LA DANZA MACABRA DELLE NUVOLE DI ARISTOFANE – Un giudizio universale alla rovescia firmato Antonio Latella

4 04 2010

Tra i titoli più interessanti di questa Stagione di prosa spiccano Le nuvole di Aristofane, testo complesso e di difficile lettura, portato magistralmente in scena di recente al Sociale di Brescia dalla Compagnia del Teatro Stabile dell’Umbria per la regia di Antonio Latella.
Un Latella geniale affronta Aristofane da un punto di vista molto attuale e, come già in altri suoi allestimenti, particolarmente attento nella scelta delle simbologie capaci di mettere in crisi il pubblico e coinvolgerlo in uno spettacolo interattivo e provocatorio.
L’indiscussa maestria degli attori che collaborano con il noto regista è ormai assodata e anche questa volta Marco Cacciola, Annibale Pavone, Maurizio Rippa e Massimiliano Spezianinon si smentiscono, capaci, come sono, di sostenere ritmi scenici forsennati, in un mix riuscitissimo e molto ben interpretato di mimo, parola, danza e canto. Un tentativo di far rivivere nella modernità il connubio delle varie arti tipico del teatro greco in una messa in scena veramente ingegnosa e straordinaria.
Il tema di fondo dell’opera è noto: da un lato il pensiero dell’ultra conservatore Aristofane e dall’altro la corruzione della democrazia impersonata da Socrate, che, come si sa, era particolarmente inviso al commediografo ateniese della seconda metà del V secolo. Socrate viene ritratto come un sofista che mette in crisi completamente i miti e i valori del passato per sostituirli con il nulla, cioè con le nuvole al posto degli dei. Adesso, sostiene Aristofane, anziché l’ordine del Fato e del mito governa il turbine ovvero il caos, e le nuvole rappresentano il crollo di ogni moralità, i residui della democrazia, le mummie viventi di un sistema obsoleto espressione di potentati e di «saggi» capaci ribaltare il significato stesso della legge. Un concetto espresso dal regista in uno stile millenaristico da «cripta dei Cappuccini»: scheletri su scheletri del pensiero e della società piovono sul palcoscenico e lo sovrastano appesi davanti agli occhi degli spettatori allibiti in una sorta di giudizio universale al contrario (perché i giudici sono i morti e non gli dei) al quale nessuno può restare indifferente. Tra colte reminiscenze del Giudizio finale del Signorelli, le mummie obsolete sono quelle che governano lo Stato e si autogiustificano, manipolando il giusto e l’ingiusto in un vuoto gioco dialettico, eppure, sembra sottolineare il regista, una volta eliminate, dopo di loro ci sarà solo il diluvio.
Latella, infatti, sceglie di dare un particolare taglio ad Aristofane: rispetto al testo evidentemente schierato, la sua interpretazione fa notare, invece, che l’alternativa alla democrazia, sia pur corrotta e imperfetta può essere soltanto una brutale dittatura ammantata di pensieri convenzionali, di «valori» fittizi ma, infine, eliminate l’una e l’altra, ci sarà solo il ritorno alla società delle scimmie in una citazione allucinata e imprevedibile di 2001 Odissea nello spazio.

 

Le nuvole siamo noi si dice degli scheletri ed è appunto questa la contraddizione: se le eterne domande sul bene e sul male non ci abbandonano che fare? Ritirarci nelle comode certezze del «discorso giusto», che però nasconde la falsa ipocrisia del perbenismo tipico di ogni potere assoluto, oppure buttare
all’aria ogni cosa cercando di costruire su basi nuove, sempre che ci siano, considerando che l’uomo sembra essere corrotto alla radice? Il tutto si consuma come una farsa in una sorta di eterno talk show che non ispira alcuna drammaticità. Ma proprio questo contrasto colpisce al cuore gli spettatori: contemplare la propria vita come un inconsistente balletto macabro verso il nulla anche quando crediamo di enunciare profonde verità appare un monito per tutti. Quegli scheletri sospesi sul palcoscenico ci guardano come il nostro specchio, interrogandoci sull’inconsistenza del pensiero e di ogni tentativo di civiltà.
Tolti gli dei restiamo noi gli unici referenti di noi stessi, gli unici arbitri in balia della crudeltà della natura e quindi della morte. Questo è ciò che, in un certo senso, la maieutica di Socrate ha effettivamente creato, cercando le risposte nella ragione umana, rafforzata, due millenni più tardi, dal metodo scientifico di Galileo. L’uomo che rivendica il proprio pensiero deve essere pronto ad accettare anche la solitudine di fronte al proprio destino.
Esseri fragili e caduchi come siamo, potremo mai dare risposte al bene e al male? Eppure è proprio questo ciò che ci viene richiesto dalla nostra natura di esseri sociali: tentare la sfida delle sfide, andare oltre, in qualche modo, alla propria fragilità intrinseca per cercare un senso in tutto questo ed una verità che non dipenda, appunto, dagli dei, ma dalla sola nostra ragione, un discorso che Aristofane non può ovviamente accettare, ma che è sottinteso nella messa in scena di Latella ed è anche il rebus che egli pone agli spettatori.
Il vero problema è che ci manca una visione culturale e sociale della vita e, di conseguenza, ellenicamente, una visione dell’uomo come soggetto politico, in una decadenza che pare inarrestabile. Il pensatoio di Socrate ha la forma di un teatrino dei burattini, per dimostrare che anche le forme più alte
di cultura appaiono oggi svilite e svuotate. Il pubblico si divide in due: i fautori del «giusto» di Aristofane (il pensiero dogmatico) e dell’«ingiusto» di Fidippide (il pensiero trasformista), ma, alla fine, entrambi mostrano tutti i limiti e i difetti di un sistema errato in sé. Il pubblico, del resto, nell’opera originale è insultato in maniera assai colorita e triviale, perché è costituito, secondo l’autore, da una massa di stupidi, di gente del tutto priva di cervello che il potere riesce facilmente a turlupinare.

Il messaggio di Latella è chiaro: da un lato ci sono i sofisti, gli uomini del trash televisivo – di cui spesso riecheggia in scena anche lo stacco pubblicitario tipico – che con le parole, i talk show, i distinguo, sono capaci di ribaltare la giustizia per continuare nella loro squallida gestione del potere e dall’altro ci sono gli uomini d’ordine che porteranno alla dittatura, quelli che sostengono la tradizione e «gli eroi di Maratona». Il regista sembra ritenere che entrambi siano in qualche modo facce della stessa medaglia e che senza un vero cambiamento dell’ordine sociale qualunque tentativo di riformare questo sistema sarà impossibile. Anche perché i padri sono troppo vecchi e ancorati a concetti di moralismo dogmatico e imposto mentre i giovani sono dei bamboccioni come Fidippide, la marionetta, nudo e crudo, mai andato a scuola, privo di qualunque consapevolezza di sé, tutto muscoli e niente cervello. La sua nudità ha qualcosa di selvaggio come i suoi cavalli, da ricoprire di etichette e di dialettica, ma sempre incapace di pensieri propri..Come potremo sperare da lui un reale cambiamento sociale?
Così i vecchi (rappresentati dal padre Strepsiade) bruceranno il pensatoio, ultimo residuo di democrazia, e i giovani, cresciuti a pane e tv, Grande fratello e Uomini e donne, contesteranno i padri e pure il sistema delle nuvole ormai inutili, butteranno giù gli ultimi scheletri per creare un nuovo pianeta delle scimmie, una società degli scimpanzé con tanto di primo cittadino ominide fregiato di fascia tricolore. Nessun epilogo positivo, dunque, ci aspetta.per questa società corrotta alle radici.
Dopo la danza macabra e beffarda degli scheletri sulle note del Va pensiero leghista, il Requiem dell’Italia, vittima di tutti i poteri che la stanno distruggendo, è scandito per Latella dalle parole di Povera patria di Franco Battiato, unica voce, ormai, in un vuoto, irrevocabile silenzio.


Actions

Informations