partita di Beckett. Non lo so perché, ma le sue battute continuavano a riecheggiarmi nella mente, questo personaggio mi mancava, anche finite le repliche. Anche Medea, quando ero in scena vestito come Anna Magnani, per me è stato il massimo… E poi mi ha segnato molto, come dicevo, il protagonista di In exitu, ma ricordo anche con grande piacere lo spettacolo Nerone è morto, di Aldo Trionfo nel quale recitava anche Wanda Osiris.
Com’è il suo rapporto con il cinema e la televisione?
Con la televisione, non ho praticamente rapporti, semplicemente non mi interessa. Il cinema, invece, non è mai stato veramente il mio mondo: ho fatto cinque film con Tinto Brass perché è un amco e con lui sul set ci si divertiva. Per il resto, ogni tanto accetto qualche ruolo altrimenti – accenna un sorrisetto beffardo – il mio agente cinematografico resta disoccupato… Il cinema, insomma non è proprio il mio ambito, resta per me un altro mondo, un altro paese.
Come dovrebbe essere secondo lei il nuovo teatro?
Oggi si tende a descrivere quello che si vede e basta e chi lo fa rischia anche di essere definito un genio…. In realtà non sta proponendo altro che quello che vede. Il vero artista, invece, dovrebbe ricercare in ciò che osserva la verità sull’uomo. Occuparsi della gente che vive e chiedersi come può crescere, descrivere non basta; ci vorrebbe un teatro propositivo. Forrest Wallace è un grande autore contemporaneo proprio per questo perché non si limita a descrivere «l’orrenda società americana», ma si spinge oltre. Mostrare il nulla non basta: la difficoltà è far vivere nel teatro che cos’è l’uomo.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm