LE CILIEGIE DI DESDEMONA – L’originale Otello di Claudio Autelli racconta Shakespeare tra caricatura e tragedia

27 02 2010
litta_otello_recensione_525_01È un’opera innovativa, frutto di una brillante sperimentazione teatrale, l’Otello «moderno» del teatro Litta di Milano, andato in scena nei giorni scorsi al Sociale di Brescia. Il regista Claudio Autelli, nell’ambito dell’innovativo progetto triennale «Work in Progress», ha rivisitato questo classico del teatro shakespeariano, snellendone il testo e basandosi su un efficace simbolismo, anche se non sempre facilmente decodificabile.
Reinterpretare in modo convincente un’opera teatrale tra le più famose non è mai facile: basti pensare che solo qualche settimana fa c’era stata, sempre al Sociale, la prova, quanto meno discutibile, delle Belle Bandiere, che avevano portato in scena un’improbabile e goffa Locandiera goldoniana stranamente carnevalesca e tragica, riducendo i personaggi ad anonime macchiette ed ignorando totalmente le vere intenzioni dell’autore riguardo al personaggio di Mirandolina, in realtà sagace modello di una borghesia fattiva e popolare.
Nel caso dell’Otello, fortunatamente, è andata decisamente meglio, proprio perché il regista ha cercato di valorizzare, attraverso la presenza di oggetti simbolici e la reiterazione di gesti topici, le vere intenzioni dell’autore con un raffinato lavoro sul sottotesto. La compagnia di Autelli è riuscita a presentare uno spettacolo per molti versi nuovo, un Otello inedito e coraggioso, anche se ciò non significa che sia pienamente riuscito in ogni dettaglio. L’atmosfera circense o da avanspettacolo che si respira fin dall’inizio rischia di diventare a tratti piuttosto monocorde e talvolta il testo originale appare eccessivamente sacrificato in favore della gag e della trovata a tutti i costi, ma questo è il prezzo che si deve pagare al nuovo e alla sperimentazione, perciò onore al merito.
Geniale l’ambientazione: l’intera vicenda si svolge attorno a una tavola imbandita, che funge ora da palco per gli stralunati discorsi dei protagonisti, ora da nascondiglio e rifugio della menzogna e dell’inganno, ora da tragico letto nuziale e rappresenta un folle e infinito banchetto, pazzo e incontrollabile come l’amore di Otello e Desdemona. Fin dall’inizio, però, apparentemente idilliaco, in questa interminabile atmosfera festaiola, si percepisce qualcosa di strano, dissonante, che prelude occultamente alla tragedia. La stessa recitazione non può che distaccarsi nettamente dall’ordinario e infatti Autelli abolisce la ricerca della naturalezza, tanto che i due protagonisti per tessere le lodi l’uno dell’altra utilizzano un microfono, come a sottolineare la falsità del classico discorso di circostanza, perché al banchetto di matrimonio gli sposi «devono» essere sempre felici e innamorati.

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I personaggi, simili a caricature, lasciano intravedere nei loro dialoghi patinati, negli scambi di battute all’apparenza innocui un’ambigua ipocrisia di fondo, un subdolo sentimento di invidia e disprezzo verso Otello, il moro, il «diverso». D’altronde è lo stesso protagonista a non accettarsi completamente, non riuscendo a capacitarsi della sua fortuna e dell’amore di una donna tanto bella quanto differente da lui. Così, quando ormai pare che la sua vita abbia imboccato definitivamente il binario della buona sorte, nasce in Otello il germe distruttivo della gelosia, della diffidenza verso coloro che gli sono realmente amici. Bastano poche parole dell’infido Iago, una sciocca distrazione di Desdemona (la perdita del celeberrimo fazzoletto) e il sospetto ingiustificato si trasforma in condanna perentoria, la gelosia in furia devastatrice, il sognante innamorato diventa uno spietato omicida. Una sola goccia di male può colorare come inchiostro nero l’anima di un innocente, il disprezzo (seppur celato) può scatenare in un uomo la follia più cieca e crudele. E la commedia della vita può tramutarsi improvvisamente in tragedia, lo sappiamo bene anche noi oggi, basta sfogliare le pagine di cronaca nera per scoprire quotidiani drammi familiari di questo genere.
Al regista bastano una gigantesca tovaglia, alcuni palloncini colorati e una chitarra elettrica, che scandisce con i suoi accordi stonati il continuo crescendo della tensione drammatica per sviscerare le tematiche shakespeariane attraverso le sue invenzioni sceniche «anticlassiche». Autelli punta su un allestimento per certi aspetti minimalista, utilizzando simbolismi fanciulleschi che si colorano di significati psicologici: i palloncini colorati sono «la favola bella» a cui Desdemona crede ciecamente, nonostante l’opposizione dei suoi parenti. Il matrimonio che si sta celebrando, infatti, è «riparatore» visto che la giovane per poter sposare il moro è fuggita con lui. I genitori di lei, che nell’opera non compaiono, sono, in realtà, coloro che meglio esprimono l’atteggiamento della nobiltà veneziana intorno ad Otello: sia pure un grande generale, compia eccezionali imprese e venga ricolmato di favori dalla Serenissima, ma stia al suo posto di straniero. e «moro».
Invece Otello insegue il suo sogno impossibile di integrazione e di rivincita attraverso Desdemona: un grande palloncino bianco rappresenta la luna ovvero la sua illusione sulla moglie eterna «vergine» e quindi, subito dopo, puttana, divina vittima sacrificale della sua idealità senza corpo. «Il suo nome, ch'era fresco come il viso di Diana, adesso è tutto rughe e nero come il mio» griderà dopo aver appreso del fazzoletto. Ricorre poi il simbolo delle ciliegie che nella loro doppiezza rappresentano la coppia ideale ben presto trasformata nella tentazione e nel tradimento, ovvero nella macchia che Iago ha inflitto al candore di quelle nozze. Il simbolo funesto è sbandierato su un vessillo di guerra da questo Iago un po’ Pinocchio un po’ Mefistofele che alla fine resta ferito, ma non ucciso sulla scena perché rappresenta il male stesso insito nell’uomo. Egli, infatti, dichiara che non dirà più nulla per giustificare quello che ha fatto, perché non c’è nulla da giustificare, egli è il demone stesso dell’anima di Otello. Allora quel fazzoletto si dilata indefinitamente fino a diventare enorme, tramutandosi nella tovaglia stessa delle nozze, grande abbastanza perché Otello ne rimanga totalmente avvolto come nel suo errore mortale e Desdemona si vesta di esso nella scena finale della sua morte.

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Tutti gli auguri e i brindisi dei convitati, quelle benedizioni rivolte continuamente al cielo, con grandi aspersioni di vino, sembrano ora quasi un tentativo inutile di purificazione per esorcizzare quest’uomo «diverso», grande guerriero quanto si vuole, ma inconciliabile con la «civiltà». Autelli punta sull’accelerazione dei ritmi narrativi, sull’accentuazione quasi caricaturale dei gesti e su una vena di graffiante ironia. L’opera, in un solo atto, risulta un tutt’uno ben amalgamato in una sorta di «sintesi concettuale»: dall’euforia iniziale si passa gradualmente al sospetto e infine alla folle e sconsiderata collera, fino al momento di massima tensione: l’uccisione di Desdemona, strangolata con il filo stesso di quel grappolo di palloncini che rappresentava la festa continua dell’amore, e fluttuante in scena quasi a mezz’aria fino alla chiusura del sipario. Un’immagine irreale e fiabesca come un quadro di Chagall diventa il culmine dell’ironia tragica di cui l’intero spettacolo è permeato: insostenibile leggerezza crudele dell’essere…

 
Rossana Cerretti e Lorenzo Sarnataro

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