IL GOSSIP DI “COSì E’ SE VI PARE” – Il dramma dell’io e la fiera delle vanità secondo Massimo Castri

9 01 2009
COSI_E_SE_VI_PARE 3
Va in scena in questi giorni al Teatro Sociale di Brescia un classico del teatro italiano: Così è se vi pare di Luigi Pirandello rivisitato per la terza volta in 28 anni dal regista Massimo Castri, autorevole e sensibile interprete dello scrittore siciliano,  in un’inedita e graffiante messa in scena.

LA MASCHERA, LA STORIA E LA FINZIONE
Uno spettacolo dai ritmi veloci, con grandi scene corali, dirette magistralmente, dove il «pubblico giudicante» sul palcoscenico è formato da maschere grottesche (di carattere infantile da personaggi dei cartoon) immerse in una festa carnevalesca senza fine, da paese dei balocchi.
Senza maschera si presentano, invece, i tre protagonisti, così come accade nei Sei personaggi in cerca d’autore, loro sì autentici, ma vittime delle proprie insanabili contraddizioni, segnati da traumi così profondi da aver bisogno di raccontarsi una verità contraddittoria e assolutamente antitetica per poter in qualche modo restare insieme. La loro unione si basa in fondo, su un assurdo logico, perché l’uomo quello vero, è un nodo che non si scioglie, definito da una narrazione di sé e degli altri segnata dall’incomunicabilità e dalla solitudine.
Ognuno ha bisogno di raccontare se stesso e elaborare le vicende degli altri per costruire un’interpretazione plausibile, una soluzione che consenta almeno in parte di accettare il reale, di far «quadrare» i conti.
Ma è una battaglia persa perché come sempre nella vita – almeno secondo Pirandello – i conti non tornano mai. Lo svelamento di questa visione relativistica e scettica, del non senso insito nella realtà, stordisce i componenti di questa «giuria» da baraccone, formata da alcuni esponenti della buona borghesia di provincia. Li sconvolge perché non possono accettare che non ci sia un bandolo della matassa e quindi una verità certa. Non si tratta, infatti, solo di un episodio, ma di una vicenda esemplare: ognuno vi percepisce la precarietà del nostro vivere quotidiano, travolto insieme alle nostre «infallibili» certezze. Ma sconvolge altrettanto, se non di più, gli astanti la scoperta che dentro questa famiglia esiste un trauma celato e inconfessabile che deve rimanere tale affinché il nucleo di affetti possa comunque sopravvivere.
E’ l’implicita ammissione che il modello di famiglia borghese è destinato di per sé al fallimento, perché vi si respira un’estraneità incolmabile di fondo: forse ci si ama, ma non ci si capisce affatto e si è comunque isolati seppure insieme nell’impossibilità di vivere davvero uniti.
Qui sta tutta la modernità dell’interpretazione di Massimo Castri il quale ha coinvolto in questo elaborato e difficile progetto registico un gruppo di brillanti giovani attori.

LE COSTANTI NELL’OPERA
All’interno del testo si possono rintracciare alcune costanti dell’arte e della poetica pirandelliana, rese ancor più evidenti dall’allestimento odierno. Per esempio, il ricorso palese alla maschera richiama, un’altra opera «in costume» cioè l’Enrico IV: in essa, infatti, oltre al fallimento del matrimonio, troviamo anche la presenza di due donne una più giovane ed una più vecchia che non dovrebbero mai stare insieme alla presenza del protagonista, perché il loro incontro è foriero di sventura.
In quel caso si tratta di madre e figlia e anche qui il personaggio principale, se nutre un affetto legato al passato per Matilde, in Frida si riconosce psicologicamente.
Anche in Così è se vi pare come in Enrico IV tutto resta «tranquillo» finché qualcuno, in questo caso Enrico stesso, accetta di essere considerato pazzo, ma solo per celare il vero trauma iniziale, cioè la scoperta da parte del protagonista di un tentato omicidio ai suoi danni e la successiva presa di coscienza che il suo assassino, se da un lato ha fallito, dall’altro gli ha davvero sottratto la vita.
I muri che il signor Ponza impone alle due donne della sua famiglia e a se stesso sono, in realtà, i recinti di un sé inconsistente che per esistere deve autoimporsi dei limiti e creare una «storia» accettabile che gli fornisca delle radici in cui riconoscersi.
Qualcosa che non è verità, è solo una forma di sé la quale nel momento in cui viene pensata e indossata va già stretta e mostra tutti i suoi limiti e le sue aporie.
castri01gIntorno maschere dai tratti animaleschi, ispirate alle caricature che lo stesso Pirandello spesso fornisce dei suoi personaggi: infatti, nelle sue novelle soprattutto, è facile riconoscere tratti somatici enfatizzati e vagamente ferini. Così Castri ribalta la situazione: l’uomo vero è colui che è privo di soluzione, gli altri sono le maschere, gli attori, concetto già espresso nei Sei personaggi.
E’ un’edizione di Così è se vi pare degna dell’epoca del gossip di cui facciamo parte, dove la gente mostra il suo morboso desiderio di sapere, di violare la privacy, di conoscere e scavare nelle pieghe della vita privata altrui… ma non c’è soluzione, non c’è verità e chi vive sulla propria pelle un dramma lo sa bene.
Quante interpretazioni si possono dare di un solo fatto traumatico della nostra esistenza – su motivazioni e reazioni, sentimenti e azioni – anche solo per esorcizzarlo! Ma chi è maschera, chi davvero recita solo una parte vuota di significato, ma piena solo del proprio ruolo sociale, vuole sapere, si ciba delle vite degli altri.

IPOTESI AUTOBIOGRAFICHE
Ci si domanda allora quale «trauma» possa nascondersi dietro la vicenda della signora Frola e del signor Ponza.
La risposta, forse ci viene dalle altre opere dell’autore e dalle testimonianze sulla sua vita privata, alcune, a quanto pare, scottanti, visto che risultano ancora oggi inedite per volontà degli eredi.
Nei testi pirandelliani la figura maschile spesso è violenta e tende a segregare o opprimere le donne presenti nell’opera; è il caso, ad esempio, de L’uomo la bestia e la virtù, ma anche nel Berretto a sonagli la giovane moglie viene schiacciata dal meccanismo che lei stessa ha messo in moto, per via del tradimento del marito. Anche nel Gioco delle parti alla fine, la pretesa libertà della protagonista si rivela fallimentare e porterà all’uccisione del suo amante, con notevole soddisfazione del marito di lei.
Nei Sei personaggi in cerca d’autore, poi, tutta la vicenda è determinata dall’insensata gelosia del padre il quale abbandona la madre credendola innamorata di un suo collega di lavoro.
pirandello1Emerge, quindi, anche la tematica della gelosia e della pretesa tutta pirandelliana di esaurire in un abbraccio mortale tutta la vita della moglie o compagna, disegnando così un profilo psicologico di carattere sado-masochistico latente.
Una visione ossessiva dell’amore che appare ben svelata dalla sua relazione con Marta Abba che l’autore quasi perseguitava con l’assiduità delle sue lettere e le sue profferte amorose.
Inoltre la vicenda narrata in Così è se vi pare apre molti dubbi sull’effettiva identità della signora Ponza, perché appunto, ella potrebbe essere sì la figlia della signora Frola, ma sicuramente quest’ultima non è la suocera di lui. Piuttosto, da come entrambi si comportano, potrebbe essere la madre del signor Ponza, se non addirittura la sua prima moglie. Nel primo caso si tratterebbe, quindi, di un incesto tra fratello e sorella, nel secondo, invece, tra padre e figlia. In effetti è noto dai documenti che Antonietta, moglie di Pirandello, nutriva una forte avversione, dettata dalla gelosia, per sua figlia Lietta, al punto da sostenere che quel rapporto privilegiato padre-figlia fosse tutt’altro che innocente. Così è se vi pare potrebbe far riferimento, quindi ad una vicenda almeno parzialmente autobiografica. Ipotesi da non sottovalutare visto che anche nell’Enrico IV e nei Sei personaggi si nota la presenza di tematiche simili dal momento che nel primo caso il protagonista si invaghisce della figlia della donna amata in passato, mentre nel secondo, rischia di avere un rapporto sessuale con lei.
 
La «verità», insomma, aveva portato probabilmente la famiglia dell’autore alla distruzione e per questo nella sua opera troviamo l’elogio delle «pietose bugie» dette, ripetute affabulate pur di rimanere insieme, bugie alle quali molto probabilmente lo stesso Pirandello si era abituato…
 


SE IO… SE LUI (O LEI)

26 12 2008
26 Settembre 2008
Quando un progetto di vita fallisce, quando l’amore è perduto, quando tutto sembra crollare come un castello di carte e la vita ci appare come l’inutile arrampicata su una montagna di sapone, molte sono le domande e poche, a volte davvero pochissime, le risposte… se io, se lui (lei)…
Si fanno mille ipotesi e nella mente si agitano altrettante giustificazioni per spiegare perché l’amore se n’è andato, perché quello che credevamo potesse accompagnarci per sempre invece è morto, perduto.
Ci sono responsabilità da attribuire ed esami di coscienza da fare. A volte si ignora che forse ciò che se n’è andato doveva semplicemente andarsene, perché questa era la sua natura. Nella nostra vita è molto più facile trovare ciò che finisce di ciò che è destinato a durare, questa è la legge del divenire, anche per noi stessi.
 
Questo mondo come goccia di rugiada,
è forse una goccia di rugiada
eppure – eppure…
 
Dura pochi istanti dopo il sorgere del sole, scivola dalle foglie alla terra, scompare così, ed è comunque bellissima.

Così scrisse Kobayashi Issa per il suo bambino morto, e non credo che non provasse dolore…

E’ umano il dolore, anche la sofferenza che vorremmo evitare lo è. Spesso si medita sui motivi e si scoprono responsabilità proprie e altrui. Nella maggior parte dei casi la nostra interiorità ci appare un labirinto sempre più inestricabile di "se io, se lei" o lui. E magari si dimenticano alcuni dati di fatto, come, per esempio, che si è accettata una relazione con una persona già impegnata, per sperare poi in chissà quali miracolosi cambiamenti in itinere, che in molti casi non si verificano. Spesso si parte già con compromessi di fondo, seguendo il sentimento del momento o semplicemente il vuoto doloroso e ingannevole della solitudine per poi scoprire troppo tardi che non conosciamo chi ci sta accanto… Ma ci interessava davvero conoscerlo?
O scopriamo che il suo modo di intendere la relazione era ben diverso dal nostro… Siamo davvero certi che prima non lo sapevamo?
Sicuramente, ad un certo punto, è necessario fare pace con il passato, accettare anche che cose e persone ci abbiamo abbandonato e lasciarle andare, ma lasciarle andare sul serio, anche staccandole dalla nostra mente. Altrimenti resteremo prigionieri dei nostri ricordi, talvolta al punto da non riuscire più a vivere il presente.
Sentinella quanto resta della notte?
C’è una via da percorrere, la via per capire il mondo e noi stessi, non è una via facile perché molto spesso possiamo comprendere chi siamo solo attraverso le esperienze, anche dolorose. Non dobbiamo però giudicarle solo dalla fine: anche la vita finisce eppure è ricca di una varietà infinita di esperienze e sarebbe molto riduttivo giudicarla solo dal suo termine.
Così è la nostra vicenda di uomini: ciò che abbiamo vissuto ci ha comunque cambiato, ma può diventare la nostra tomba oppure un dolore capace di farci approfondire il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri.
Auguro a me stessa che sia sempre così.
La gloria del mattino che risplende per un’ora
Non differisce in sostanza dal pino gigante,
Che vive mille anni.
Anche se a volte ci sembrano pochi anche mille anni….


LA MIA TERRA

26 12 2008

10 Settembre 2008

Qualche giorno fa un amico mi parlava delle Cinque Terre, cioè della mia terra, della sua forza e della sua tristezza. "Bellissima – mi ha detto – ma troppo triste, sembra di leggere continuamente una poesia di Montale…"
E’ vero, la mia terra non è fatta per gli idilli, rappresenta una lotta tra questa lingua di rocce scure coperte di agavi e pini abbarbicati e il mare e il vento che non la lasciano mai. Ma è come se il suo strano martirio fosse il retaggio dell’apertura a quell’infinito misterioso ed eterno che continuamente ritorna. Un amore che può non capire, ma che mai la abbandona…

cinque_terreAnche Eugenio Montale un giorno si sentì amato da questa distesa immensa e mutevole sovrastato da un oltre che non sapeva dire. 
Una poesia che dedico a tutti, musica di Michael Nyman compresa.

Dissipa tu se lo vuoi

questa debole vita che si lagna,

come la spugna il frego

effimero di una lavagna.

M’attendo di ritornare nel tuo circolo,

s’adempia lo sbandato mio passare.

La mia venuta era testimonianza

di un ordine che in viaggio mi scordai,

giurano fede queste mie parole

a un evento impossibile, e lo ignorano.

Ma sempre che traudii

la tua dolce risacca su le prode

sbigottimento mi prese

quale d’uno scemato di memoria

quando si risovviene del suo paese.

Presa la mia lezione

più che dalla tua gloria

aperta, dall’ansare

che quasi non dà suono

di qualche tuo meriggio desolato,

a te mi rendo, in umiltà. Non sono

che favilla d’un tirso. bene lo so: bruciare,

questo, non altro, è il mio significato 

(E. Montale)



LA MIA TERRA

26 12 2008

10 Settembre 2008

Qualche giorno fa un amico mi parlava delle Cinque Terre, cioè della mia terra, della sua forza e della sua tristezza. "Bellissima – mi ha detto – ma troppo triste, sembra di leggere continuamente una poesia di Montale…"
E’ vero, la mia terra non è fatta per gli idilli, rappresenta una lotta tra questa lingua di rocce scure coperte di agavi e pini abbarbicati e il mare e il vento che non la lasciano mai. Ma è come se il suo strano martirio fosse il retaggio dell’apertura a quell’infinito misterioso ed eterno che continuamente ritorna. Un amore che può non capire, ma che mai la abbandona…

cinque_terreAnche Eugenio Montale un giorno si sentì amato da questa distesa immensa e mutevole sovrastato da un oltre che non sapeva dire. 
Una poesia che dedico a tutti, musica di Michael Nyman compresa.

Dissipa tu se lo vuoi

questa debole vita che si lagna,

come la spugna il frego

effimero di una lavagna.

M’attendo di ritornare nel tuo circolo,

s’adempia lo sbandato mio passare.

La mia venuta era testimonianza

di un ordine che in viaggio mi scordai,

giurano fede queste mie parole

a un evento impossibile, e lo ignorano.

Ma sempre che traudii

la tua dolce risacca su le prode

sbigottimento mi prese

quale d’uno scemato di memoria

quando si risovviene del suo paese.

Presa la mia lezione

più che dalla tua gloria

aperta, dall’ansare

che quasi non dà suono

di qualche tuo meriggio desolato,

a te mi rendo, in umiltà. Non sono

che favilla d’un tirso. bene lo so: bruciare,

questo, non altro, è il mio significato 

(E. Montale)



LA VITA RUBATA – Ricordando

26 12 2008

 9 Agosto 2008

C_era una volta in America

«Che hai fatto in tutti questi anni? Sono andato a letto presto…»

Alcune battute di C’era una volta in America, sembrano quasi accompagnare la nostra vita, forse perché questo film più di qualsiasi altro rappresenta il confronto con un passato mitico che si scopre ad un certo punto del tutto diverso da quello che si era sempre creduto. A volte capita di accorgersi che la nostra vita ci è stata semplicemente portata via. Hanno vissuto al nostro posto ed ora ci stanno togliendo anche il mito del ricordo e della giovinezza. La ragazza che avevi sempre sognato, il tuo migliore amico, il grande amore che non è stato mai e una impossibile ascesa sociale che per qualcuno, invece, è stata possibile. Anche se il prezzo per ottenerla è quella fila di cadaveri sul ciglio della strada in una fredda serata di pioggia.
«Avevi gli occhi troppo pieni di lacrime per accorgertene…» Già, quante volte i nostri occhi sono stati così pieni di lacrime da non vedere che quello lì, abbandonato sul ciglio della strada, non era chi credevamo che fosse, ma soltanto la nostra illusione, dettata dai sensi di colpa.
Perciò, quando alla fine qualcuno ci dirà che si è portato via la nostra vita e che ha vissuto al posto nostro, mentre noi ci cibavamo di rimorsi e rimpianti gli risponderemo: «Vede senatore, avevo un amico una volta, un caro amico, ma è morto tanti anni fa… Buonanotte signor Bailey»


AMLETO NEL LABIRINTO DELLA COSCIENZA – Il nostro spettacolo

26 12 2008

 6 Giugno 2008

Amleto

Freddo, buio, l’aria gelida della notte avvolge le cose e sospinge i fantasmi del passato. All’ingannevole luce della luna, che colpisce di taglio le guardie del castello, un’ombra maestosa e superba, tutta armata semina il terrore tra le sentinelle di Helsinore. O forse è solo il pallido schermo di una nuvola a creare quell’illusione. Infine, non resta che il freddo tenebroso della notte e il lungo lamento del gufo. Il fantasma se n’è andato senza dire nulla, ma tornerà, tutti lo sanno, anche se nessuno osa parlarne ancora. Cerca suo figlio, è solo questione di tempo.

Ma già l’oltretomba vive nella mente del giovane Amleto: sebbene non lo sappia, quel buio si è impossessato della sua anima mobile e solare, poetica e innamorata. Gli immondi spiriti del Tartaro si avanzano lenti e inesorabili e alla fine lo afferreranno, lo incateneranno, in un modo che ancora non sospetta. E’ l’Amleto del laboratorio teatrale del Liceo Copernico diretto dal regista Fabio Banfo, rappresentato il mese scorso in due affollatissime repliche. In scena l’uso sapiente delle luci crea effetti chiaroscurali che subito introducono nel dramma e nel mistero della coscienza, tramutando il palcoscenico in un luogo rituale e ipnotico dove ognuno può ricercare i moti profondi dell’anima e il fondo oscuro del proprio essere. La regia corale, la concretezza visionaria, la continua ricerca di un "correlativo oggettivo" gestuale del sentimento, hanno reso lo spettacolo intenso e carico di energia.
L’indagine psicologica del protagonista è rigorosa e talvolta implacabile, esaltata dalla recitazione e dall’azione scenica incalzante. Tutto comincia con la morte improvvisa e prematura del padre, che ha lasciato Amleto in questo mondo senza potergli insegnare come agire, come difendersi, come comandare, visto che un giorno sarà il futuro re di Danimarca. Adesso è solo con se stesso, senza più una guida, ma con un imperativo categorico: "Ricordati di me".
E’ un giovane studente di filosofia alle prese con la morte: a che servono tutti i pensieri degli uomini e le loro velleità di potenza quando siamo soltanto una "quintessenza di polvere"? Amleto di fronte alla perdita del padre si accorge improvvisamente di una realtà che forse non aveva mai indagato a fondo: la certezza della propria fine, il dissolversi completamente, diventare cibo per vermi, e, finalmente, scoprire la vanità del tutto. Di fronte alla volta celeste trapunta di fuochi d’oro si chiede che senso abbia tutto questo, facendoci tornare alla mente certe domande leopardiane, così simili ai dilemmi del giovane personaggio di Shakespeare.
Amleto non solo è messo da parte, ma anche scavalcato. Da quella madre superficiale e infedele che senza scomporsi ha sposato il fratello del marito, cioè suo zio, dopo meno di due mesi di vedovanza.
Freddo, buio, le luci radenti che colpiscono come lame e caricano di ombre e chiaroscuri i volti e i gesti, dove più brilla il pugnale che Amleto, disperato e abbandonato, sembra voler usare contro se stesso. Quella sua camicia bianca emerge dal buio come una citazione caravaggesca, sfidando lo sguardo degli spettatori al pari di una staffilata, un desiderio di verità nel labirinto delle menzogne e del male che mangiamo tutti i giorni.
Il suo viso perde sempre di più la braveria sorridente dei vent’anni per diventare accusatore implacabile e sarcastico delle ipocrisie e dei misfatti degli uomini, anche dei suoi. Basta una rivelazione: c’è un assassino sotto il tuo stesso tetto, si è preso tutto, il trono, tua madre e la vita di tuo padre.
Il marcio è lì, sotto i suoi occhi, ma che fare? Come vendicarsi senza un punto di riferimento? L’abbraccio a quel padre che lo lascia solo è struggente, lo abbandona proprio ora che più avrebbe bisogno di lui. Solo con la sua mente ricca di sogni che sono diventati improvvisamente "brutti" a contatto con la realtà, infranti come la visione bellissima di Ofelia e del suo amore.
Così, l’abile tessitura dialettica della parola shakespeariana, la sua intrinseca passionalità, la potenza creativa dai molteplici sensi, la sua profondità insondabile capace di rivoltarci "gli occhi dentro l’anima" viene portata in scena dal protagonista in modo compiuto ed emozionante.
Intanto, nel cerchio magico e maledetto della tragedia viene attirata anche un’altra famiglia ignara di tutto: quella di Polonio, che alla fine risulterà a sua volta completamente distrutta. Banfo valorizza, anche attraverso la suggestiva recitazione degli interpreti, questo secondo "polo" tragico dell’opera nel quale il meccanismo perverso e fatale del destino stritola nei suoi ingranaggi le vittime inconsapevoli – Ofelia, Polonio, Laerte – per il fatto stesso di "essersi messe in mezzo".
Amleto non ha tempo di pensare a loro, deve guardarsi dai suoi assassini che ormai sono dappertutto, nascosti anche tra gli amici d’infanzia. E’ un uomo braccato, forte solo della sua verità e del disprezzo profondo della vita. Non gli importa più di vivere, purché, almeno per una volta, la sua giustizia possa trionfare.
Il mondo è solo una galera, perché non resta che far torto o patirlo.
E Amleto vuole capire, capire come va questo mondo, indaga, con la forza della disperazione e in questa ricerca, di cui in cuor suo conosce già l’esito infausto e terribile, rischia di perdere la ragione per davvero: perché come può un uomo essere tradito anche dalla propria madre e non diventare folle? Quanto più si rivela la sua raffinata abilità nello scoprire l’omicida tanto più cresce in lui il desiderio di porre fine a quell’orribile farsa. Una volta preso atto che il fantasma del padre aveva detto tutta la verità, che non ci si può più fidare di nessuno e l’esistenza è solo un ignobile gioco delle parti, cosa farsene di questa galera?
Il sangue scorre irrefrenabile nell’ecatombe finale, dove il re assassino viene "ucciso due volte" con la spada e il veleno perché di lui due volte dovrà gioire la morte.
Così lo spirito della tragedia accompagna da sempre la storia umana ed è questo che più ci affascina del grande affresco dell’anima e della passione che è Amleto.
"A noi Zeus diede sorte maligna, affinché fossimo anche in futuro, per la gente di là da venire, materia di canto" ci ammonisce la voce dell’antico cantore di Ilio.
Tutto il resto è silenzio.
Amleto1


FIGHT CLUB – Frugando nella poltiglia sanguinante dell’io

26 12 2008

28 Marzo 2008

fightclub

FIGHT CLUB – Recensione del film
Di recente mi è capitato di scrivere per un cineforum una recensione su un film ormai datato, ma, visto che mi pare discretamente riuscita, ve la propongo… Se qualcuno ha visto il film poi mi dirà la sua…

Fight Club
Frugando nella poltiglia sanguinante dell’io
Quando Fight Club è uscito nel 1999 è stato al centro di roventi polemiche e di giudizi non certo lusinghieri. La critica fu durissima, poiché venne considerato come la massima espressione del "politically uncorrect", tanto che dalla sinistra fu ritenuto un film neanche troppo velatamente fascista per l’esplosione di violenza gratuita che esprimeva, mentre da destra, certo, una tale problematica eccessivamente basata sulla coscienza e sulla folle dissociazione psicologica non poteva avere molta presa. Forse oggi, a distanza di tempo, anche avvalendoci dei riferimenti successivi, possiamo ritenere Fight Club come un anticipatore della tematica legata alla schizofrenia della realtà americana dalla sua stessa origine, sulla falsariga di Gangs of New York e del più recente The Departed (entrambi di Martin Scorsese). In effetti, il regista David Fincher, già noto per la straordinaria indagine psicopatologica di Seven, si dedica al difficile compito di approfondire la violenza traumatica di rapporti sociali sempre più autolesionistici e distruttivi e della comunicazione distorta dell’essere umano con se stesso. Un mondo alienato in cui una faccia appare complementare dell’altra poiché il sadismo e il masochismo si completano a vicenda e sono le due espressioni dell’incapacità di fondo di interagire con gli altri e con il proprio io in modo positivo. Tutti ne sono vittime, essendo schiavi del benessere e quindi del denaro che serve per ottenerlo, nonché del sistema di cui è espressione, perché "Le cose che possiedi, alla fine ti possiedono".
Un’implosione che non trova via di scampo, come i peccati di Seven, dai quali nessuno è esente e meno che mai coloro che dovrebbero far rispettare le regole. Forse perché anche le regole stesse sono violente, e il mondo è marcio e malato alle fondamenta. Certo, si potrebbe ripartire dai rapporti umani più semplici ed istintivi, quelli con l’altro sesso o con la compagnia di omologhi, ma tutto questo appare impossibile e precluso, come l’incomunicabilità tra due personalità che mai si incontrano. Una doppia vita espressione dei nostri tempi, una violenza bruta e primitiva, che diventa l’ultimo rifugio dell’io, l’estremo disperato tentativo di riconoscimento di se stessi, ma, alla fine, non è che la materializzazione concreta, ben più sottile ed essenziale, del meccanismo sociale.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk il quale ha affermato di essere rimasto pienamente soddisfatto del risultato ottenuto dal regista, considerando addirittura migliore la soluzione adottata a livello cinematografico per il finale.
Il cast è di tutto rispetto con un grande Edward Norton perfettamente calato nella parte dell’impiegato giunto oltre il limite della propria alienazione, una Bohnam Carter in inquietante versione dark, e l’irridente sicurezza di Brad Pitt che persegue il suo delirante progetto come la più naturale delle realtà. Unico neo del film, una trama talvolta fin troppo complessa al punto da apparire, in alcuni momenti quasi indecifrabile, forse perché il regista ha voluto approfondire contemporaneamente molte tematiche sociali e psicologiche tutte di grande impegno.