NATO SUL PALCOSCENICO – Un ricordo del grande attore Giulio Bosetti e del suo amore per il teatro

4 01 2010
Dal 12 al 24 gennaio al Teatro Quirino di Roma andrà in scena «Sei personaggi in cerca d’autore» di Luigi Pirandello prodotto dalla Compagnia del Teatro Carcano di Milano per la regia di Giulio Bosetti. Un’occasione per ricordare questo grande attore che ci ha lasciati poco prima di Natale e poter assistere ancora una volta ad una delle sue opere più applaudite degli ultimi anni.
 
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Con Giulio Bosetti scompare un pezzo di storia del teatro italiano e uno dei più grandi interpreti dell’opera di Pirandello di cui, in 60 anni di carriera, aveva messo in scena tutti i titoli più prestigiosi molte volte. Tra i suoi spettacoli più famosi e di recente riproposizione ricordiamo, oltre al già citato «Sei personaggi», «Il berretto a sonagli» e «Così è se vi pare».

Il suo non era un teatro urlato né eccessivamente vistoso o istrionico. Il suo modo di interpretare i testi surreali e paradossali del grande scrittore agrigentino, coinvolgeva lo spettatore nel profondo della coscienza e i drammi diventavano toccanti e forse ancora più incisivi, proprio per quella recitazione quasi sommessa e senza forzature, ma che colpiva le nostre emozioni più segrete. Come nella sua indimenticabile interpretazione del Ciampa del «Berretto a sonagli» di qualche anno fa di cui aveva colto tutte le sfumature: dal triste «uomo in grigio» senza ambizioni al beffardo e cinico conoscitore di una società rigida nelle sue perbenistiche convenzioni; dal marito becco e rassegnato che non rinuncia, però, a quella moglie quasi segregata, alla vigliaccheria del dipendente, al quale, in fondo, va bene che tutto resti com’è sempre stato.
Il suo nome è legato a tutto il teatro classico italiano nel suo complesso, considerando che la sua ultima grande interpretazione è stata il «Sior Todero brontolon» del Goldoni, lasciandoci con l’immagine del vecchio avaro e folle che si crede immortale. «Un po’ come tutti noi» aveva commentato Bosetti in un’intervista, a chi gli chiedeva perché questo personaggio così «selvadego» non riesca ad esserci antipatico, nonostante tutti i suoi macroscopici difetti e le sue patetiche ottusità. Da Moliere a Sartre, da Eliot a Beckett e Kafka, il suo è un repertorio vastissimo.
Del resto, a teatro Bosetti ci è nato:vede la luce, infatti, nel 1930, in una casa situata sopra il Teatro Duse di Bergamo, fatto costruire dal nonno, apprezzato impresario teatrale. In seguito, dopo gli studi all’Accademia «Silvio D’Amico» viene notato da Giorgio Strehler che lo vuole a lavorare con lui al Piccolo Teatro; successivamente recita con Vittorio Gassman nella sua tournèe dedicata all’«Oreste» di Vittorio Alfieri. Collabora poi a lungo con il Teatro Stabile di Trieste mettendo in scena diversi testi di Ionesco che conoscerà anche personalmente. Altri suoi cavalli di battaglia saranno poi le opere di Anton Cechov, prima fa tutte la bellissima «Il gabbiano». Nel frattempo riscuote un grande successo con una serie di sceneggiati televisivi tra i quali ricordiamo il mitico «Malombra» con Marina Malfatti e la «Vita di Leonardo da Vinci» con Philippe Leroy. 
Negli anni ‘70, inoltre, fonda la cooperativa del Teatro Mobile, poi Compagnia Giulio Bosetti, alla quale collaboreranno molte personalità del teatro italiano, come Gabriele Lavia e Marco Sciaccaluga. Negli ultimi anni era stato nominato direttore artistico del Teatro Carcano di Milano, che aveva salvato dalla chiusura, perché, come egli stesso raccontava, il suo destino, altrimenti, sarebbe stato quello di diventare un garage. Tra le sue numerose interpretazioni per il cinema, ricordiamo le più recenti in alcuni film di importanti registi come «Il cuore altrove» di Pupi Avati, «Buongiorno notte» di Marco Bellocchio e «Il divo» di Paolo Sorrentino. Nel maggio scorso stava ancora lavorando ai «Dialoghi con Socrate» , sempre al Carcano.
Il suo era un teatro senza fronzoli né barocchismi che mirava all’essenziale e al concreto. Bosetti faceva suo anche il suggerimento tutto pirandelliano di evitare una recitazione troppo emotiva per spingere, invece, alla riflessione. Un anti-istrione, quindi, che si imponeva in scena con quella sua figura ossuta e quasi ascetica, dall’atteggiamento severo e che non faceva sconti allo spettatore in cerca di facili verità.
Proprio per questo era anche estremamente versatile e poteva interpretare ruoli totalmente diversi del «buono» come del «cattivo». Per lui il teatro era un luogo di amore e di incontro, dove la coscienza non si sentiva più sola, ma accompagnata verso la propria analisi interiore. Se il teatro «non ci fosse saremmo tutti più soli» era solito dire.


La Giara: dal teatro al cinema – Un Pirandello “siciliano” ed enigmatico

13 12 2009
Pubblico una recensione veramente notevole di un mio alunno su uno spettacolo per le scuole realizzato di recente a Brescia dalla Compagnia Italiana di Prosa. Il motivo di interesse risiede dell’interpretazione di questo originale ed enigmatico testo pirandelliano e anche nella trasposizione cinematografica, particolarmente riuscita, da parte dei fratelli Taviani.
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Don Lollò contro Zi’ Dima, l’arroganza e la prepotenza del ricco si contrappongono alla tradizione popolare tramandata nei secoli: questa è La Giara, atto unico (tratto da una delle Novelle per un anno) di L. Pirandello, andato in scena nei giorni scorsi al Teatro S. Afra di Brescia.
L’opera dello scrittore agrigentino rappresenta perfettamente la realtà contadina e la mentalità del popolo siciliano attraverso la descrizione dell’annoso scontro tra le classi sociali, impersonate dal potente ma avido proprietario terriero (Don Lollò) e dall’umile ma abilissimo «conciabrocche» (Zi’ Dima).
La trama è estremamente semplice e conosciuta: la nuova giara comprata da Don Lollò per contenere l’olio prodotto dai suoi immensi poderi si rompe misteriosamente nella notte. Viene quindi convocato Zi’ Dima per ripararla ma la prepotenza del latifondista e la sua mancanza di «buon senso» fanno infuriare l’artigiano che, non avendo ben calcolato le misure dell’apertura del recipiente, ne rimane incastrato all’interno.
Si viene così a creare una situazione assurda, un equivoco che esaspera la contraddizione tra i due personaggi e la rende quasi paradossale, in stile tipicamente pirandelliano.
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La Compagnia Italiana di Prosa sottolinea questi aspetti proponendo un interessante confronto tra il testo teatrale di Pirandello e la sua trasposizione cinematografica all’interno del film Kaos dei fratelli Taviani. Lo spettatore è quindi spronato continuamente a riflettere sulla differenza tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico, individuando somiglianze e differenze.
Se l’episodio dei fratelli Taviani punta sul fascino del paesaggio siciliano e sull’aspetto corale della vicenda, evidenziando la contrapposizione fra due classi sociali anche numericamente molto differente, l’allestimento della Compagnia Italiana di Prosa si affida alla bravura e alla presenza scenica degli attori per valorizzare il significato delle parole pirandelliane. Proprio per rendere efficacemente l’idea di coralità, tanto importante in Kaos, vengono inserite delle parti cantate dagli stessi attori, che spezzano a più riprese la tensione drammatica del testo originale.
Questa continua suddivisione di una vicenda che nella concezione pirandelliana dovrebbe costituire un episodio unitario sminuisce notevolmente il fascino dei dialoghi e delle azioni originali, a vantaggio di alcune figure minori, la cui importanza risulta notevolmente accresciuta nella rappresentazione.
Anche la stessa giara, il contenitore del lavoro del popolo, sfruttato dai ricchi proprietari terrieri, perde il suo profondo valore simbolico e resta un puro e semplice oggetto.
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Nell’allestimento della Compagnia Italiana di Prosa l’aspetto di maggiore importanza pare essere quello tragicomico, che invece nell’opera di Pirandello è strettamente subordinato a un’attenta riflessione sociale. L’opera dei Taviani, invece, evidenzia meglio lo spirito originale dell’atto unico, lasciando l’aspetto comico all’abilità dei celebri F. Franchi e C. Ingrassia, che interpretano con grande efficacia ruoli per loro inediti.
Il coraggio di Zi’ Dima che riesce a rompere l’antico equilibrio tra il silenzio del popolo e la chiassosa supponenza di Don Lollò, mostrando l’infelicità e la povertà d’animo del padrone, non traspare nella messa in scena teatrale, facendo sì che si perda gran parte del fascino originale dell’opera.
Lo spettacolo della Compagnia Italiana di Prosa è quindi efficace solo per certi aspetti e profondamente carente per altri, risultando, in definitiva, piuttosto superficiale, nonostante la bravura degli attori coinvolti. Il suo merito principale è probabilmente quello di mostrare al pubblico l’ottima scena di Kaos, che rende efficacemente molti aspetti della Giara pirandelliana offrendo un acuto confronto con testi simili come La Roba di G. Verga.
 
Lorenzo Sarnataro


IL GOSSIP DI “COSì E’ SE VI PARE” – Il dramma dell’io e la fiera delle vanità secondo Massimo Castri

9 01 2009
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Va in scena in questi giorni al Teatro Sociale di Brescia un classico del teatro italiano: Così è se vi pare di Luigi Pirandello rivisitato per la terza volta in 28 anni dal regista Massimo Castri, autorevole e sensibile interprete dello scrittore siciliano,  in un’inedita e graffiante messa in scena.

LA MASCHERA, LA STORIA E LA FINZIONE
Uno spettacolo dai ritmi veloci, con grandi scene corali, dirette magistralmente, dove il «pubblico giudicante» sul palcoscenico è formato da maschere grottesche (di carattere infantile da personaggi dei cartoon) immerse in una festa carnevalesca senza fine, da paese dei balocchi.
Senza maschera si presentano, invece, i tre protagonisti, così come accade nei Sei personaggi in cerca d’autore, loro sì autentici, ma vittime delle proprie insanabili contraddizioni, segnati da traumi così profondi da aver bisogno di raccontarsi una verità contraddittoria e assolutamente antitetica per poter in qualche modo restare insieme. La loro unione si basa in fondo, su un assurdo logico, perché l’uomo quello vero, è un nodo che non si scioglie, definito da una narrazione di sé e degli altri segnata dall’incomunicabilità e dalla solitudine.
Ognuno ha bisogno di raccontare se stesso e elaborare le vicende degli altri per costruire un’interpretazione plausibile, una soluzione che consenta almeno in parte di accettare il reale, di far «quadrare» i conti.
Ma è una battaglia persa perché come sempre nella vita – almeno secondo Pirandello – i conti non tornano mai. Lo svelamento di questa visione relativistica e scettica, del non senso insito nella realtà, stordisce i componenti di questa «giuria» da baraccone, formata da alcuni esponenti della buona borghesia di provincia. Li sconvolge perché non possono accettare che non ci sia un bandolo della matassa e quindi una verità certa. Non si tratta, infatti, solo di un episodio, ma di una vicenda esemplare: ognuno vi percepisce la precarietà del nostro vivere quotidiano, travolto insieme alle nostre «infallibili» certezze. Ma sconvolge altrettanto, se non di più, gli astanti la scoperta che dentro questa famiglia esiste un trauma celato e inconfessabile che deve rimanere tale affinché il nucleo di affetti possa comunque sopravvivere.
E’ l’implicita ammissione che il modello di famiglia borghese è destinato di per sé al fallimento, perché vi si respira un’estraneità incolmabile di fondo: forse ci si ama, ma non ci si capisce affatto e si è comunque isolati seppure insieme nell’impossibilità di vivere davvero uniti.
Qui sta tutta la modernità dell’interpretazione di Massimo Castri il quale ha coinvolto in questo elaborato e difficile progetto registico un gruppo di brillanti giovani attori.

LE COSTANTI NELL’OPERA
All’interno del testo si possono rintracciare alcune costanti dell’arte e della poetica pirandelliana, rese ancor più evidenti dall’allestimento odierno. Per esempio, il ricorso palese alla maschera richiama, un’altra opera «in costume» cioè l’Enrico IV: in essa, infatti, oltre al fallimento del matrimonio, troviamo anche la presenza di due donne una più giovane ed una più vecchia che non dovrebbero mai stare insieme alla presenza del protagonista, perché il loro incontro è foriero di sventura.
In quel caso si tratta di madre e figlia e anche qui il personaggio principale, se nutre un affetto legato al passato per Matilde, in Frida si riconosce psicologicamente.
Anche in Così è se vi pare come in Enrico IV tutto resta «tranquillo» finché qualcuno, in questo caso Enrico stesso, accetta di essere considerato pazzo, ma solo per celare il vero trauma iniziale, cioè la scoperta da parte del protagonista di un tentato omicidio ai suoi danni e la successiva presa di coscienza che il suo assassino, se da un lato ha fallito, dall’altro gli ha davvero sottratto la vita.
I muri che il signor Ponza impone alle due donne della sua famiglia e a se stesso sono, in realtà, i recinti di un sé inconsistente che per esistere deve autoimporsi dei limiti e creare una «storia» accettabile che gli fornisca delle radici in cui riconoscersi.
Qualcosa che non è verità, è solo una forma di sé la quale nel momento in cui viene pensata e indossata va già stretta e mostra tutti i suoi limiti e le sue aporie.
castri01gIntorno maschere dai tratti animaleschi, ispirate alle caricature che lo stesso Pirandello spesso fornisce dei suoi personaggi: infatti, nelle sue novelle soprattutto, è facile riconoscere tratti somatici enfatizzati e vagamente ferini. Così Castri ribalta la situazione: l’uomo vero è colui che è privo di soluzione, gli altri sono le maschere, gli attori, concetto già espresso nei Sei personaggi.
E’ un’edizione di Così è se vi pare degna dell’epoca del gossip di cui facciamo parte, dove la gente mostra il suo morboso desiderio di sapere, di violare la privacy, di conoscere e scavare nelle pieghe della vita privata altrui… ma non c’è soluzione, non c’è verità e chi vive sulla propria pelle un dramma lo sa bene.
Quante interpretazioni si possono dare di un solo fatto traumatico della nostra esistenza – su motivazioni e reazioni, sentimenti e azioni – anche solo per esorcizzarlo! Ma chi è maschera, chi davvero recita solo una parte vuota di significato, ma piena solo del proprio ruolo sociale, vuole sapere, si ciba delle vite degli altri.

IPOTESI AUTOBIOGRAFICHE
Ci si domanda allora quale «trauma» possa nascondersi dietro la vicenda della signora Frola e del signor Ponza.
La risposta, forse ci viene dalle altre opere dell’autore e dalle testimonianze sulla sua vita privata, alcune, a quanto pare, scottanti, visto che risultano ancora oggi inedite per volontà degli eredi.
Nei testi pirandelliani la figura maschile spesso è violenta e tende a segregare o opprimere le donne presenti nell’opera; è il caso, ad esempio, de L’uomo la bestia e la virtù, ma anche nel Berretto a sonagli la giovane moglie viene schiacciata dal meccanismo che lei stessa ha messo in moto, per via del tradimento del marito. Anche nel Gioco delle parti alla fine, la pretesa libertà della protagonista si rivela fallimentare e porterà all’uccisione del suo amante, con notevole soddisfazione del marito di lei.
Nei Sei personaggi in cerca d’autore, poi, tutta la vicenda è determinata dall’insensata gelosia del padre il quale abbandona la madre credendola innamorata di un suo collega di lavoro.
pirandello1Emerge, quindi, anche la tematica della gelosia e della pretesa tutta pirandelliana di esaurire in un abbraccio mortale tutta la vita della moglie o compagna, disegnando così un profilo psicologico di carattere sado-masochistico latente.
Una visione ossessiva dell’amore che appare ben svelata dalla sua relazione con Marta Abba che l’autore quasi perseguitava con l’assiduità delle sue lettere e le sue profferte amorose.
Inoltre la vicenda narrata in Così è se vi pare apre molti dubbi sull’effettiva identità della signora Ponza, perché appunto, ella potrebbe essere sì la figlia della signora Frola, ma sicuramente quest’ultima non è la suocera di lui. Piuttosto, da come entrambi si comportano, potrebbe essere la madre del signor Ponza, se non addirittura la sua prima moglie. Nel primo caso si tratterebbe, quindi, di un incesto tra fratello e sorella, nel secondo, invece, tra padre e figlia. In effetti è noto dai documenti che Antonietta, moglie di Pirandello, nutriva una forte avversione, dettata dalla gelosia, per sua figlia Lietta, al punto da sostenere che quel rapporto privilegiato padre-figlia fosse tutt’altro che innocente. Così è se vi pare potrebbe far riferimento, quindi ad una vicenda almeno parzialmente autobiografica. Ipotesi da non sottovalutare visto che anche nell’Enrico IV e nei Sei personaggi si nota la presenza di tematiche simili dal momento che nel primo caso il protagonista si invaghisce della figlia della donna amata in passato, mentre nel secondo, rischia di avere un rapporto sessuale con lei.
 
La «verità», insomma, aveva portato probabilmente la famiglia dell’autore alla distruzione e per questo nella sua opera troviamo l’elogio delle «pietose bugie» dette, ripetute affabulate pur di rimanere insieme, bugie alle quali molto probabilmente lo stesso Pirandello si era abituato…