GIOCANDO A SCACCHI CON I PROPRI INCUBI – Il mondo virtuale in “Finale di partita” di Samuel Beckett nell’originale interpretazione di Massimo Castri

13 02 2012

Tra gli spettacoli più interessanti di questi ultimi due anni (tuttora in tournée, vincitore del premio UBU 2010 e Alabarda d’oro 2011) è senz’altro da segnalare “Finale di partita” di Samuel Beckett per la regia di Massimo Castri, interpretato dagli ottimi Vittorio Franceschi (Hamm), Milutin Dapcevic (Clov), Diana Hobel (Nell), Antonio Giuseppe Peligra (Nagg). Tra le novità introdotte dal regista nell’interpretazione di quest’opera particolarmente complessa, capolavoro del “Teatro dell’assurdo”, c’è il ruolo centrale giocato dalla realtà virtuale, creata dalla coscienza stessa dei protagonisti. Secondo questa chiave di lettura, la vicenda, inizialmente ispirata agli ultimi giorni di Hitler nel suo bunker di Berlino, può essere anche intesa come il paradigma delle deformazioni mentali dell’uomo contemporaneo, che preferisce la creazione di una realtà virtuale, per quanto deserta, anziché confrontarsi col mondo reale. Se per Beckett, oltre 50 anni fa, era già possibile immaginare una coscienza chiusa completamente in se stessa perché “al di là c’è l’altro inferno”, oggi la possibilità di vivere completamente rinchiusi anche materialmente in una sola stanza, ignorando totalmente ciò che avviene fuori, appare ancor più concreta: almeno in teoria, si potrebbe sopravvivere affidandosi soltanto ad una realtà totalmente digitale.
La scena si apre su una stanza grigia di una casa vagamente retro, ma incredibilmente spoglia e priva di arredi: un pavimento a scacchiera, due finestre poste in alto sulle pareti laterali – l’una rivolta verso il mare, l’altra verso la spiaggia – un quadro sopra il caminetto, girato però verso il muro, e due grandi bidoni della spazzatura. Al centro della scacchiera su una sedia a rotelle è seduto Hamm, metafora dell’uomo al centro dell’universo, che ha fallito totalmente il compito di “signore” della creazione. Il re sotto scacco di questo “finale di partita” (ispirato effettivamente al gioco di cui Beckett era appassionato) è, infatti, un vecchio signore cieco e paralitico il quale ha bisogno di essere accudito in tutto e per tutto da Clov (la regina), il servo fedele, zoppo, ma incapace di stare seduto. Clov è stanco di questa vita, ha il forte desiderio di scappare, ma il vuoto che sembra circondarli e il rapporto simbiotico con il proprio padrone lo costringeranno a rimanere nella casa fino alla fine. Nei bidoni vivono i genitori di Hamm (i pedoni), che a loro volta non possono muoversi, perché hanno perso entrambe le gambe, “in un incidente nelle Ardenne”, vale a dire, durante le sanguinose battaglie della prima guerra mondiale. Hamm sembra ossessionato dal desiderio di annientare tutto ciò che è vivo, compresi i propri genitori, che egli odia, ritenendoli responsabili di averlo messo al mondo.

Sia Hamm sia Clov sostengono che ormai si è giunti alla fine, che qualcosa “sta facendo il suo corso” ed è arrivato alla conclusione, probabilmente perché Beckett intende riprodurre gli ultimi attimi di vita di un cervello pensante, ma ormai bloccato, non sappiamo se dalla morte fisica o dalle sue errate convinzioni sul mondo.
E’ come se il tempo si fosse fermato e tutto ciò che si trova al di là delle pareti della casa fosse stato eliminato, tagliato fuori fisicamente ed escluso anche dal ricordo, come testimonia, appunto, il dipinto voltato al contrario.
In quest’opera Beckett immagina un folle dittatore o un Logos maligno, che sarebbe riuscito ad attuare la “soluzione finale”, distruggendo la vita dell’intero pianeta, ma lo interpreta poi in senso metaforico e astratto, mettendolo in relazione con la coscienza dell’uomo contemporaneo. La distruzione totale, affermata da Clov e Hamm, non appare, infatti, veritiera, come dimostra il bambino avvistato, ad un certo punto, fuori dalla casa. Massimo Castri accentua questa interpretazione dell’opera poiché quando Clov apre una delle finestre della stanza si sentono voci di bambini che si divertono come se fuori ci fosse un parco, ma i due protagonisti si ostinano a dire di non sentire nulla. Sembra, perciò, che Hamm e Clov si siano volutamente rinchiusi in un luogo che essi stessi hanno isolato dal mondo, creando un loro deserto mentale, mentre fuori esiste la vita vera. In tal caso sarebbe il personaggio stesso di Hamm ad essersi autosegregato, seguendo un impulso nichilista di autodistruzione o un inutile tentativo suicida di non soffrire: infatti, per quanto sia chiuso in un luogo isolato e non venga in contatto pressoché con nessuno, a parte le figure dei genitori, chiede continuamente il suo calmante perché è preso ugualmente dall’angoscia esistenziale e non sa stare solo con se stesso. E’ come se egli avesse eliminato tutti gli esseri viventi dalla propria esistenza, ritenendoli responsabili del malessere che prova, per poi accorgersi che l’origine di esso risiede fondamentalmente nel suo stesso io. Hamm chiede continuamente a Clov di essere spostato avanti e indietro di una casella sulla scacchiera, proprio come il pezzo del re negli scacchi, ma è tutto inutile perché la situazione appare ormai senza via d’uscita.
Il Logos maligno è il superstite dei due conflitti mondiali e dei regimi totalitari e spietati del primo Novecento, ma secondo Beckett, esso influirà anche sulla società successiva, forse perché è insito nella natura umana: dopo essere stato irrimediabilmente minato dalle guerre, diffonderà una violenza nichilista che accomunerà tutti, perché la coscienza umana non sarà più in grado di vedere la positività dell’esistenza, ma resterà segnata da pulsioni autodistruttive. L’uomo diventerà malato e, in preda alle sue paure ed ossessioni, cercherà di isolarsi dal mondo, smettendo di riprodursi e condannando chi ha dei figli. La vita sarà considerata una malattia, al punto che Hamm insulta i propri genitori perché l’hanno fatto nascere e condannato a vivere.
Il dolore di Hamm è però controllato da Clov, che utilizza diversi oggetti (i mezzi tecnologici) per compiere la volontà del padrone, poiché quest’ultimo, ormai immobilizzato, non è in grado di usarli da solo: per osservare il paesaggio il servo guarda dalle finestre con un cannocchiale che ci ricorda la scienza galileiana, mentre è spesso presente in scena una sveglia che simboleggia la misura del tempo. Tutti questi oggetti, però, non servono per vedere e capire se la mente nega ogni evidenza. Il rampino usato da Hamm nell’inutile tentativo di muoversi rappresenta probabilmente il rapporto di causa ed effetto, ma anch’esso è inutilizzabile, perché, avendo distrutto ogni cosa, non esistono più né gli effetti né le cause. L’unica cosa che il protagonista riesce ancora a fare è raccontare storie sebbene il suo passato sia confuso e i ricordi risultino incompleti, anche perché il linguaggio si sta deteriorando e impoverendo, come tutto il resto. In altre parole la sola esistenza possibile a questo punto è soltanto raccontata, inventata dalla sua mente cioè virtuale; ecco delinearsi, quindi, il collegamento con il mondo di oggi, di cui secondo Castri, quest’opera diventa metafora, al di là del rapporto con le grandi catastrofi del Novecento.
Hamm racconta di aver distrutto ogni cosa, convinto com’era che per il mondo, condannato alla sofferenza, fosse meglio l’annientamento totale. In seguito, però, ricorda e rimpiange ciò che egli stesso ha cancellato: per esempio, ha sterminato il genere umano, ma poi, avendo bisogno di un servo ha fatto da padre a Clov, strappandolo all’affetto del suo vero genitore e ingiungendo probabilmente a quest’ultimo di sacrificare la propria vita per la salvezza del figlio.
In quest’ambiente dove dominano la paura di ogni cosa viva e il conseguente desiderio di sterminarla, anche la speranza del cambiamento, rappresentata dal bambino avvistato fuori della casa, appare piuttosto inconsistente, almeno secondo Hamm: se, infatti, in un primo momento il protagonista ordina a Clov di ucciderlo, in seconda battuta pensa che se esiste davvero e sopravviverà, prima o poi giungerà lì. Il bambino. infatti, sta seduto per terra ad osservarsi l’ombelico, sentendosi evidentemente anche lui al centro dell’universo come Hamm; oppure sta guardando il suo sesso, simbolo del desiderio di perpetuare la specie e se stesso. Anche il bambino, perciò, secondo Beckett, quando crescerà arriverà nella casa e prenderà semplicemente il posto di Hamm come se le pulsioni autodistruttive del genere umano fossero inguaribili.
L’ultima chance, ovviamente fasulla, è rappresentata dalla religione, creata da Clov in modo piuttosto maldestro, e simboleggiata dal cane di pezza a tre zampe, che Hamm getta via, dopo che, al termine di una sua “ispirata” preghiera, Dio non risponde…
Alla fine Clov trova il coraggio di fare le valigie e andarsene, ma prima di raggiungere l’uscita resta bloccato, immobile di fronte ad Hamm. La sveglia non suona più. Il tempo è finito…



Mio padre, il mio assassino

4 02 2012

 

Ha strappato il figlio dalla braccia della nonna

e ha vagato senza meta lungo il Tevere,

poi mentre un poliziotto stava per fermarlo,

l’ha gettato nel fiume come un fagotto.

Mentre Roma era tutta bianca di neve

e il cielo era velato da fiocchi lenti infiniti

Le acque gelate hanno nascosto e sommerso

quella piccola vita di sedici mesi

Chissà che cosa ricorderà del nostro mondo

che l’ha ucciso prima ancora di conoscerlo

Forse solo le urla dei litigi dei suoi genitori

Forse l’ultimo abbraccio crudele di suo padre

chiuso nel silenzio della colpa

Il sorriso della mamma che non era lì ad aiutarlo…

Un altro sacrificio di un innocente

perché il cuore dell’uomo cambi

Ma gli uomini non cambiano non vogliono cambiare.

E il fiume scorre ancora.



ANCHE IL MERCATO ASPETTA GODOT – “L’Affarista”, l’impietosa satira di Honoré de Balzac sul mondo della speculazione borsistica, è ancora un’opera teatrale di sorprendente attualità

1 02 2012

“Ah! Conoscete la nostra epoca! Oggi, signora, tutti i sentimenti svaniscono e il denaro li sospinge. Non esistono più interessi perché non esiste più la famiglia, ma solo individui! Vedete! L’avvenire di ciascuno è in una cassa pubblica (…) Vendete gesso per zucchero: se riuscite a far fortuna senza suscitare lamentele, diventate deputato, pari di Francia o ministro.”

Se volete divertirvi andando a teatro, ridere di gusto, in modo intelligente, della crisi finanziaria dei nostri giorni e magari scoprire anche qualche bandolo dell’intricata matassa dei mercati, allora “L’affarista” è lo spettacolo giusto. L’opera, pubblicata da Honoré de Balzac durante la crisi economica del 1848, sembra più o meno scritta oggi, visto che le problematiche legate al funzionamento dell’economia di mercato – tra banche, Borse e consigli di amministrazione – somigliano in modo sorprendente alle notizie dei nostri telegiornali. Nello spettacolo presentato nei giorni scorsi al Teatro Sociale di Brescia, all’attualità del testo si aggiunge poi la brillante messa in scena del regista Antonio Calenda, nella quale si impone il protagonista Mercadet, interpretato con travolgente verve da Geppy Gleijeses.

In questa esilarante e illuminante cavalcata all’interno delle assurde e farsesche contraddizioni del nostro sistema economico, il protagonista è accompagnato da un gruppo di ottimi attori tra i quali ricordiamo soprattutto Marianella Bargilli che interpreta la figlia Julie e Paila Pavese la moglie dell'”affarista”, funambolo folle e incosciente della speculazione borsistica. L’opera propone, con accenti ironici e sarcastici, una lucida analisi della situazione in cui la borghesia si è venuta a trovare da quando allo sviluppo industriale si è aggiunto lo strapotere del capitale finanziario attraverso l’introduzione delle quotazioni di borsa. Con la giustificazione, infatti, di trovare finanziatori per le proprie imprese, si è dato il via all’emissione di azioni da quotare, in base, appunto, alla credibilità a breve e a lungo termine delle aziende, vale a dire in base all’odierno temutissimo rating di cui tanto sentiamo parlare in questi giorni. Peccato, però, che tutto sia fondato in gran parte su notizie che sconfinano nelle dicerie, su bilanci non si sa fino a che punto veritieri, su voci incontrollate che possono far alzare o abbassare il prezzo di un’azione all’improvviso e in modo inopinato. Balzac senza mezzi termini colpisce duro i fautori del mercato ad ogni costo e con ogni mezzo, gli speculatori, quelli che sfruttano le disgrazie altrui, quando addirittura non le creano; quelli che, come lo stesso Mercadet, inventano false notizie per abbassare il prezzo di un’azione e quindi ricomprarla prevedendo un rialzo nel momento in cui tali notizie saranno smentite. E che dire dei giochi al ribasso e a borsa chiusa dove le cose si decidono dietro le quinte all’insaputa di risparmiatori e piccoli investitori? Ma se Mercadet è un malato dell’affare, un trader da rischio estremo, d’altra parte i suoi creditori – trasformati da Calenda in caricature ispirate a Honoré Daumier – non sono da meno: come le banche di oggi, anche loro sono lì a speculare sulle disgrazie altrui, come corvacci che si addensino nel cielo del dichiarato fallimento oppure stiano a vedere se si possa in un modo o nell’altro trovare ancora l'”affare” miracoloso che risolva tutti i problemi. E così, se l’affare non c’è, si può sempre inventare. Come? Semplicemente emettendo azioni di una meravigliosa azienda fantasma: dal giornale che non si stampa alla miniera di carbone scoppiata, l’importante è “far credere che…” qualunque cosa sia, purché il mercato cada nella trappola anche solo per un giorno, il tempo di far salire il prezzo e vendere. Oppure ci si inventa un fantomatico socio venuto da Calcutta che ripianerà tutti i debiti…

Il mitico signor Godeau in realtà scappato con la cassa di Mercadet (ma sarà vero? magari è sempre stato un’invenzione!) che, si favoleggia, tornerà ricchissimo dalle Indie. Il suo nome vi ricorda qualcosa? E’ il personaggio al quale Beckett si è ispirato nel suo Aspettando Godot, per identificare qualcuno che non arriva mai e che l’uomo stesso si è inventato. Godeau, insomma è “il salvatore del mercato” atteso da tutti. E d’altra parte non si vende anche oggi non tanto quello che c’è, ma soprattutto quello che non c’è? Non ci si basa su veri o presunti soci (magari proprio indiani o cinesi), su cordate e Opa più o meno fantasma? Com’è piccolo il mondo! Stupisce l’acume di Balzac e la sua straordinaria lucidità quando enuncia la logica del mondo moderno che è soltanto una somma di egoismi ed è completamente governato dal denaro e dalle leggi dell’economia in modo assolutamente “bypartisan”, visto che, quando si tenta la carta della carriera politica, fare i progressisti pare sia molto chic e quindi perché non optare per una bella candidatura socialista? Così De la Brieve, il più sfacciato degli impostori che subito fa lega con Mercadet, tra i suoi sogni, ha proprio quello di diventare ministro… socialista ovviamente.
Molto meglio che lavorare, tanto che quando la signora Mercadet invita entrambi finalmente a rinunciare alle loro trappole da imbroglioni e ricominciare da capo con un lavoro onesto, tutti e due rispondono con orrore: “Un lavoro??!!” Alla fine la “geniale” soluzione di Mercadet mette d’accordo tutti, compresi gli scrupoli di coscienza delle due donne di famiglia, madre e figlia, che da buone borghesi, sperano di salvare l’onorabilità. Non sanno, però, che in una società del genere nessuno entrato in quel meccanismo potrà mai preservare l’onore né l’etica e men che meno la virtù, con buona pace dei fiduciosi riformatori del mercato. In realtà molto poco è stato fatto da allora ad oggi per modificare seriamente determinati meccanismi economici e probabilmente nulla si farà, al di là delle belle parole, data l’enorme importanza degli interessi in gioco. Sono passati quasi due secoli da quando Balzac scriveva ed è forse cambiato qualcosa di sostanziale? Anzi, al contrario, ciò che si vende e si compra a livello finanziario appare talvolta ancora più virtuale e pericoloso di una volta. Derivati e affini docent.

Rossana Cerretti