BAÀRIA SÌ, BAÀRIA NO Luci ed ombre dell’ultima epopea popolare di Giuseppe Tornatore

14 10 2009
Un grande affresco di popolo, la celebrazione di una Sicilia che non si arrende, dell’irriducibile carattere di certi siciliani che non mollano e non dimenticano, ma corrono per sempre, per tutta la vita lì nel mezzo di quella lunga strada che divide in due il paese. Il messaggio di Tornatore alla sua gente è una sorta di ritorno ad una sicilianità condivisa per questo film corale anche negli attori prescelti: un’esperienza collettiva di recupero delle origini per concorrere tutti alla creazione di un’epopea di persone comuni attraverso i grandi fatti della storia.
Non per niente il regista all’inizio del film cita Renato Guttuso che aveva affrescato, non ancora diciottenne, nell’abside della chiesetta dell’Aspra sulla marina di Bagheria una sacra rappresentazione con i volti autentici dei suoi popolani. Proprio per questo, poi, il cardinale l’aveva fatta cancellare con una mano di bianco, visto che non gradiva «distrazioni» durante le celebrazioni liturgiche. Troppi attori «veri», persone che si riconoscevano, troppe facce indurite dal sole e piedi sporchi..
Il film di Tornatore segue la stessa linea, e anche dove si mostra imperfetto, per lo meno tenta di portare a termine un ambizioso e complesso progetto: la rivisitazione delle personalità di un intero paese (per esempio si riconosce anche il poeta salumiere Ignazio Buttitta, che cacciò fuori a pedate i fascisti dal suo negozio), ma con in più il tocco visionario tipico del suo cinema, quello che a qualcuno non è piaciuto, perché lo ha considerato «patinato». E’ vero, Tornatore è maniacale nella pianificazione delle sue opere e, a quanto pare, di questa in particolare. Almeno a detta degli attori che lo hanno affiancato nel corso delle riprese, nulla è stato lasciato al caso. I mille episodi si incastrano perfettamente con la precisione di un orologio svizzero e forse talvolta a scapito della spontaneità.
Qualcuno ha notato, ed è vero, un Tornatore «barocco» in questo film: l’amore per la sua terra sembra tradursi, infatti, nel linguaggio figurativo usato nel ‘600 per parlare dei semplici; non quello di pura derivazione caravaggesca, però, che da solo non appartiene alla Sicilia, ma piuttosto lo stile «spagnolo» dagli aspetti forti e patetici alla Murillo o de Ribera. Piaccia o non piaccia questa sembra la sua cultura visiva, quella che profondamente appartiene alla sua terra di origine e che ha respirato con la sua eccezionale ricettività fin da bambino. Certo, proprio a causa dei suoi maestri Tornatore talvolta rischia di scadere nel «pitocchismo», ma più spesso si avvale di questo linguaggio per valorizzare i suoi popolani senza idealizzarli troppo.
Del resto lo stesso Guttuso non è stato accusato a volte di essere troppo retorico e patetico nella sua visione degli umili?
E d’altra parte, però, come ignorare i pregi innegabili? L’epica anti-epica dei semplici, la bonarietà dai tratti quasi manzoniani (sfoderata per raccontare difetti e problemi tutti siciliani) che spesso si trasforma repentinamente in pungente ironia. I drammi della Sicilia e le sue incapacità ci sono tutti: un luogo dove verrebbe voglia di uccidersi perché non succede nulla, dove tutto è così statico che quando si torna c’è chi pensa che si stia partendo. Eppure il protagonista persevera fino all’ultimo nel tentativo di cambiare le cose, con estremo coraggio. Un coraggio pagato a caro prezzo, visto che è stato costretto a lavorare a lungo in Francia, perché ai «piantagrane» comunisti – si intuisce tra le righe – nessuno voleva dare lavoro. Così come si capisce che comunisti e mafia erano in rotta di collisione e che la gente lo sapeva bene, sia in uno schieramento sia nell’altro, tra chi era connivente e chi no.
Certo, Tornatore, raccontando qui principalmente la storia di suo padre, non poteva dipingerlo retoricamente come un cavaliere senza macchia e senza paura e le sue sofferenze vengono spesso rese con sfumata riservatezza o con la leggerezza del sorriso. Ma poi anche un semplice simbolo popolare come quello delle «uova rotte» dissimula grandi dolori che vengono accettati senza piagnistei, con il coraggio di chi sa che nella vita spesso si deve resistere, a volte solo con la forza della disperazione. Si devono anche sopportare le mancanze, le privazioni, le perdite.
Nel film c’è poi il mistero stesso di questa terra antichissima, dove i tempi si incrociano e ritornano come le presenze legate a strani eventi magici e a impossibili reincarnazioni. Profezie e prodigi che quando si avverano schiudono le porte alla rivelazione del destino, ma quasi mai si tratta del tesoro che si credeva di trovare. La terra di Sicilia parla, con il suo linguaggio ancestrale, le sue guglie che sembrano piccole dolomiti e che invece vegliano su greggi di pecore e uliveti. E le sue montagne ricordano ognuna una storia di mafia e di martiri che si sono opposti, come se anche la geografia fosse segnata da questa gente «con un brutto carattere», che ha avuto il coraggio di dire dei no molto difficili, pagati altrettanto cari. Ci sono tutti i più importanti attori italiani di origine siciliana o per lo meno del Sud a comporre questo enorme mosaico di storie, dove anche tra gli opposti schieramenti ci sono solo pochi passi di distanza eppure si innalzano muri. Sono gli spettri maligni di villa Palagonia, i mostri che attraversavano il paese e che continuano ad esistere lungo la via principale anche se adesso soltanto gli occhi innocenti dei bambini possono vederli.
Baària è soprattutto il grande ritratto di un popolo ironico e disincantato che non scade mai nell’aulico e nel retorico, ma mostra i suoi limiti con sincera chiarezza e per questo risulta più vero. Un popolo che sa prendere in giro il potente, ma non sa ribellarsi in massa, e che troppo spesso, in queste sue rivolte individuali e divise finisce per cedere, senza reclamare giustizia, ma solo favori dove si dovrebbero rivendicare diritti. Un disincanto, un individualismo però, che nascondono l’ostinazione, la roccia di quelle montagne. Un sorriso che convive sempre con un sottile dolore, con un rovello di vite incompiute e perdute., con il rancore che non si placa, la felicità che dura poco ed è sempre segnata da nuove sofferenze. Intanto il tempo si avvita su se stesso, non come se nulla fosse cambiato, ma come se spesso i protagonisti ne ricordassero altri del passato o come se i nostri antenati non ci abbandonassero davvero mai. La corsa finale è forse un augurio per un paese, una regione affinché non si arrenda. Qualcuno ha notato che la conclusione può apparire artificiosa, ma, in realtà, il film non deve chiudersi perché continua nella Bagheria di oggi e si replica evolvendosi. Deve restare piuttosto, spingendosi fino al presente, quel caleidoscopio di immagini che ci ha accompagnato in due ore e mezzo di delicata poesia e di riflessione.
Il film si chiude con Peppuccio Tornatore stesso, anche lui con un «brutto carattere» fin da bambino, che orgogliosamente rifiuta ciò che gli offrono come un favore e una concessione quando gli sarebbe spettato per giustizia. Peppuccio per questo è odiato dai compagni, ma lui solo potrà vedere il prodigio di quella mosca che ancora esce viva dalla sua trottola, presagio della sua vita futura passata a cercare di raccontare la strana rivelazione dell’immaginazione e dell’arte.

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One response to “BAÀRIA SÌ, BAÀRIA NO Luci ed ombre dell’ultima epopea popolare di Giuseppe Tornatore”

4 11 2009
rossanec (13:20:21) :

Inserisco qui come commento una recensione veramente bella, scritta da un mio alunno di seconda liceo scientifico, e per questo motivo ancora più significativa. "Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette quest’altro anno giocherà con la maglia numero sette!"

Baaria: la Sicilia di Tornatore

La saga dei Tornatore in una Bagheria d’altri tempi

Una rudimentale trottola di legno volteggia nella polvere, un bambino corre a perdifiato lungo l’interminabile strada bianca della Bagheria di inizio ‘900: così inizia Baaria, l’ultimo monumentale film di Tornatore, l’infinita saga della sua famiglia, del suo paese, della sua Sicilia.

Il progetto del regista è certamente uno dei più ambiziosi degli ultimi tempi: raccontare attraverso un numero impressionante di episodi più o meno significativi la storia delle ultime tre generazioni e mezzo di siciliani (grosso modo dagli anni Trenta agli anni Ottanta), seguendo le vicende dei Torrenuova (ovvero i Tornatore) attraverso il Fascismo, la guerra, la liberazione, l’epoca della guerra fredda, il boom economico e chi più ne ha più ne metta; ma, soprattutto, lo scopo del regista è di ritornare a un cinema che susciti meraviglia, stupore e interesse nello spettatore, un cinema poetico che si esprima attraverso le immagini “patinate” e il perfetto incastro di eventi spesso fortemente simbolici.
Baaria riflette perfettamente la personalità e le caratteristiche di Tornatore: la sua indubbia bravura nell’orchestrare un film di notevole durata, la cura quasi maniacale con cui delinea ogni dettaglio, la mancanza di una visione veramente generale delle vicende, di qualcosa che, dopo circa due ore e trenta di scintillante turbinio, tiri realmente le fila del discorso.
È proprio questo il principale difetto – se così lo si può definire – dell’opera: l’assenza di un vero legame tra la vicenda di Peppuccio Torrenuova (protagonista nella finzione, padre del regista nella realtà) e la moltitudine di temi che si presentano nel corso dell’azione (spesso solo sfiorati o citati di sfuggita), ovvero l’assenza di momenti per capire, fermarsi, riflettere sul senso più profondo delle cose.
Per il resto Baaria è un film accurato, piacevole da guardare, che riesce spesso a sorprendere lo spettatore, nonostante un eccesso di sentimentalismi e poeticismi non proprio spontanei, e, in fin dei conti, è in grado di comunicare quell’atmosfera perduta dei paesi meridionali di una volta, attraversati di un’unica infinita strada polverosa, invasi dall’immancabile canicola estiva e dall’immobilismo più totale.
Non mancano nemmeno i drammi della Sicilia: la mafia e la corruzione su tutti (memorabile la scena in cui l’assessore all’urbanistica, cieco, misura la validità di un progetto a seconda del peso dell’immancabile “mazzetta”) così come l’incapacità dei siciliani di liberarsi una volta per tutte di questi fardelli attraverso una vera lotta collettiva.
Grazie alla figura principale, inoltre, emerge, dapprima timidamente, poi sempre più prepotentemente, il tema della politica, del comunismo, della contrapposizione con la mafia; Peppuccio Torrenuova è infatti comunista convinto fin da ragazzo, non certo per convenienza, in un luogo dove la mafia e la DC (legate tra loro da rapporti certo non limpidi) spadroneggiano senza rivali. Lo spettatore vive così assieme a lui le lotte per la terra, contro il latifondo e contro un sistema di nepotismo e corruzione dilagante, dalla strage di Portella della Ginestra agli anni di piombo.
Quelli dedicati all’«ideologia» e al «partito» sono certamente alcuni dei momenti migliori dell’opera: è indimenticabile la scena in cui il protagonista, dalla cima di un monte della zona, indica al giornalista venuto da Roma (Raoul Bova) i luoghi degli omicidi dei sindacalisti uccisi dalla mafia, mostrando le aspre alture rocciose e le vallate macchiate dal sangue di innocenti. La terra della Sicilia si fa così testimone di questi orrori, ferita da un dramma che ben si integra nel suo paesaggio aspro e nelle sue pietraie impervie.

Il cast, frutto di scelte particolarmente azzeccate, merita di certo un discorso a parte. Sia Francesco Scianna, attore di teatro alla prima esperienza da protagonista, che la modella Margareth Madé si comportano ottimamente, mentre l’occhio dello spettatore è attirato continuamente dai volti noti di un lungo elenco di «illustri comparse» (dal già citato Raoul Bova a Monica Bellucci, ai comici Ficarra e Picone, a Michele Placido e tanti altri), che si calano in ruoli per loro insoliti con sorprendente bravura. In Baaria traspare chiaramente il desiderio del regista di far rivivere, almeno per tre ore, i suoi concittadini e i personaggi visti o sentiti nell’infanzia, come in un grande affresco epico, simile a quello di Renato Guttuso nella chiesetta presso il lido del paese, ricordata in una delle prime scene del film. È per questo che i personaggi dell’opera hanno facce scavate dalla fatica e dal sole: perché sono popolani «veri», figure forgiate sul modello di individui realmente esistiti.
Il film di Tornatore, insomma, cerca di raccontare com’era (e forse come sarà) la Sicilia attraverso uno scintillante caleidoscopio di piccole situazioni quotidiane, che creano un quadro generale forse un po’confuso, disuguale, ma allo stesso tempo tanto tanto italiano.

                                                                            Lorenzo Sarnataro