BALLO IN MASCHERA CON DELITTO

13 10 2011
Il dramma del potere e della giustizia in scena al Festival Verdi di Parma
 

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Il 9 ottobre al Festival Verdi di Parma è stato il giorno del Ballo in maschera (repliche il 13-23-27-30 ottobre), opera complessa anche per la sua tormentata genesi dovuta alle grandi difficoltà affrontate da Verdi a causa della censura che si scatenò contro l’argomento prescelto: un fatto storico realmente accaduto ovvero l’uccisione di Gustavo II di Svezia da parte del suo migliore amico per questioni di gelosia. La censura borbonica prima e pontificia poi, vi lesse, però, soltanto l’aborrito tema del “regicidio” e bocciò senza appello l’ambientazione e la scelta dei protagonisti. L’opera, quindi, dopo un lungo travaglio venne ambientata in America all’epoca del governo inglese, prima della guerra di Indipendenza e re Gustavo divenne Conte Riccardo, governatore di Boston. L’argomento di discussione che stava a cuore a Verdi resta, però, alla fine invariato: le tentazioni e le contraddizioni del potere assoluto, che spinge chi governa da solo o verso l’ingiustizia e la crudeltà o verso la morte sicura, vittima della violenza degli oppositori. Argomento sempre di attualità, se consideriamo che all’ultimo festival di Venezia è stato presentato un film come Le Idi di marzo. Ma Verdi non è mai così schematico nella scelta dei suoi soggetti, ama quello che egli stesso chiama “il disordine” tragico, perciò la colpa non ricade soltanto su chi governa, ma, come vedremo, anche sul popolo. Altro elemento interessante, tipico del compositore bussetano, e senz’altro ispirato alle teorie del Machiavelli, è la negazione degli affetti privati del Principe, per ragioni diverse, ma sempre legate al drammatico conflitto tra istanze individuali e ragioni della politica.

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Per quanto riguarda la messa in scena odierna, gli appassionati sono stati piuttosto delusi dall’allestimento vecchio di oltre vent’anni – opera, peraltro pregevole, di Pierluigi Samaritani – che effettivamente risulta per noi oggi troppo classico. Stupisce, tra l’altro, la mancanza di qualunque riferimento concettuale e registico all’ambiguità della maschera parallela a quella dei protagonisti. L’unico elemento sottolineato, e questo efficacemente, è stato il ruolo delle potenze infernali che anche qui, come poi sarà nel Macbeth, risultano fondamentali, sebbene in questo caso il tentativo di fuggire il proprio destino porti la protagonista femminile, Amelia, tra le braccia di chi voleva evitare ad ogni costo (un caso tipo leggenda di Samarcanda, insomma). L’evocazione dei demoni risveglia sempre qualcosa di maledetto e guai a chi si prende gioco delle potenze dell’Ade; la maga Ulrica, infatti, è una riedizione dell’Azucena del Trovatore, ma spinta alle estreme conseguenze, ritratta mentre evoca senza alcuna remora le potenze sataniche.

Dall’altra parte c’è solo un re  – diventato poi il conte Riccardo – che non vuole essere sanguinario, crede nella stima e nell’amore del proprio popolo e perciò si rifiuta di reagire alle congiure contro di lui. Ma non sa che la vita spesso è proprio un  ballo in maschera dove ciò che si vede non è ciò che sembra: talvolta il caso crea orribili travestimenti che travisano la realtà e distruggono stima e amicizia. Dopo Les Vêpres siciliennes di quattro anni prima (1855) Verdi affronta la figura di un altro governatore che viene colpito proprio nel momento del suo cedimento. Anzi, in questo caso è anche peggio perché Riccardo – Gustavo è un animo generoso che ama veramente il proprio paese, ma questo non basterà a salvarlo (ricordiamo, tra l’altro, anche il soggetto simile del Simon Boccanegra). Ancora una volta notiamo una certa sfiducia da parte di Verdi nei confronti del popolo che appare incosciente e defilato, più attento alle malie della maga Ulrica, che a conservare un governatore giusto e clemente. Hanno il sopravvento, invece, le trame dei cortigiani e la situazione del Rigoletto viene ribaltata: mentre l’arrogante e insulso Duca di Mantova trova mille alleati per le sue scelleratezze, per il generoso e sincero Riccardo non c’è scampo.
Neppure il sacrificio del suo amore e il senso di responsabilità che lo spinge a rinunciare alla donna amata, saranno sufficienti: così, come nel Devereux di Donizetti, l’amico più caro si trasformerà nel più implacabile dei nemici. Il paragone, tra l’altro, non è casuale, perché, effettivamente, il carattere di Riccardo somiglia molto agli idealisti, romantici eroi, leali e vinti, del compositore bergamasco.
Intanto nell’ombra le “maschere” agiscono e sono il motore dell’azione:  sono i lupi travestiti da agnelli, i congiurati,  quelli che Riccardo troppo ottimisticamente non ha voluto colpire . Proprio i suoi spietati e occulti avversari lo perderanno con le loro continue trame notturne, i pedinamenti e i tentativi di ucciderlo.

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La musica dell’opera si muove tra due poli nettamente diversi e apparentemente opposti, ma in realtà è questa l’anima del Ballo in maschera: tutto inizia per scherzo accompagnato da una musica giocosa, allegra e irridente… troppo allegra, come spesso capita  in Verdi, prefigurando con lo sberleffo le disgrazie peggiori. Il primo a mascherarsi per mettere alla prova la maga Ulrica è proprio Riccardo: così fin dall’inizio cominciano per gioco i travestimenti e gli inganni che dureranno fino alla fine, quando sarà nuovamente il Conte a dare il ballo in maschera. Ma nell’opera spesso repentinamente la musica giocosa si trasforma prima in ritmi cadenzati e ironici (come il famoso “E che baccano, che caso strano”) poi in momenti incalzanti carichi di tensione e di attonito stupore, per esaltare infine i toni foschi della tragedia. La presenza dell’elemento amoroso interrompe solo per poco tempo l’atmosfera dominante. Come già in alcuni momenti della Traviata, la maschera entra in scena sempre con spirito irridente, ma tetro (non dimentichiamo la sfilata di carnevale sotto le finestre di Violetta poco prima della sua morte).

Tornando alla messa in scena del Festival, anche il maestro Gianluigi Gelmetti non è piaciuto molto, perché considerato piuttosto superficiale e schematico nella direzione.
Il cast nell’insieme  ha offerto una prova abbastanza buona anche se con alcuni distinguo: Francesco Meli, che debuttava nel ruolo, ha creato un vero personaggio giovane e passionale, inguaribile ottimista e idealista, dai grandi slanci di generosità e sacrificio. Molto bene nelle arie e nei duetti, qualche perplessità nella barcarole “Dì tu se fedele” dove i repentini passaggi dall’acuto al registro grave (una vera “perfidia” verdiana per l’indubbia difficoltà)  sono apparsi carenti.  Interpretazione emozionante e incantata del duetto con Amelia nel secondo atto e in crescendo con l’ottimo “Forse le soglie attinse” e la successiva romanza “Ma s’è m’è forza perderti”del terzo, fino all’epilogo tutto cuore del “No, no… lasciatelo, lasciatelo” e dell’Addio… miei figli”.
Serena Gamberoni ha interpretato brillantemente (voce tecnicamente precisa, ma non molto potente) un Oscar giustamente al centro della trama come un folletto shakespeariano angelico e demoniaco insieme, sempre incosciente, che considera la realtà come un bellissimo e semplice gioco senza rendersi conto veramente delle conseguenze. Senza Oscar l’azione non andrebbe avanti e anche l’assassinio finale di Riccardo ha luogo a causa della sua incapacità di tenere la bocca chiusa sul travestimento del Conte.
Vladimir Stoyanov è stato bravo nell’interpretazione di Renato, anche se talvolta è apparso in qualche difficoltà nelle note più alte. Anche l’Ulrica di Elisabetta Fiorillo  ha presentato una voce piena e “scura” nelle note basse, appropriata al personaggio, ma ha incontrato non poche difficoltà negli acuti. Molto attesa Kristin Lewis anche lei al debutto nel ruolo di Amelia, ma questo non è  sembrato particolarmente congeniale alle sue caratteristiche. Mentre quest’estate è stata un’ottima Aida all’Arena di Verona, in un’edizione giustamente applauditissima, nel ruolo della protagonista del Ballo in Maschera non è sembrata a suo agio: i passaggi di registro sono apparsi aspri e non graduali, gli acuti accentati decisamente difficoltosi, faticoso il fraseggio, nell’insieme, insomma, non bene, anche se  i mezzi vocali di per sé sarebbero notevoli. Tra le voci degli altri personaggi, da tenere d’occhio soprattutto Filippo Polinellinel ruolo di Silvano (basso) che probabilmente in futuro farà ancora parlare di sé.  


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