O COMPAGNI, CERTO NON SIAMO INESPERTI DI MALI…. – andare nella notte che ti avvolge scrutando delle stelle il tremolare

30 04 2009

Bisogna che lo affermi fortemente che, certo, non appartenevo al mare
anche se gli Dei d’Olimpo e umana gente mi sospinsero un giorno a navigare
e se guardavo l’isola petrosa, ulivi e armenti sopra a ogni collina
c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa, c’era l’anima mia che è contadina,
un’isola d’aratro e di frumento senza le vele, senza pescatori,
il sudore e la terra erano argento, il vino e l’olio erano i miei ori….

Ma se tu guardi un monte che hai di faccia senti che ti sospinge a un altro monte,
un’isola col mare che l’abbraccia ti chiama a un’altra isola di fronte
e diedi un volto a quelle mie chimere, le navi costruii di forma ardita,
concavi navi dalle vele nere e nel mare cambiò quella mia vita…
E il mare trascurato mi travolse, seppi che il mio futuro era sul mare
con un dubbio però che non si sciolse, senza futuro era il mio navigare…

Ma nel futuro trame di passato si uniscono a brandelli di presente,
ti esalta l’acqua e al gusto del salato brucia la mente
e ad ogni viaggio reinventarsi un mito a ogni incontro ridisegnare il mondo
e perdersi nel gusto del proibito sempre più in fondo…

E andare in giorni bianchi come arsura, soffio di vento e forza delle braccia,
mano al timone, sguardo nella prua, schiuma che lascia effimera una traccia,
andare nella notte che ti avvolge scrutando delle stelle il tremolare
in alto l’Orsa è un segno che ti volge diritta verso il nord della Polare.
E andare come spinto dal destino verso una guerra, verso l’avventura
e tornare contro ogni vaticino contro gli Dei e contro la paura.

E andare verso isole incantate, verso altri amori, verso forze arcane,
compagni persi e navi naufragate per mesi, anni, o soltanto settimane…
La memoria confonde e dà l’oblio, chi era Nausicaa, e dove le sirene?
Circe e Calypso perse nel brusio di voci che non so legare assieme,
mi sfuggono il timone, vela, remo, la frattura fra inizio ed il finire,
l’urlo dell’accecato Polifemo ed il mio navigare per fuggire…

E fuggendo si muore e la mia morte sento vicina quando tutto tace
sul mare, e maldico la mia sorte, non provo pace,
forse perché sono rimasto solo, ma allora non tremava la mia mano
e i remi mutai in ali al folle volo oltre l’umano…

La via del mare segna false rotte, ingannevole in mare ogni tracciato,
solo leggende perse nella notte perenne di chi un giorno mi ha cantato
donandomi però un’eterna vita racchiusa in versi, in ritmi, in una rima,
dandomi ancora la gioia infinita di entrare in porti sconosciuti prima….



QUALI COLOMBE DAL DISIO CHIAMATE… – pensando a quelle anime offense…

29 04 2009

Salve Regina coelorum (Burning the past) by Harry Gregson-Williams

«O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».

 
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.

«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.



SONO MORTI, ANZI, VIVI – 25 aprile 2009

26 04 2009

«Il ricordo. Non riesco a dimenticare i seicentomila ragazzetti che trent’anni fa hanno dato la loro cultura e la loro vita per salvare me e la mia cultura. Non dimentico un ragazzetto di diciotto anni che allora si fece sgozzare da un soldato straniero per garantirmi un pezzo di terra su cui essere poeta. Io questo non posso dimenticarlo e sono infelice perché sono vivo e loro no, ma non faccio dei blues dentro di me, che mi porto dentro da trent’anni. Loro hanno salvato la mia terra e la mia cultura, mi hanno fatto conoscere la preghiera e grazie a loro oggi sono bello, bellissimo, il più bravo e non perdono»

Con questa frase di Piero Ciampi ieri sera Vinicio Capossela ha cominciato il suo concerto del 25 aprile  in piazza Garibaldi a Parma. Voglio dedicarla a chi era con me ieri sera e all’amico che proprio oggi mi ha aggiunto e che ricambio di cuore. Se lo conosco un po’,  credo la apprezzerà.

 

Gli dedico anche questa canzone di Capossela che mi ha fatto venire i brividi…

   

Ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade più nulla per un’altra ora: sembra che si aspetti qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l’un l’altro sogghignando; nasce in noi un’ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l’altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque: camminano con un’andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara. (Primo Levi, Se questo è un uomo)

Suona la banda prigioniera
suona per me o per te
eppure è dolce nella sera
il suono aguzzo sul n
ostro cuor
cade la neve senza rumore
sulle parole cadute già

fino nel fondo della notte
che qui ci inghiotte e non tornerà
il passo d’oca che mai riposa
spinge la giostra, spinge la ruota
con i bottoni e coi maniconi
marciano i suoni vengon per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
nella cenere ancor
suona Rosamunda
suona che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere allor
si bruci il circo si bruci il ballo
e le divise ubriache d’amor
che ritorni più a luce ili sole
che ritorni più luce per noi
le marionette marciano strette
dentro la notte tornan per noi

suona Rosamunda
suona che mi piaci
suonano i tuoi baci
come fuoco d’amor
brucia Rosamunda
brucia che mi piaci
brucino i tuoi baci
nella cenere ancor



VITA E MORTE DI UN GLADIATORE DEI POVERI – Mickey Rourke interpreta se stesso in «The Wrestler»

20 04 2009
the_wrestler_mickey_rourke«The Wrestler» è un film intenso, potentemente segnato dalla forza autobiografica dell’interpretazione di Mickey Rourke, attore geniale e folle, circondato, giustamente, dall’aura del «maledetto», alternativamente nella polvere e sugli altari dei media e della critica.
Il film di Darren Aronofsky non racconta di un «buono» messo da parte dalla società, ma di un uomo pieno di contraddizioni, che in qualche modo si è anche autoescluso dalla vita comune e che prova a risalire la china, procedendo per tentativi difficili e stentati, cercando risposte dove risposte non ci sono più. Segnato da quella solitudine che egli stesso si è scelto, è animato da un’ansia autodistruttiva che neanche lui sa da dove provenga, da quale parte nascosta del suo essere derivi. Il suo desiderio evidente di autopunizione gli fa il vuoto intorno e crea il deserto anche dentro di lui. La sua unica famiglia, votata al massacro, è quella dei lottatori, di coloro che, come lui, cercano una sorta di riscatto nella battaglia all’ultimo sangue davanti ad un pubblico. Si tratta di una sindrome del gladiatore vecchia maniera, perché, al di là della possibilità di mettersi d’accordo sui colpi e le mosse con gli amici- rivali di sempre, poi sul ring il massacro è assicurato in ogni caso, e le botte, le violenze gratuite, le follie sanguinarie, alla fine, sono sufficientemente vere da provocare danni fisici gravi e permanenti.
Sono le ferite indelebili di un uomo che ha rinunciato a tutto per il boato della folla, che sa solo essere un guerriero e che non può, non sa fare altro. Un guerriero dei poveri, i quali lo guardano come se fosse l’espressione del loro desiderio di rivincita, visto che non deve faticare tutti i giorni dietro un bancone per vivere; in realtà è un uomo prigioniero del mito che insegue, della sua autolesionistica, personale ribellione. Tutti i tentativi di cambiare vita si infrangono contro quel desiderio irrefrenabile ed inconscio di autodistruzione. Così le ferite che anche gli altri si portano dentro finiscono per prevalere, i loro mondi già così fragili vanno in mille pezzi contro quel muro di corde e botte, di ovazioni e fischi, di sangue e dolore che resta incomunicabile ai più e che continua a divampare nella vita di questi lottatori estremi: molti, ormai, sono su una sedia a rotelle, deformi e sciancati, ma sembra che a loro non importi. Alla fine non si sa resistere a quel richiamo, come ad un istinto ancestrale da uomini primitivi, come se la lotta e la violenza fossero l’unica dimensione di libertà in un mondo avvilente. «Come la Passione di Cristo» di Mel Gibson commenterà ad un certo punto la spogliarellista che vive una tormentata relazione con il protagonista.
Le ferite di Randy prima ancora che esteriori sono tutte interiori, e si materializzano in quella casa vuota, in quella specie di roulotte prefabbricato che talvolta non ha neppure i soldi per pagarsi ed è costretto a dormire in macchina.
Tutto sembra cambiare, ma tutto diventa scivoloso, come un’insormontabile montagna di sapone… e alla fine l’unica cosa reale di una vita passata a combattere resta quel ring: vita e morte dell’ultimo vero gladiatore.


“L’amore ond’ardo” – Il fuoco inestinguibile delle passioni nel “Trovatore”

14 04 2009

Trovatore

«Il Trovatore» è la tragedia del fuoco, ovunque divampa in modi diversi, ma sempre feroce e autodistruttivo. Sono i gitani, il signori del fuoco, uomini reietti e fatati, che lo usano per forgiare i metalli, ma anche per le loro magie e le loro vendette. Essi animano mirabilmente le parti corali dell’opera, che sono tra le più belle della produzione verdiana. E’ questa l’altra essenziale caratteristica di questo melodramma «popolare», come dimostrano anche la scena iniziale e le parti dedicate alle schiere dei due eserciti in lotta.
Come in certi canti della Divina Commedia, anche nel libretto di Salvatore Cammarano un’unica immagine simbolica dà forma a tutte le altre. Il fuoco dell’odio e dell’amore, della crudeltà e del dolore, del supplizio finale e della guerra. La fiamma che tutto arde e riduce in cenere.
A evocarlo involontariamente è quella sorta di danza delle streghe intonata da Ferrando all’inizio dell’opera, con un andamento che ricorda un girotondo ritmico e che evoca anche nelle parole la leggenda del fantasma della zingara maledetta, condannata al rogo e di sua figlia, rea di avere per vendetta sacrificato addirittura un bambino, il figlio del conte che ha rapito.
«È credenza che dimori
Ancor nel mondo l’anima perduta
Dell’empia strega, e quando il cielo è nero
In varie forme altrui si mostri.»
Esseri fatati gli zingari, le loro leggi sono diverse da quelle degli altri uomini, così come il loro modo di reagire selvaggio e imprevedibile: la figlia Azucena, in realtà, ha gettato come in stato di trance il proprio figlio nel fuoco al posto del bambino rapito e così si è compiuto lo scambio. Un errore fatale, voluto dalla presenza oscura della madre che sembra assetata di una vendetta esemplare: non le basta vendicarsi prendendo una vita sola per la propria, ma tutta la casa del Conte dovrà cadere nella rovina.
Il cerchio di fuoco si stringe intorno alla famiglia del Conte di Luna a sua insaputa, e la danza si fa sempre più vorticosa e terribile. I due fratelli ignari di essere consanguinei, vivono una violenta e crudele passione amorosa, entrambi per la stessa donna, una passione che è inferiore soltanto al desiderio reciproco di vendetta e di vedere morto l’altro contendente. Si direbbero davvero vittime di un incantesimo maligno.
Le forze oscure dell’oltretomba, ormai uscite allo scoperto, suscitano casi sempre più drammatici: Azucena presunta madre di Manrico, viene riconosciuta da Ferrando e condannata a sua volta al rogo. Manrico, come in ogni tragedia che si rispetti, corre in suo aiuto deciso a liberarla o a vendicarla.
Come sempre accade in questi casi, l’odio divora l’amore e la prima vittima è proprio la dolce e sognatrice Leonora: Manrico la abbandona così all’altare, facile preda del Conte di Luna e dei suoi ricatti. Il Trovatore, infatti, è un uomo coraggioso, ma un pessimo soldato. Guidato più dall’istinto e dalle emozioni che si susseguono frenetiche che dalla ragione e dal realismo, alla fine, viene fatto a sua volta prigioniero. Il Conte di Luna ora più che mai vuole la sua testa, lo ha giurato fin dall’inizio quando ha subito l’affronto più grande: essere scambiato per il Trovatore e poi essere respinto da Leonora, quasi con violenza, senza alcuno scrupolo se non quello dell’amore per il suo rivale. «Un accento proferisti che a morir lo condannò» urla pazzo di dolore, e così sarà, come in un giuramento a se stesso. Non serve, per lui pensare di stare abusando del proprio potere per frenarsi. La sua indomita passione per Leonora sembra fargli dimenticare tutto: dice di vederla come una stella che lo illumina (Il balen del suo sorriso D’una stella vince il raggio!) ma dentro di sé cova un profondo risentimento, pronto a scoppiare.
Sarà proprio il Conte con la sua passione amorosa senza freni e il suo odio contro Manrico a decretare la fine anche della sua stessa famiglia: Leonora per non cadere nelle sue mani si avvelena e il Trovatore subito dopo viene giustiziato. Su tutti domina la figura di Azucena, che gli dei lasciano dormire, di un sonno tutt’altro che provvidenziale – degno di un’opera omerica – quasi non fosse partecipe della vicenda. In realtà è lei l’artefice di tutto, combattuta com’è tra l’affetto che in qualche modo prova per quel figlio non suo e le parole indelebili della madre «Mi vendica!». L’immagine incancellabile del suo supplizio con le chiome ridotte in faville e gli occhi che schizzano dalle orbite la perseguita senza tregua. Alla fine è la vendetta a prevalere e la violenza folle non risparmia neppure l’amore di Leonora e Manrico il quale prima la maledice e poi, ma troppo tardi, si pente: «Insano, ed io quest’angelo osava maledir». Il cerchio di fuoco si stringe intorno ai protagonisti. Alla fine non resta di amore e dolore, di vendetta e odio, di magia e passione che un cumulo di cenere fumante…


LA TUA LIBERTA’ – Un inedito di francesco Guccini

14 04 2009

Un Guccini d’annata con un inedito del ’71, che non dimostra affatto il tempo passato, ma anzi, risulta ancora attualissimo

Oltre le mura
della città
un orizzonte insegue un orizzonte;
a un’autostrada, un’altra seguirà,
gli spazi sono fatti per andare;
la tua libertà,
se vuoi, la puoi trovare.
E un uomo saggio
regole farà,
una prigione fatta di parole;
i carcerieri
di una società
ti impediranno di cercare il sole;
la tua libertà,
se vuoi, la puoi avere.

Fossi un uccello
alto nel cielo
potrei volare senza aver padroni;
se fossi un fiume
potrei andare
rompendo gli argini nelle mie alluvioni

E boschi e boschi
cerco attorno a me
dov’è la terra che non ha barriere?
dov’è quel vento
che ci spingerà
come le vele o le bandiere;
la tua libertà
se vuoi la puoi avere.
Fossi un uccello
alto nel cielo
potrei volare senza aver padroni;
se fossi un fiume
potrei andare
rompendo gli argini nelle mie alluvioni

Ma sono un uomo
uno fra milioni
e come gli altri ho il peso della vita
e la mia strada
lungo le stagioni
può essere breve, ma può essere infinita;
la tua libertà
cercala, che si è smarrita.
cercala, che si è smarrita



PIANGI ROMA – BAUSTELLE

12 04 2009
Un’altra bella canzone dei Baustelle dalla colonna sonora del film "Giulia non esce la sera" con Valeria Golino e Valerio Mastrandrea

PIANGI ROMA

Mi manchi tu, la fantasia,
il cinema, l’estate indiana,
mi servi tu, un brivido,
il ghiaccio nel campari soda.

Fumo un’altra sigaretta,
perché è facile buttarsi via,
respiro e scrivo,
tutto quello che mi manca
è un’assurda specie di preghiera,
che sembra quasi amore…

Piangi Roma,muori amore,
splendi sole, da far male.
ho già fatto le valigie,
ma rimango ad aspettare.

Ridi Roma, ridi amore,
dice il telegiornale,
che la fine si avvicina,
io m’invento un gran finale.

Mi manchi tu, la libertà,
tanti LP, Battisti e Mina,
mi servi tu, la malattia,
che spazza via, la razza umana.

Chiudo con le sigarette,
un ragazzo in strada scappa via,
e metto in lista
tutto quello che mi manca,
e mi sembra quasi una preghiera,
oppurefolle amore.

Piangi Roma, muori amore,
tutto il bene che so dare,
come il sasso e la fontana,
si consuma, si consuma.

Ridi Roma, godi amore,
nonostante il temporale,
metto i panni ad asciugare
piangi Roma, ti fa bene…



Quem queritis? – Chi cercate?

11 04 2009

 L

 Chi cercate? Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato

E’ vivo cercatelo tra i vivi…

 

Altarpiece of Holy Sepulcher Discesa agli Inferi

 

La vita e la morte si affrontano oggi in un prodigioso duello, il Signore della vita morto, regna vivo

Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus.

Dic nobis Maria, Quid vidisti in via?

Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis…

 

Victimae Paschali laudes immolent Christiani.

Agnus redemit oves: Christus innocens Patri reconciliavit peccatores.

Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus.

Dic nobis Maria, Quid vidisti in via?

Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis,

Angelicos testes, sudarium et vestes.

Surrexit Christus spes mea: praecedet suos in Galilaeam.

[Credendum est magis soli Mariae veraci Quam Judaeorum Turbae fallaci.]

Scimus Christum surrexisse a mortuis vere: Tu nobis, victor Rex miserere

Amen. Alleluia.

(sequenza del giorno di Pasqua sec. XI)

Alla vittima pasquale i cristiani innalzino il sacrificio di lode,

l’agnello ha redento le pecore, Cristo innocente ha riconciliato i peccatori col Padre.

La morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita morto, regna vivo.

Dicci, o Maria, cosa vedesti sulla via?

Il sepolcro del Cristo vivente e la gloria di colui che risorge;

gli angeli testimoni, il sudario e le vesti;

[Dobbiamo credere alla sola veritiera Maria Maddalena che alla turba fallace dei Giudei]

E’ risorto Cristo, mia speranza e precede i suoi in Galilea.

Sappiamo che Cristo è veramente risorto dalla morte. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi.

Amen. Alleluia.

 



E DISCESE NEGLI INFERI… Sabato santo

11 04 2009

ET PORTAE INFERI NON PRAEVALEBUNT

Cristo apre le porte degli Inferi - San Salvatore in Chora Istanbul

Cristo spalanca le porte degli Inferi e porta con sé i giusti

Una visione di speranza nel dolore di questi giorni

 

exspolians principatus et potestates, scilicet infernales, auferendo Isaac et Iacob et ceteros iustos, traduxit eos, idest, longe ab hoc regno tenebrarum ad caelum duxit

Discesa di cristo al Limbo



CHI SEI TU?

7 04 2009

piero della francesca resurrezione

 

A me piace pensarlo così, risorto con i piedi ben piantati sulla terra ad affermare quello che da sempre è l’unità totale della realtà e la sua inscindibile divinità. Non si può uccidere l’immortale.

piero della francesca battesimo

 

L’espressione perfetta dell’immagine divina del’uomo

 

San Francesco predica agli uccelli

 

Immagine dell’estrema compassione per tutti gli esseri viventi

 

icona russa storie della vita di cristo 

C’è sempre una sola casa da riparare: il proprio cuore