LE «FURBIZIE» DI DANNY BOYLE – Un’India corale e strappalacrime nel film “Teh Millionaire” candidato a 10 premi Oscar

2 02 2009
the MillionaireIl passaggio dall’India dei cumuli di rifiuti e delle baraccopoli sconfinate nelle quali milioni di persone vivevano, ai grattacieli ipertrofici delle periferie e delle costruzioni selvagge: il nuovo film di Danny Boyle, candidato a ben 10 premi Oscar è interessante soprattutto per le scene corali e per l’illustrazione di questo cambiamento epocale dell’India, da paese del sottosviluppo a nuovo fulcro dell’economia mondiale.
Un mutamento disordinato e incoerente che sembra non corrispondere, in realtà, ad un vero avanzamento civile, ma si manifesta solo con la creazione di nuovi miti mediatici.
Subito si nota lo stridente contrasto tra le montagne di rifiuti, le fogne a cielo aperto, la soffocante presenza delle baracche ammassate e il sogno proposto dal cinema, prima, e dalla televisione poi.
La sensazione dall’inizio alla fine del film è quella che Jamal, il protagonista, sia un ragazzo solo contro tutti, ma dalla volontà di ferro, tanto che, dopo molte peripezie vincerà contro avversità apparentemente insormontabili. 
Un epilogo così ottimista da essere molto improbabile, salvato dalla coscienza che si tratta di un sogno, come sottolinea il ballo finale alla Grease, ma in perfetto stile Bollywood.
Il film, nel complesso, è girato in modo brillante, e scorre sotto i nostri occhi freneticamente, con scene molto veloci, movimentate, che creano la sensazione del labirinto. In più prevale l’elemento sentimentale accentuato dai tre bambini soli nel caos della vita: come i tre moschettieri Athos, Portos e…
L’ultima domanda del «Chi vuol esser milionario» in versione indiana è proprio sul terzo, simbolico moschettiere che nasconde la ragazza da sempre amata da Jamal. Un sogno infantile che, alla fine, si realizza secondo un cliché un po’ strappalacrime e troppo simmetrico, perché modellato sulla convinzione che i principali eventi negativi vissuti dal protagonista rientrino tutti in un «karma» decisamente di maniera. 
Belle, invece, le scene "veriste": le corse in mezzo ai vicoli, le fughe continue, la sensazione di esser perennemente braccati che accompagna i tre protagonisti fin dalla loro drammatica infanzia nell’enorme baraccopoli di Bombay (Mumbai): c’è sempre un ostacolo da superare, qualcuno da cui scappare.
La polizia, che simboleggia il potere, non tutela mai i deboli, anzi, è corrotta e favorisce sempre i più forti, al punto che nessuno può credere che Jamal, giovane senza arte né parte, possa aver vinto tutti quei soldi con le proprie forze, così, paradossalmente, viene arrestato perché sospettato di frode.
Ad ordire l’arresto è il conduttore del programma che si vede rubare la scena. Come in ogni copione «verghiano» che si rispetti non esiste alcuna solidarietà tra poveri o ex-poveri: il conduttore televisivo viene dalle baraccopoli anche lui e proprio per questo si accanisce maggiormente contro il protagonista.
Seguendo un’idea tipicamente orientale del destino, ad ogni avventura negativa dell’esistenza il giovane ha imparato suo malgrado qualcosa che non è più riuscito a dimenticare, ma proprio da questa «memoria» traumatica dipenderà, alla fine, una vincita al «Milionario» fino ad arrivare all’ultimo montepremi finale, quando il sogno di tutta una vita sarà in gioco.
Sembra quasi che in un sol colpo l’esistenza abbia voluto ripagare Jamal di tutte le sue perdite e di tutti i disastri, come ognuno si augurerebbe.
Così il giovane diventa per tutti l’emblema di una rivincita, al punto che il potere non può credere nell’ingranaggio impazzito: come può un buon a nulla – uno che porta il tè ai telefonisti di un call center – come può vincere 20 milioni di rupie?
Già, non accadrà mai, ma continuate a sognare, almeno al cinema.
Perché questa è Bollywood!
Certo, la selezione di un film del genere come canditato a 10 premi Oscar invita a riflettere: le giurie hollywoodiane stanno diventando sempre più «di maniera» e con pretese buoniste…
Il caso Gomorra docet, ma d’altra parte un film così "vero" come quello di Garrone che cosa avrebbe potuto rappresentare in questo mondo di cartapesta? Forse, allora, meglio il Gran Prix speciale della giuria di Cannes presieduta da Sean Penn. Quello di certo vale qualcosa, gli altri chissà…

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