DUE GIORNI PER PAOLO: QUANDO LA MUSICA E’ TESTIMONIANZA

20 10 2009
 

Il 9 e 10 ottobre a Villa Potenza (MC), il ricordo del batterista dei Gang, Paolo Mozzicafreddo, ha riunito artisti da tutta Italia, accomunati dalla passione per la musica e dall'impegno civile  


 

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Il gran finale con (da sinistra) Adriano Taborro Andrea Sigona, Marino Severini, Bettina Ferretti, Taka, Marco Sonaglia i Ned Ludd
 

«Due giorni per Paolo» ovvero come una perdita prematura e durissima possa diventare, per il terzo anno consecutivo, un momento di aggregazione potente, una realtà di cultura, arte, coscienza politica, riflessione. Si dice spesso che nel dolore si riconoscono gli uomini e allora questo è stato per due giorni un luogo di uomini, sotto il grande capannone della Fiera di Villa Potenza (sobborgo di Macerata) a dialogare e fare musica, a ricordare un giovane morto a 32 anni tre anni fa. Uno che, divorato dalla malattia non si è arreso e ha registrato l'ultimo disco dividendosi tra il letto e la batteria. Paolo Mozzicafreddo detto «Zico» per la sua attività di calciatore, era il batterista del più famoso gruppo marchigiano, i Gang, noti per la loro musica ispirata ai Clash e vera anima del cosiddetto Combat-rock nostrano, che unisce l'energia punk alle sonorità popolari e a testi politicamente impegnati di denuncia sociale.

 


Ritrovarsi insieme per una causa e una memoria ha rappresentato qualcosa, e tutti i partecipanti hanno riversato nella loro musica la passione tenace per la vita e la giustizia, così come i poeti si sono alternati sul palco per raccontare le nostre storie di oggi nel nome di chi non c'è più.

Un clima di unione basato sull'amore per la musica, ma anche per una causa comune: ricordare un amico con gesti concreti, con le parole della verità, manifestando il proprio desiderio di lottare, la rabbia e la speranza.

 

Sul palco si sono alternati musicisti di diverse estrazioni: dal punk rock dei milanesi Guacamaya, con cover dei Clash e Rancid, agli Scritti Corsari con il loro intenso ricordo di Pasolini («Alla bandiera rossa») e delle stesso «Zico» nella toccante «Il principe pescatore», entrambe sapientemente interpretate della vocalist Bettina Ferretti.
Il folto gruppo dei cantanti di musica d'autore è stato introdotto dalla bella voce di Marco Sonaglia, che, accompagnato da Adriano Taborro alla chitarra, Francesco Caporaletti al basso e Michele Lelli alla batteria, ha proposto uno dei momenti più intensi della giornata – anche per la l'appassionata e brillante esecuzione vocale – con una scaletta di cover, pezzi scelti per la loro attinenza all'odierna situazione italiana, come «Viva l'Italia» e «Le storie di ieri» di Francesco De Gregori; quest'ultima cantata in un emozionante duetto con Marino Severini il quale ha suonato, poi, anche nelle ultime due canzoni. Perché – ha confidato il leader dei Gang – non voleva perdersi un grande Dylan in italiano. 

  Se la scelta di questi brani ha reso evidenti i riferimenti all'attualità e al pericolo di una deriva antidemocratica, si è passati poi alla condanna di tutte le repressioni con «Varsavia» di Pierangelo Bertoli fino a giungere ad un'intensa interpretazione di «I shall be released» di Bob Dylan in versione italiana («Come il giorno») e un tributo finale a Fabrizio de André e Massimo Bubola con il «Fiume Sand Creek». Subito dopo, un appassionato omaggio alla figura storica dell'anarchico marchigiano Giuseppe Giambartolomei, scomparso quattro anni fa all'età di 56 anni, è stato proposto da Taka insieme a Marino Severini e Adriano Taborro con la canzone «Peppe l'anarchico», scritta dallo stesso Taborro.

 

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Marino Severini e Marco Sonaglia
 

 Tra gli altri cantautori presenti, ricordiamo, poi, Andrea Parodi che ha proposto cover e canzoni di sua composizione, tra le quali ci ha colpito particolarmente «Il killer del Tennessee». Il suo contributo si è distinto, in generale, per la forte vena interpretativa e per gli interventi al mandolino di Adriano Taborro, che ha sostenuto egregiamente la sua esibizione. Anche Andrea Sigona di Genova ha cantato le sue canzoni tratte dal nuovo disco «Santi e delinquenti», con testi fortemente impegnati, legati alla realtà sociale di oggi, aprendo un intenso spazio meditativo, con la sua voce dai toni profondi che ben accompagna le sue drammatiche storie di denuncia.
Tra i gruppi più interessanti, ricordiamo il contributo dei bolognesi Fev con il loro rock dalle sonorità popolari, sostenuto dall'emozionante voce di Luca Taddia, e il bell'inserimento della fisarmonica, spesso con testi «militanti» come «I sogni nel cassetto», dedicata ad Enrico Berlinguer.

Dobbiamo notare che in questo contesto i musicisti dei due più noti gruppi marchigiani, Macina e Gang insieme, si sono dati un gran daffare per supportare i diversi artisti e cantati che si sono alternati sul palco. Molto attivi Adriano Taborro con i suoi inseparabili strumenti a corda, dal mandolino alle chitarre e Marino Severini anima dei Gang, che con la sua energia ha letteralmente «dato la scossa» alle diverse esibizioni, intervenendo, ogni volta, in uno o più pezzi, in una sorta di ideale filo rosso che ha unito tutti i protagonisti. Grande disponibilità hanno dimostrato anche l'infaticabile Francesco Caporaletti dei Gang al basso e Michele Lelli, batterista della Macina. Le due note band marchigiane in questi anni, infatti, oltre ad essersi esibite insieme in molti spettacoli, hanno saputo enucleare intorno alla loro musica una serie di gruppi e cantanti di alto livello, creando un clima di collaborazione appassionata.
Questa è senz'altro una delle note più interessanti e positive della «Due giorni per Paolo», come dimostra il doppio cd dal titolo «Dal profondo», proposto in quest'occasione a scopo benefico per costruire un pozzo per l'acqua in Kenya nel distretto di Makueni. 
 

 Alla realizzazione dell'opera, registrata in formato mp3, hanno partecipato ben 171 artisti (tra i quali, per esempio, Claudio Lolli, i Modena City Ramblers, gli Skiantos, i Ned Ludd) tutti insieme in una «unione di mani» per creare questo unico gesto che nel ricordo di Paolo Mozzicafreddo regalerà un po' di vita a qualcuno che non ha nulla.
Oltre agli interventi dei poeti Marco Scarponi ed Ugo Capezzali con alcune poesie in ricordo di Paolo, uno dei momenti forti della serata è stato il reading di Daniele Bianchessi che ha interpretato il brano «Via dei Georgofili», ricordando il gravissimo attentato di stampo mafioso, nel quale morirono cinque persone, compiuto nel 1993 come atto di spregio contro la sede fiorentina di una delle più antiche istituzioni culturali italiane. Successivamente ha proposto la lettura, fortemente segnata dal pathos della memoria e dalla profonda dignità personale dell'autore, del testamento spirituale del giornalista Enzo Baldoni, rapito e ucciso in Afghanistan nel 2004 in circostanze ancora oggi non chiarite. Un testamento per chi può levarsi in piedi anche di fronte alla morte, perché ci può essere una ragione per cui vale la pena di morire, soprattutto quando si hanno molti motivi per vivere e combattere.
 

 L'ultima parte della serata è andata poi in crescendo con la grande musica dei Ned Ludd e le loro ricercate sonorità fatte di strumenti popolari sapientemente amalgamati all'energia rock dei Malavida. I due gruppi si sono esibiti insieme dando vita ad una travolgente corrente di musica che ha fortemente coinvolto il pubblico. Eccezionali gli strumentisti dei Ned Ludd: Gianluca Spirito alla voce e strumenti a corda, Gianni Di Folco alla fisarmonica, Claudio Merico al violino ed Alessandro Mazziotti alla zampogna, ciaramella e strumenti a fiato. Oltre ai pezzi propri, hanno eseguito anche canzoni dei Gang con interessanti ed elaborati arrangiamenti, come una bellissima e originale versione di «Fino alla fine» dedicata sempre a Paolo «Zico».
Gran finale poi, con la Macina, e la voce graffiante e ricca di emozionanti sfumature di Gastone Petrucci, il quale ha interpretato le sue struggenti melodie popolari, quali «La ballata del Bellente», «Bella sei nata femmina», il brano inedito «Tutto è corpo d'amore» tratto dalla raccolta poetica del marchigiano Franco Scataglini e, infine, «Sotto la Croce Maria», brano da sacra rappresentazione, di grandissima intensità emotiva.

 

 

 E finalmente sono giunti sul palco anche i padroni di casa, gli attesi Gang, e che hanno trascinato tutti, spettatori e partecipanti in un unico grande coro collettivo dove era impossibile stare fermi sotto o sopra il palco. Le canzoni eseguite per l'occasione, sono tra le più famose come «Bandito senza tempo» «La corte dei miracoli», la bellissima «Non è di maggio», la toccante «La pianura dei 7 fratelli», dedicata alla memoria dei fratelli Cervi, «Paz» per ricordare il noto pittore e fumettista Andrea Pazienza, «Sesto San Giovanni» sulle condizioni di lavoro in fabbrica. Per gli ultimi tre pezzi la partecipazione è stata collettiva e sono saliti sul palco tutti i musicisti dell'ultima serata per cantare e accompagnare con i loro strumenti le gloriose ed emozionanti «Kowalsky», «Comandante» ed «I fought the law».
Si torna a casa con il cuore più grande e la sensazione che ci sia ancora un'Italia nella quale riconoscersi, che pensa, spera, combatte e ama.

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



BAÀRIA SÌ, BAÀRIA NO Luci ed ombre dell’ultima epopea popolare di Giuseppe Tornatore

14 10 2009
Un grande affresco di popolo, la celebrazione di una Sicilia che non si arrende, dell’irriducibile carattere di certi siciliani che non mollano e non dimenticano, ma corrono per sempre, per tutta la vita lì nel mezzo di quella lunga strada che divide in due il paese. Il messaggio di Tornatore alla sua gente è una sorta di ritorno ad una sicilianità condivisa per questo film corale anche negli attori prescelti: un’esperienza collettiva di recupero delle origini per concorrere tutti alla creazione di un’epopea di persone comuni attraverso i grandi fatti della storia.
Non per niente il regista all’inizio del film cita Renato Guttuso che aveva affrescato, non ancora diciottenne, nell’abside della chiesetta dell’Aspra sulla marina di Bagheria una sacra rappresentazione con i volti autentici dei suoi popolani. Proprio per questo, poi, il cardinale l’aveva fatta cancellare con una mano di bianco, visto che non gradiva «distrazioni» durante le celebrazioni liturgiche. Troppi attori «veri», persone che si riconoscevano, troppe facce indurite dal sole e piedi sporchi..
Il film di Tornatore segue la stessa linea, e anche dove si mostra imperfetto, per lo meno tenta di portare a termine un ambizioso e complesso progetto: la rivisitazione delle personalità di un intero paese (per esempio si riconosce anche il poeta salumiere Ignazio Buttitta, che cacciò fuori a pedate i fascisti dal suo negozio), ma con in più il tocco visionario tipico del suo cinema, quello che a qualcuno non è piaciuto, perché lo ha considerato «patinato». E’ vero, Tornatore è maniacale nella pianificazione delle sue opere e, a quanto pare, di questa in particolare. Almeno a detta degli attori che lo hanno affiancato nel corso delle riprese, nulla è stato lasciato al caso. I mille episodi si incastrano perfettamente con la precisione di un orologio svizzero e forse talvolta a scapito della spontaneità.
Qualcuno ha notato, ed è vero, un Tornatore «barocco» in questo film: l’amore per la sua terra sembra tradursi, infatti, nel linguaggio figurativo usato nel ‘600 per parlare dei semplici; non quello di pura derivazione caravaggesca, però, che da solo non appartiene alla Sicilia, ma piuttosto lo stile «spagnolo» dagli aspetti forti e patetici alla Murillo o de Ribera. Piaccia o non piaccia questa sembra la sua cultura visiva, quella che profondamente appartiene alla sua terra di origine e che ha respirato con la sua eccezionale ricettività fin da bambino. Certo, proprio a causa dei suoi maestri Tornatore talvolta rischia di scadere nel «pitocchismo», ma più spesso si avvale di questo linguaggio per valorizzare i suoi popolani senza idealizzarli troppo.
Del resto lo stesso Guttuso non è stato accusato a volte di essere troppo retorico e patetico nella sua visione degli umili?
E d’altra parte, però, come ignorare i pregi innegabili? L’epica anti-epica dei semplici, la bonarietà dai tratti quasi manzoniani (sfoderata per raccontare difetti e problemi tutti siciliani) che spesso si trasforma repentinamente in pungente ironia. I drammi della Sicilia e le sue incapacità ci sono tutti: un luogo dove verrebbe voglia di uccidersi perché non succede nulla, dove tutto è così statico che quando si torna c’è chi pensa che si stia partendo. Eppure il protagonista persevera fino all’ultimo nel tentativo di cambiare le cose, con estremo coraggio. Un coraggio pagato a caro prezzo, visto che è stato costretto a lavorare a lungo in Francia, perché ai «piantagrane» comunisti – si intuisce tra le righe – nessuno voleva dare lavoro. Così come si capisce che comunisti e mafia erano in rotta di collisione e che la gente lo sapeva bene, sia in uno schieramento sia nell’altro, tra chi era connivente e chi no.
Certo, Tornatore, raccontando qui principalmente la storia di suo padre, non poteva dipingerlo retoricamente come un cavaliere senza macchia e senza paura e le sue sofferenze vengono spesso rese con sfumata riservatezza o con la leggerezza del sorriso. Ma poi anche un semplice simbolo popolare come quello delle «uova rotte» dissimula grandi dolori che vengono accettati senza piagnistei, con il coraggio di chi sa che nella vita spesso si deve resistere, a volte solo con la forza della disperazione. Si devono anche sopportare le mancanze, le privazioni, le perdite.
Nel film c’è poi il mistero stesso di questa terra antichissima, dove i tempi si incrociano e ritornano come le presenze legate a strani eventi magici e a impossibili reincarnazioni. Profezie e prodigi che quando si avverano schiudono le porte alla rivelazione del destino, ma quasi mai si tratta del tesoro che si credeva di trovare. La terra di Sicilia parla, con il suo linguaggio ancestrale, le sue guglie che sembrano piccole dolomiti e che invece vegliano su greggi di pecore e uliveti. E le sue montagne ricordano ognuna una storia di mafia e di martiri che si sono opposti, come se anche la geografia fosse segnata da questa gente «con un brutto carattere», che ha avuto il coraggio di dire dei no molto difficili, pagati altrettanto cari. Ci sono tutti i più importanti attori italiani di origine siciliana o per lo meno del Sud a comporre questo enorme mosaico di storie, dove anche tra gli opposti schieramenti ci sono solo pochi passi di distanza eppure si innalzano muri. Sono gli spettri maligni di villa Palagonia, i mostri che attraversavano il paese e che continuano ad esistere lungo la via principale anche se adesso soltanto gli occhi innocenti dei bambini possono vederli.
Baària è soprattutto il grande ritratto di un popolo ironico e disincantato che non scade mai nell’aulico e nel retorico, ma mostra i suoi limiti con sincera chiarezza e per questo risulta più vero. Un popolo che sa prendere in giro il potente, ma non sa ribellarsi in massa, e che troppo spesso, in queste sue rivolte individuali e divise finisce per cedere, senza reclamare giustizia, ma solo favori dove si dovrebbero rivendicare diritti. Un disincanto, un individualismo però, che nascondono l’ostinazione, la roccia di quelle montagne. Un sorriso che convive sempre con un sottile dolore, con un rovello di vite incompiute e perdute., con il rancore che non si placa, la felicità che dura poco ed è sempre segnata da nuove sofferenze. Intanto il tempo si avvita su se stesso, non come se nulla fosse cambiato, ma come se spesso i protagonisti ne ricordassero altri del passato o come se i nostri antenati non ci abbandonassero davvero mai. La corsa finale è forse un augurio per un paese, una regione affinché non si arrenda. Qualcuno ha notato che la conclusione può apparire artificiosa, ma, in realtà, il film non deve chiudersi perché continua nella Bagheria di oggi e si replica evolvendosi. Deve restare piuttosto, spingendosi fino al presente, quel caleidoscopio di immagini che ci ha accompagnato in due ore e mezzo di delicata poesia e di riflessione.
Il film si chiude con Peppuccio Tornatore stesso, anche lui con un «brutto carattere» fin da bambino, che orgogliosamente rifiuta ciò che gli offrono come un favore e una concessione quando gli sarebbe spettato per giustizia. Peppuccio per questo è odiato dai compagni, ma lui solo potrà vedere il prodigio di quella mosca che ancora esce viva dalla sua trottola, presagio della sua vita futura passata a cercare di raccontare la strana rivelazione dell’immaginazione e dell’arte.


UNA SECONDA GIOVINEZZA PER WOODY ALLEN -Le contraddizioni e le ridicole follie dell’America nel suo nuovo film

8 10 2009
basta-che-funzioni
Un ritmo di commedia velocissimo e battute esilaranti proprio «alla Woody Allen», come non se ne sentivano da tempo, accompagnano brillantemente il protagonista di «Basta che funzioni», il geniale misantropo Boris Yellnikoff, interpretato da un bravo Larry David. Il riferimento alla freschezza dello stile del regista newyorkese in anni addietro non è peregrino, perché, in effetti, Allen rispolvera per l’occasione una sceneggiatura ideata negli anni ’70, ovviamente riveduta e corretta. Ciò non toglie, comunque, che il risultato sia divertente e intelligente, a cominciare dal personaggio ben delineato di Yellnikoff: un nichilista vagamente leopardiano, che dall’alto del suo genio disprezza il genere umano, mettendo in dubbio la bontà stessa della sua natura e considerando ogni realtà della vita semplicemente nulla. La sua «visione d’insieme», come lui stesso la definisce, gli consente, in effetti, di osservare le insanabili contraddizioni della società americana, le sciocche manie, le fissazioni e i buonismi privi di qualunque fondamento, le irrazionalità e i miti che si fondano sulla sabbia di valori del tutto fasulli. Tra le tante, dominano alcune battute davvero corrosive sull’America «capace di mettere un nero alla Casa bianca quando a NewYork i neri non possono neanche salire su un taxiYellnikoff ha la pretesa di insegnare che cosa sia la vita. In realtà, dall’alto della loro divina incoscienza, saranno proprio la ragazza e sua madre ad impartire una sonora lezione al vecchio «genio», mostrando che tutta la sua conoscenza e il suo spirito critico per vivere non servono poi a un gran che.» o l’altra sfoderata proprio davanti alla statua della Libertà che sottolinea come gli States siano stati in realtà «la più grande colonia di detenzione per immigrati». Allo stesso modo, il protagonista è capace di svelare i comportamenti assurdi e inutili a livello individuale e nel rapporto di coppia. Il problema, però, è che, secondo Allen, queste possono anche essere verità, non ci sono dubbi, ma è altrettanto vero che esse non servono affatto per vivere (ovvero per integrarsi in qualche modo), così come non servono i principi, che ingabbiano in una realtà che ben poco ha a che vedere con le vere esigenze dell’io e con il suo imprevedibile divenire. A far scoprire l’inutilità del sapere al vecchio misantropo, fisico quantistico quasi premio Nobel ed oggi cinico e ipercritico insegnante privato di scacchi, interviene una novità inaspettata: una ex-reginetta di bellezza del Mississipi, oca quanto bella, che è scappata di casa e alla quale
Perché, alla fine, la propria identità individuale qual è? Come già i vari Pirandello, Svevo o Beckett avevano avuto modo di enunciare ampiamente, noi non siamo nulla di preciso: anche quello che crediamo di essere tende a ribaltarsi in fretta, sottoposto al tempo come tutto il resto. In definitiva, è vero che ci distruggiamo ma è anche evidente che non sappiamo neppure quello che diventiamo nel frattempo.
Come un moderno Laudisi di pirandelliana memoria, il protagonista è l’unico consapevole che c’è una recita da tenere e qualcuno guarderà, ma non solo di là dallo schermo, non solo per il pubblico pagante: in generale c’è una recita da fare prima di finire tutti comunque «in una scatola». Il regista padroneggia da maestro questo meccanismo della «rottura della quarta parete» (e quindi della finzione scenica) con alcuni eccezionali monologhi rivolti direttamente al pubblico, tra cui quello iniziale che da solo vale il prezzo del biglietto.
Se ciò che vediamo del genere umano non induce all’ottimismo, il protagonista estendendo le proprie considerazioni, giunge alla conclusione che ciò che governa il mondo è del tutto irrazionale. Alla fine, sono i nostri desideri che ci spingono in direzioni assai diverse rispetto al nostro cervello e dobbiamo con un certo sconforto ammettere che le care vecchie convenzioni per le quali ci si mette insieme e ci si «innamora» (detto tra virgolette perché l’amore non esiste, piuttosto, una relazione «basta che funzioni») resistono a tutti gli attacchi della ragione e, alla fine, le pulsioni sono sempre uguali e i modi di reagire sempre quelli dell’uomo dell’età della pietra o giù di lì. Ciò che ci fa prendere le decisioni fondamentali nella vita non ha nulla di lontanamente razionale. E’ drammatico, ma è così e, per quel che è peggio, anche l’illusione di decidere il proprio destino è assolutamente fuori luogo: le cose accadono in un certo modo tra un milione di probabilità e perché sia così, è impossibile da definire… A questo punto che fare? La risposta di Allen è fin troppo semplice, quanto disillusa: prendere quello che viene, senza molte domande, salutando il pubblico pagante e festeggiando tutti insieme un nuovo anno che in fondo ci rende solo un po’ più vecchi. L’unica saggezza è quella del non pensare e del fare finché si è in tempo.