Segreti e bugie di John Edgar Hoover

10 01 2012

Diretto da Clint Eastwood, Leonardo Di Caprio accetta la sfida di interpretare la controversa figura del fondatore dell’FBI

L’ultimo film di Clint Eastwood è dedicato ad una vera e propria eminenza grigia del potere americano, J.Edgar Hoover , fondatore e capo dell’FBI, rimasto in carica per ben 48 anni e sopravvissuto a otto presidenti con sistemi alquanto spregiudicati, come l’uso di dossier segreti e scottanti sugli uomini di governo. Censore implacabile qual era, poco prima di morire, nel 1972, si apprestava ad entrare in conflitto anche con Nixon, avendo appreso del suo tentativo di usare intercettazioni e microspie per tenere sotto controllo, ed eventualmente ricattare, politici e giornalisti (di lì a poco, infatti, sarebbe scoppiato lo scandalo Watergate). Eastwood per la realizzazione di “J.Edgar” si è circondato di un ottimo cast in cui tra gli altri spiccano Leonardo Di Caprio, che ha accettato e vinto la sfida di recitare fortemente invecchiato e travisato nell’aspetto, e Judi Dench nel ruolo dell’autoritaria madre del protagonista. Eccezionali il montaggio, le inquadrature, la fotografia che mantiene un fascino volutamente retrò, ispirandosi agli effetti del bianco e nero, con profondi chiaroscuri. Nel film, però, si respira talvolta un senso di incompiutezza, forse determinato dal tentativo di mantenere ad ogni costo un certo equilibrio nel raccontare le vicende e il carattere di un uomo che nel bene e nel male ha segnato la storia dell’America. A volte bisognava avere il coraggio di osare di più, soprattutto in fase di sceneggiatura, approfondendo alcuni episodi controversi e oscuri della storia. Per certi aspetti Hoover ricorda i classici personaggi di Eastwood – nei quali evidentemente riconosce qualcosa di sé – come il protagonista di “Gran Torino”, chiuso in se stesso e senza veri amici. Anche il potente capo dell’FBI è un tipo schivo e diffidente, totalmente dedito al proprio lavoro, ma rimasto ad un livello di affettività quasi infantile nella vita privata, bloccato emotivamente da una madre che ha fatto di lui l’unica ragione di vita e che ha enormi aspettative riguardo al suo futuro.

J. Edgar è un uomo che, essendo stato balbuziente, per riuscire a parlare in modo normale ha imparato a reagire con un ferreo autocontrollo e una volontà incrollabile. La sua smania di controllare tutto, ogni dettaglio, fa di lui un poliziotto pressoché perfetto, un organizzatore quasi infallibile, ma anche un uomo estremamente pericoloso, perfino per se stesso. Per diventare così come lo vediamo, Hoover ha dovuto, in realtà, rinnegare molti aspetti della sua personalità, sacrificando tutto alla “causa”. Alcuni hanno paragonato la lettura che Eastwood dà di questo personaggio a quella che recentemente Michael Mann, e in precedenza la cinematografia degli anni ’30, aveva dato di John Dillinger (il nemico pubblico numero uno, che proprio Hoover contribuì a eliminare) considerandole come due facce della stessa medaglia: l’anarchico trasgressore di tutte le regole e il fanatico difensore ad oltranza dello Stato, ma altrettanto pronto a violare le leggi quando lo ritenesse necessario “ per la sicurezza nazionale”. Entrambi sono accomunati dall’esibizionismo dell’apparire sui rotocalchi, nei cinegiornali come nei fumetti e dal desiderio di essere considerati degli eroi dall’opinione pubblica. Edgar Hoover è l’uomo che con pazienza certosina alla fine, dopo tre anni di minuziose ricerche, riuscirà a scovare l’assassino del figlio di Charles Lindberg, il noto aviatore, creando la polizia “scientifica”, proprio allo scopo di risolvere l’intricato caso. Nello stesso periodo, per coordinare meglio le indagini, fonda dal primitivo Bureau of Investigation, l’FBI per perseguire i reati federali della criminalità organizzata. Una storia la sua piena di ambiguità e misteri: chiuso nei suoi uffici dirige le indagini e coordina i servizi informativi – basati su intercettazioni e microspie – con il pugno di ferro, ma poi si lascia passare sotto il naso qualcosa di così grave come l’assassinio del presidente Kennedy. Pronuncia solo poche, fredde parole al telefono con il fratello Bob: “Il presidente è stato assassinato”. Poi chiude la comunicazione senza neppure attendere una risposta…

Il film, quindi, pur senza prendere direttamente una posizione, proprio attraverso queste reticenze, lascia intendere che Hoover fosse in qualche modo implicato nell’assassinio di John Kennedy, dopo i gravi scontri avuti con il fratello Robert e i documenti riservati che accusavano il presidente di frequentare un’amante “comunista”. Sempre nello stesso periodo, a causa di attività che egli considerava anti-americane, Hoover aveva inviato minacce e ricatti a Martin Luther King perché non ritirasse il Nobel per la pace; anche in questo caso non sappiamo quale sia stato il suo livello di coinvolgimento nell’assassinio del famoso difensore dei diritti civili dei neri americani. Il capo dell’FBI era convito che il suo lavoro fosse fondamentale per preservare la sicurezza degli Stati Uniti, e perseguiva i suoi scopi anche con mezzi molto spregiudicati e spietati. Paradossalmente Eastwood, non prendendo direttamente una posizione su questo personaggio, mette maggiormente in evidenza le sue ombre e soprattutto, cosa che probabilmente gli interessa di più, i lati oscuri dell’America: quella che ancora oggi con la legge patriottica (USA Patriot Act prorogata anche sotto la presidenza Obama) ritiene che si possa tenere in carcere senza processo a tempo indeterminato un detenuto straniero sospettato di terrorismo o addirittura tollera che si possano “prelevare” e imprigionare in nome della sicurezza nazionale i sospettati che si trovino nel territorio di altri paesi (non disdegnando neppure la tortura in fase di interrogatorio). L’ossessione per la sicurezza nazionale di Hoover si riflette in un atteggiamento ancora oggi tipico di molti americani ed è significativo che da questo punto di vista anche attualmente cambino i presidenti e non cambi nulla o quasi, segno che certe decisioni non vengono prese perché si pensa che molti elettori non le condividerebbero. Perciò forse bisognerebbe ribaltare il concetto e dire non tanto che il capo dell’FBI è sopravvissuto a otto presidenti, ma piuttosto che egli rappresentava lo zoccolo duro di una certa America, quella a cui tutti i presidenti, alla fine, si sono semplicemente adeguati più o meno volentieri.

Per questo a Hoover viene lasciata narrare la sua storia a modo suo, perché, per certi aspetti, è quella che una parte degli statunitensi vorrebbe sentirsi raccontare e le obiezioni degli altri, anche nei riguardi delle sue bugie, risultano, chissà perché, sempre troppo deboli. Una vita da gran sacerdote della sicurezza nazionale, immolata al lavoro, nella quale si nasconde, però, una verità che J.Edgar non poteva accettare, cioè la propria omosessualità. E’ chiaro che questo per gli ultra tradizionalisti americani è decisamente un colpo basso: vedere un loro paladino ritratto nel suo aspetto più fragile e irrisolto certo non può aver fatto loro piacere. Tant’è vero che questo film non è stato amato dagli americani, forse anche per quel trucco eccessivo che ha qualcosa di volutamente caricaturale o forse perché J.Edgar rispecchia gran parte delle loro ossessioni, l’aspetto caratteristico della volontà incrollabile, ma anche della violenza dell’America, che si sente continuamente accerchiata, minacciata da nemici interni ed esterni. Il film non è affatto rassicurante, così come “Gangs of New York” di Martin Scorsese, con il quale ha in comune l’idea di un’America retta sì da una volontà formidabile, ma allo stesso tempo dall’autoritarismo e dalla violenza esercitata anche da chi dovrebbe far rispettare le regole.

Perché anche questa è l’America, bellezza!

 

Rossana Cerretti



REVOLUTIONARY ROAD LA “RIVOLUZIONE” IMPOSSIBILE – L’impietoso diario di una coppia in crisi dal romanzo di Richard Yates

10 02 2009
revolutionary road1
«No, non sarà così per noi, noi siamo diversi, non annegheremo nella ruotine e nelle frustrazioni di tutti i giorni.»
La ricostituita coppia Kate Winslet – Leonardo di Caprio, diretta da Sam Mendes, questa volta ci parla ancora di sogni, ma sogni amari, inseriti in una quotidianità vera e angusta, quella dell’America anni ’50.
Così, dopo qualche anno di matrimonio, ecco affiorare l’insoddisfazione e lo scontro, la moglie April, che aveva cullato il suo desiderio di diventare attrice, è costretta ad ammettere di essere rimasta solo «una promessa» del teatro e nulla più; resta senza lavoro e finisce per interpretare il ruolo della "desperate housewife" a tempo pieno. Frank, il marito, che sognava un non meglio definito "lavoro creativo" ed eccitante, si abbruttisce dalla mattina alla sera nella stessa azienda dove aveva lavorato suo padre, quella nella quale aveva giurato che non avrebbe mai messo piede. Magari è più in su di un grandino, ma, in fondo, fa solo l’addetto alle vendite, un anonimo impiegato di cui nessuno si ricorderà.
Tutti, amici e conoscenti, stanno in una via residenziale periferica, Revolutianary Road, e il nome del luogo è l’unica cosa davvero rivoluzionaria di questa vita, nella quale ogni cosa appare immobile, finché April (per la quale Kate Wislet ha ricevuto il Golden Globe), non convince Frank a lasciare tutto e trasferirsi a Parigi, cambiare vita, insomma.
Tutti, amici e conoscenti, restano scioccati: perché si dovrebbe cambiare vita? Che follia è mai questa? Eppure c’è anche qualcuno che li invidia e qualcun altro, invece, che li capisce.
Peccato che l’unico a comprenderli sul serio – e non solo come atto di compatimento per la stravaganza di una giovane coppia con la testa fra le nuvole – sia «il matto del villaggio» con un dottorato in matematica, certo, ma anche 34 elettrochoc alle spalle.
April, però, appare convintissima e determinata: «In fondo – sostiene – tutti riconoscono la verità, anche quelli che la nascondono. Col tempo imparano soltanto a mentire meglio.»
Ma la società appare avvolgente prima come una chioccia e poi come un boa costrictor che abbraccia e stritola nelle sue spire, risucchia i due protagonisti: prima Frank accetta un avanzamento di carriera; poi April deve ammettere di essere incinta, anche se non vuole il bambino. Il viaggio a Parigi doveva essere anche un modo per sfuggire alla prospettiva di un altro figlio.
La reazione della donna è vissuta dal marito come un affronto, un’insensata fuga.
Frank parla e parla, ma per ascoltare solo se stesso. Meglio pensare che l’insoddisfazione di Kate nasconda qualcosa di patologico, da cura psichiatrica, perché così non dovrà fare i conti con la propria interiorità.
La conclusione è quasi inevitabile: di coloro che hanno cercato di cambiare quel mondo immobile, nessuno, alla fine, si ricorderà, se non come un’evanescente nostalgia irrealizzabile, come il sogno estivo di vivere a Parigi.


REVOLUTIONARY ROAD LA “RIVOLUZIONE” IMPOSSIBILE – L’impietoso diario di una coppia in crisi dal romanzo di Richard Yates

10 02 2009
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«No, non sarà così per noi, noi siamo diversi, non annegheremo nella ruotine e nelle frustrazioni di tutti i giorni.»
La ricostituita coppia Kate Winslet – Leonardo di Caprio, diretta da Sam Mendes, questa volta ci parla ancora di sogni, ma sogni amari, inseriti in una quotidianità vera e angusta, quella dell’America anni ’50.
Così, dopo qualche anno di matrimonio, ecco affiorare l’insoddisfazione e lo scontro, la moglie April, che aveva cullato il suo desiderio di diventare attrice, è costretta ad ammettere di essere rimasta solo «una promessa» del teatro e nulla più; resta senza lavoro e finisce per interpretare il ruolo della "desperate housewife" a tempo pieno. Frank, il marito, che sognava un non meglio definito "lavoro creativo" ed eccitante, si abbruttisce dalla mattina alla sera nella stessa azienda dove aveva lavorato suo padre, quella nella quale aveva giurato che non avrebbe mai messo piede. Magari è più in su di un grandino, ma, in fondo, fa solo l’addetto alle vendite, un anonimo impiegato di cui nessuno si ricorderà.
Tutti, amici e conoscenti, stanno in una via residenziale periferica, Revolutianary Road, e il nome del luogo è l’unica cosa davvero rivoluzionaria di questa vita, nella quale ogni cosa appare immobile, finché April (per la quale Kate Wislet ha ricevuto il Golden Globe), non convince Frank a lasciare tutto e trasferirsi a Parigi, cambiare vita, insomma.
Tutti, amici e conoscenti, restano scioccati: perché si dovrebbe cambiare vita? Che follia è mai questa? Eppure c’è anche qualcuno che li invidia e qualcun altro, invece, che li capisce.
Peccato che l’unico a comprenderli sul serio – e non solo come atto di compatimento per la stravaganza di una giovane coppia con la testa fra le nuvole – sia «il matto del villaggio» con un dottorato in matematica, certo, ma anche 34 elettrochoc alle spalle.
April, però, appare convintissima e determinata: «In fondo – sostiene – tutti riconoscono la verità, anche quelli che la nascondono. Col tempo imparano soltanto a mentire meglio.»
Ma la società appare avvolgente prima come una chioccia e poi come un boa costrictor che abbraccia e stritola nelle sue spire, risucchia i due protagonisti: prima Frank accetta un avanzamento di carriera; poi April deve ammettere di essere incinta, anche se non vuole il bambino. Il viaggio a Parigi doveva essere anche un modo per sfuggire alla prospettiva di un altro figlio.
La reazione della donna è vissuta dal marito come un affronto, un’insensata fuga.
Frank parla e parla, ma per ascoltare solo se stesso. Meglio pensare che l’insoddisfazione di Kate nasconda qualcosa di patologico, da cura psichiatrica, perché così non dovrà fare i conti con la propria interiorità.
La conclusione è quasi inevitabile: di coloro che hanno cercato di cambiare quel mondo immobile, nessuno, alla fine, si ricorderà, se non come un’evanescente nostalgia irrealizzabile, come il sogno estivo di vivere a Parigi.