Vede signor senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico…

18 03 2010

 C_era una volta in America

 

«Che hai fatto in tutti questi anni? Sono andato a letto presto…»

 

Alcune battute di C’era una volta in America, sembrano quasi accompagnare la nostra vita, forse perché questo film più di qualsiasi altro rappresenta il confronto con un passato mitico che si scopre ad un certo punto del tutto diverso da quello che si era sempre creduto. A volte capita di accorgersi che la nostra vita ci è stata semplicemente portata via. Hanno vissuto al nostro posto ed ora ci stanno togliendo anche il mito del ricordo e della giovinezza. La ragazza che avevi sempre sognato, il tuo migliore amico, il grande amore che non è stato mai e una impossibile ascesa sociale che per qualcuno, invece, è stata possibile. Anche se il prezzo per ottenerla è quella fila di cadaveri sul ciglio della strada in una fredda serata di pioggia.
«Avevi gli occhi troppo pieni di lacrime per accorgertene…» Già, quante volte i nostri occhi sono stati così pieni di lacrime da non vedere che quello lì, abbandonato sul ciglio della strada, non era chi credevamo che fosse, ma soltanto la nostra illusione, dettata dai sensi di colpa.
Perciò, quando alla fine qualcuno ci dirà che si è portato via la nostra vita e che ha vissuto al posto nostro, mentre noi ci cibavamo di rimorsi e rimpianti gli risponderemo: «Vede signor senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. Lo denunciai per salvargli la vita; invece fu ucciso. Volle farsi uccidere… Era una grande amicizia. Andò male a lui, e andò male anche a me. Buonanotte signor Bailey. Io spero che quella sua inchiesta si risolva in nulla, sarebbe un peccato se il lavoro della sua vita andasse sprecato…» 

 

 



IDOMENEO – La forza drammatica di Mozart

13 03 2010

Oggi vi faccio ascoltare alcuni brani di Idomeneo di Mozart, un'opera di eccezionale versatilità che dimostra la sua grande abilità e potenza nel trattare anche temi drammatici nonché la sua innata capacità di toccare le più vaste corde dei sentimenti umani in poche righe di pentagramma. Il grande compositore di Salisburgo si mostra libero di spaziare dalla visione idillica ed arcadica, ai languidi sentimenti amorosi, alla disperazione dell'amante incompreso, tipici di Idamante ed Ilia, in contrasto con il terribile voto di Idomeneo e la minaccia della crudele vendetta degli dei e degli uomini.

  

 

ILIA
Quando avran fine omai
L'aspre sventure mie? Ilia infelice!
Di tempesta crudel misero avanzo,
Del genitor, e de' germani priva
Del barbaro nemico
Misto col sangue il sangue
Vittime generose,
A qual sorte più rea
Ti riserbano i Numi?…
Pur vendicaste voi
Di Priamo, e di Troia i danni, e l'onte?
Perì la flotta Argiva, e Idomeneo
Pasto forse sarà d'orca vorace…
Ma che mi giova, oh ciel! se al primo aspetto
Di quel prode Idamante,
Che all'onde mi rapì, l'odio deposi,
E pria fu schiavo il cor, che m'accorgessi
D'essere prigioniera.
Ah qual contrasto, oh Dio! d'opposti affetti
Mi destate nel sen odio, ed amore!
Vendetta deggio a chi mi diè la vita,
Gratitudine a chi vita mi rende…
Oh Ilia! oh genitor! oh prence! oh sorte!
Oh vita sventurata! oh dolce morte!
Ma che? m'ama Idamante?… ah no; l'ingrato
Per Elettra sospira, e quell’ Elettra
Meschina principessa esule d'Argo,
D'Oreste alle sciagure a queste arene
Fuggitiva, raminga, è mia rivale.
Quanti mi siete intorno
Carnefici spietati?… orsù sbranate
Vendetta, gelosia, odio, ed amore,
Sbranate sì quest'infelice core!

No. 1 – Aria

ILIA
Padre, germani, addio!
Voi foste, io vi perdei.
Grecia, cagion tu sei.
E un greco adorerò?

D'ingrata al sangue mio
So, che la colpa avrei;
Ma quel sembiante, oh Dei!
Odiare ancor non so.

 

 

No. 2 – Aria

IDAMANTE
Non ho colpa, e mi condanni
Idol mio, perché t'adoro.
Colpa è vostra, oh Dei tiranni,
E di pena afflitto io moro
D'un error, che mio non è.

Se tu il brami, al tuo impero
Aprirommi questo seno.
Ne' tuoi lumi il leggo, è vero,
Ma me 'l dica il labbro almeno,
E non chiedo altra mercé.

Recitativo

ILIA
Vede condurre i prigionieri
Ecco il misero resto de' Troiani
Dal nemico furor salvi.

IDAMANTE
Or quei ceppi
lo romperò, vuo' consolarli adesso.
da sé
Ahi! perché tanto far non so a me stesso!


SCENA III
Idamante, Ilia, Troiani prigionieri, uomini, e donne Cretesi
Si levano a'prigionieri la catene, li quali dimostrano gratitudine.

IDAMANTE
Scingete le catene, ed oggi il mondo,
oh fedele Sidon suddita nostra,
Vegga due gloriosi
Popoli in dolce nodo avvinti, e stretti
Di perfetta amistà.
Elena armò la Grecia, e l'Asia, ed ora
Disarma, e riunisce, ed Asia, e Grecia
Eroina novella,
Principessa più amabile, e più bella.

No. 3 – Coro

CORO DE'TROIANI E CRETESI
Godiam la pace,
Trionfi amore:
Ora ogni core
Giubilerà.

DUE CRETESI
Grazie a chi estinse
Face di guerra;
Or si la terra
Riposo avrà.

TUTTI
Godiam la pace, ecc.

DUE TROIANI
A voi dobbiamo
Pietosi Numi!
E a quei bei lumi
La libertà.

TUTTI
Godiam la pace, ecc.

 

 

 

 

ELETTRA
Tutte nel cor vi sento
Furie del crudo Averno
Lunge a si gran tormento
Amor, mercé, pietà.

Chi mi rubò quel core,
Quel, che tradito ha il mio,
Provin dal mio furore
Vendetta, e crudeltà.

Parte


SCENA VII
Spiagge del mare ancora agitato attorniate da dirupi. Rottami di navi sul lido

No. 5 – Coro

Coro di gente vicina a naufragare

CORO VICINO
Pietà! Numi, pietà!
Aiuto oh giusti Numi!
A noi volgete i lumi…

CORO LONTANO
Pietà! Numi, pietà!
Il ciel, il mare, il vento
Ci opprimon di spavento…

CORO VICINO
Pietà Numi, pietà.
In braccio a cruda morte
Ci spinge l'empia sorte…

 

 

IDOMENEO
Fuor del mar ho un mare in seno,
Che dei primo è più funesto,
E Nettuno ancora in questo
Mai non cessa minacciar.

Fiero Nume! dimmi almeno:
Se al naufragio è sì vicino
Il mio cor, qual rio destino
Or gli vieta il naufragar?

 

 

 

 

No. 24 – Coro

POPOLO
Oh voto tremendo!
Spettacolo orrendo!
Già regna la morte,
D'abisso le porte
Spalanca crudel.

GRAN SACERDOTE
Oh cielo clemente!
Il figlio è innocente,
Il voto è inumano;
Arresta la mano
Del padre fedel.

CORO
Oh voto tremendo! ecc.

 



LA CASA DEI MORTI RACCONTA DI TUTTI NOI – Grande successo in questi giorni alla Scala per l’opera di Leoš Janáček

7 03 2010

«Gnomo: Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto: Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male…» (Dialogo di un folletto e di uno gnomo G. Leopardi)

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Da una casa di morti, scritta profeticamente nel 1928 dal grande compositore ceco Leoš Janáček è caratterizzata da un libretto estremamente drammatico di emozionante poesia, tratto da Memorie da una casa di morti, opera che racconta l’esperienza autobiografica di Fedor Dostevskij, inizialmente condannato a morte e poi internato nel 1849 in un campo di lavoro in Siberia per quattro anni a causa della sua adesione ad una società segreta sovversiva. La musica, molto espressiva, incalza lo spettatore che si sente in prima persona trascinato sulla scena, come in una presa di coscienza collettiva dei propri traumi peggiori e degli incubi più segreti. L’allestimento della Scala è veramente efficace e la regia di Patrice Chéreausegue e valorizza brillantemente la tessitura musicale.
Z mrtvého domu si interroga sulla vera natura degli esseri umani. Il nostro nemico è esterno oppure siamo noi stessi? Inimmaginabili eppure vere sono le offese che l’uomo può arrecare alla propria natura con livore autodistruttivo oppure infierendo in modi altrettanto brutali sugli altri. E le passioni sono sempre le stesse, alla fine c’è sempre lo stesso desiderio di amore struggente anche se vissuto quasi come una condanna, degradato e svilito. La casa dei morti è un luogo dove le persone si fanno a pezzi e non sono solo le guardie i carnefici. Tutti infieriscono su se stessi e sugli altri, prigionieri innanzitutto dei propri orrendi sensi di colpa, degli incubi per ciò che hanno commesso, si straziano nello spirito prima ancora che nella carne e più violentemente, eppure hanno un assoluto bisogno di raccontare le loro miserie, di rivelare pubblicamente quello che sono stati un giorno e come hanno perduto tutto. Nessuno si proclama innocente, tutti sono lì perché hanno veramente ucciso. Si rivela l’immagine di un mondo dove le violenze palesi sono in fin dei conti quasi meno orribili della repressione e dell’ingiustizia sociale in cui tutti sono immersi, delle continue brutalità nascoste nei rapporti umani più comuni.
Si scopre così che molte delle azioni più gravi restano senza un movente, senza una risposta plausibile, sembrano semplicemente reazioni incontrollabili volte alla distruzione di sé e degli altri. Perché, per esempio, Filka ha lasciato Akulina? Per moralismo? Per vendetta verso il padre? Per paura dell’amore? Non lo sapremo mai, ma è certo che con quel gesto ha segnato la disperazione per se stesso e per coloro che gli vivevano accanto. Akulina sembra una persona a cui tutto ormai appare indifferente: non le importa più di nulla ora che Filka se n’è andato, che la battano pure o che la uccidano tanto è già morta.
E Filka, che nel campo si fa chiamare Luka, morirà mentre Šiškov racconta come ha assassinato Akulina perdendo per sempre se stesso. Filka, a sua volta, ha da poco raccontato la sua storia: come ha ucciso il comandante della sua compagnia perché si era autoproclamato dio o forse, anche in questo caso, non c’era una vera ragione, e l’unico motivo è che semplicemente godeva nell’aizzare gli uni contro gli altri come cani.

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Il regista allestisce per questi racconti così tragici delle grandi scene corali semplicemente perfette che trasmettono potentemente l’idea della segregazione al limite della follia. La pantomima tragica continua poi nella scena del teatro dei detenuti, goffa e struggente rappresentazione del loro bisogno di amore e della mancanza del sesso.
Ognuno seguita a vivere i propri incubi come Skuratov che probabilmente ha ucciso involontariamente Lujza, l’amore della sua vita, cercando di assassinare il tedesco ricco che voleva sposarla.
Nel campo c’è un’aquila ferita che non riesce più a volare, e lo spettatore dà per scontato che morirà, che non può farcela: le guardie uccideranno anche lei oppure saranno gli stessi detenuti, per noia, per disperazione o per invidia delle sue ali.
In Siberia c’è bisogno di tenersi occupati e così le guardie sembrano doversi procacciare dei lavori da far fare ai forzati anche se occupazioni vere non ce ne sarebbero. Così pietre e rifiuti vengono portati in scena a mucchi appositamente per essere nuovamente trasportati fuori: una trovata geniale del regista per dimostrare che l’unica cosa che conta per le guardie è la loro sensazione di potere sugli altri uomini che li fa sentire stupidamente «salvi».
L’unico che si salva, invece, alla fine è il “signore”, Gorjančikov, al quale all’inizio vengono fatti pagare tutti i suoi privilegi, ma si sa, dopotutto, cane non mangia cane e arriva la grazia… Il signore però, detenuto per reati politici, è anche l’unico che in quella situazione è forse libero della libertà apprezzata da Dostoevskij: capace di solidarizzare con qualcuno anche in una situazione estrema: infatti aiuta un ragazzo povero insegnandogli a leggere e scrivere.
In questo abisso di dolore in cui sembra di precipitare senza fine succede qualcosa di veramente  imprevisto e grandioso: l’aquila ferita volerà e i detenuti la guardano allontanarsi estasiati, ma sulla terra i soldati continueranno a ripetere «Marsch!». «L’aquila è zar» urleranno più volte i forzati, sottolineando che essa non ha padroni, può vivere solo libera e questo è l’unico modo di essere veramente sovrani,  soprattutto di se stessi e delle proprie passioni che conducono alla rovina. E’ interessante notare come spesso questi uomini si siano perduti proprio per la cosa migliore che era loro capitata nella vita. Basta un piccolo cambiamento, una minuscola variazione ed ecco che l’occasione della vita si tramuta in perdizione, perché gli uomini non sanno accettare di perdere la loro illusione preziosa su cui avevano costruito i progetti futuri. Altri, invece, hanno forse solo dissipato l’esistenza perdendo tempo. Infine c’è anche chi, come Filka, ha vissuto semplicemente in perenne cruento conflitto con gli altri, invidiandoli e desiderandone il male, senza neanche sapere perché.
Bravi gli interpreti, su tutti il tenore John Mark Ainsley  nel ruolo di Skuratov e il basso Peter Mattei (Šiškov) La direzione visionaria, febbrile e aggressiva del giovane e bravissimo direttore finlandese Esa-Pekka Solonen valorizza ulteriormente quest’opera forte e incalzante, quasi feroce a tratti, essendo un’anticipazione drammaticamente realistica di ciò che poi accadrà durante la seconda guerra mondiale nei campi di sterminio nazisti. Un luogo da cui nessuno uscirà indenne, soprattutto i sopravvissuti ai quali resterà il pesante senso di colpa di essere rimasti vivi quasi a discapito degli altri, mentre nei loro occhi scorreranno per sempre le immagini incancellabili della fabbrica della morte.
 
Rossana Cerretti



INVICTUS – La ricetta di Clint Eastwood per guarire la nostra società malata

3 03 2010
invict4Con Invictus Clint Eastwood questa volta supera se stesso e ci parla di uno di quei momenti straordinari della storia nei quali riusciamo a pensare che l’umanità possa andare verso un vero progresso della civiltà e dei diritti. Lo fa con l’essenzialità della narrazione che gli è propria e con la straordinaria ricerca di inquadrature-simbolo che dovranno esprimere l’intera concezione del film in un’unica ripresa: come accade in quella iniziale che unisce in un continuum la squadra di rugby dei ricchi afrikaner bianchi e i ragazzi neri della baraccopoli che giocano a calcio a piedi nudi su un povero sterrato. Li divide una strada trafficata nella quale di lì a poco passerà l’auto che sta riportando finalmente a casa Nelson Mandela dopo trent’anni di carcere duro. Quella strada che ora divide due popoli dovrà invece unirli e questo è l’arduo compito che attende il capo dell’African National Congress.

Eastwood parla della possibilità di ricostruire un tessuto sociale e lo fa prendendo ad esempio una delle peggiori situazioni possibili, quella dell’apartheid. Ma si sa, questo grande attore-regista che ogni volta aspira a superare se stesso, ama raccontare le sfide impossibili e si emoziona ed entusiasma come un ragazzino, alle soglie dei suoi ottant’anni, per questa storia «troppo bella per essere vera» eppure realmente accaduta. Mostra come tutto si sarebbe potuto trasformare in tragedia e come, invece, sia possibile intendersi anche tra personalità e culture molto distanti se si trovano valori comuni per i quali battersi, qualcosa in cui riconoscersi. Mandela comprende che non basta aver preso il potere né avere la maggioranza in parlamento e nella nazione se c’è una spaccatura che divide i due popoli e l’odio e la diffidenza continuano a farla da padroni. Un uomo che è stato segregato in una angusta cella per trent’anni non ha partorito l’odio, non sono stati il rancore o il desiderio di rivalsa a tenerlo in vita, ma la convinzione della forza sconvolgente del perdono. L’idea che non la guerra e lo scontro violento siano i veri motori di un cambiamento, ma la capacità di vedere oltre, di guardare ad un bene comune più alto, all’appartenenza ad una stessa terra: «Il perdono libera l’anima, cancella la paura. Per questo è un’arma tanto potente».invict

La paura si basa sulla non conoscenza per questo Mandela utilizza il simbolo stesso dell’apartheid, gli Springboks, la squadra di rugby dei «signorini» bianchi come emblema della trasformazione che intende attuare. La sfida è difficilissima, ma fondamentale: «Se riuscirò nel mio progetto – sembra dirsi Mandela – sarà la dimostrazione sul campo che non solo la convivenza pacifica, ma la collaborazione tra i nostri due popoli sarà possibile e che sono di più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono» per questo una partita di rugby, sia pure del campionato del mondo, diventa improvvisamente così importante.
Per riuscire nel miracolo, però, Mandela deve smentire il pregiudizio che «Il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da selvaggi; il rugby è uno sport da selvaggi giocato da gentiluomini» e.portare dalla sua parte il capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un Matt Damon a volte un po’ statico; inoltre, come dicevamo, deve sconfiggere la paura con la conoscenza reciproca. Per questo invita gli Springboks ad allenarsi fuori dal loro campo di gioco mandandoli, in mezzo alle baracche dei neri finché, colpiti dalla miseria intorno a loro, questi bianchi vestiti con l’odiata divisa verde-oro, non si mettono ad insegnare il rugby ai bambini poveri delle borgate.
Eastwood attraverso questo film non parla solo del Sudafrica, ovviamente, ma della situazione del mondo attuale e delle terribili tensioni che caratterizzano le nostre società multietniche e i rapporti tra civiltà diverse. Il film è emozionante e veramente intenso, in questa sfida che ha tutto il sapore dell’impossibile. se non sapessimo che questo popolo, almeno in parte, si è ricostituito quasi non ci crederemmo. Morgan Freeman, poi, è un Mandela perfetto, calmo essenziale, un uomo di acciaio con il tocco di velluto, che non ha paura di niente perché nella sua vita ha visto e provato il peggio. E’ serenamente pronto a morire perché la morte gli è stata compagna per trenta lunghi anni e adesso nulla sembra poterlo fermare. La forza del bene che promana dalla sua persona è immediata e potente tanto da non permettere a nessuno di dire no. Eastwood ci parla di Mandela come qualcuno che è riuscito a realizzare un’impresa quasi folle solo per mezzo della sua volontà incrollabile. Come il poeta che il neo presidente del Sudafrica aveva imparato ad amare quando si trovava in carcere: William Ernest Henley autore nel 1875 proprio degli emozionanti versi di Invictus 
«Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l’indomabile anima mia.»
Un uomo che già nella prima adolescenza era stato condannato a morte dalla tubercolosi, ma che era riuscito a lottare con la sua malattia fino a 53 anni. Un miracolo sul quale i medici non avrebbero scommesso un centesimo. Una situazione paragonabile a quella del Sudafrica per il quale ben pochi avrebbero immaginato un epilogo positivo né tanto meno che Mandela sarebbe stato scarcerato.senza colpo ferire, ma soltanto per la forza delle idee. Quando il regista cita il poeta sembra che parli di se stesso perché ormai vede le prospettive accorciarsi davanti a sé, ma proprio per questo in ogni film sembra volerci lasciare una sua eredità spirituale
Eastwood ci parla con la saggezza della sua età e non con la disperazione, perché quell’anima indomita è prima di tutto la sua. Un epilogo che dall’ispettore Callaghan non ci saremmo mai aspettati, ma la giustizia, infine, non può prevalere sull’umanità.
Uno di quei film che meritano di essere visti una seconda volta anche solo per apprezzare tutte brillanti soluzioni tecniche ed espressive del suo cinema elegante, essenziale e potente, come per esempio, la partita di rugby finale girata in mezzo al campo alla stessa altezza dei giocatori.
Un film che per la lotta disperata ed eroica ricorda Lettere da Iwo Jima, ma con una conclusione inaspettatamente positiva nel trionfo di valori condivisi: il simbolo della riconciliazione è il nuovo inno nazionale scritto nella lingua dei neri, ma cantato anche dai bianchi. Un’opera commovente e grandiosa come solo i più alti ideali sanno essere per testimoniare che qualunque mattone può servire per ricostruire, anche quello di chi consideriamo il nostro nemico, se si ha il coraggio di utilizzarlo.