UN VENERDI’ A GERUSALEMME E BETLEMME – Muri vecchi e nuovi

26 12 2012

Venerdì mattina a Gerusalemme per prima cosa ci rechiamo al mercato di Mahane Yehuda dove, nonostante si tratti del mercato ebraico, l’atmosfera è coloratissima e chiassosa come in un suk arabo. Tutte le merci sono esposte all’aperto, dalla frutta ai dolci, ai formaggi, e poi carne, pesce e spezie in un curioso incrociarsi di profumi e odori. In giro ci sono soprattutto uomini, perché le donne sono a casa a preparare la cena dello Shabbat che si festeggia a partire dal tramonto del sole del venerdì.

Non rinunciamo ad un assaggio di datteri mejoul che sono veramente una squisitezza, insieme alla spremuta di pompelmo rosa che qui è proprio un’altra cosa: non ha niente a che vedere con i pompelmi che si vendono in Italia!

Un’altra specialità tipica di queste parti è il riso all’uvetta sultanina che viene usato come contorno ai piatti di carne, mi riprometto di copiare la ricetta anche perché i sapori agrodolci che sanno di antico a me piacciono molto.

Per il resto la cucina è piuttosto simile a quella turca, soprattutto della zona di Antiochia, con la differenza, però, che non sono molto utilizzate le spezie piccanti. Un altro ingrediente che viene usato spesso è la farina di ceci cucinata in polpette (dette falafel) inserite come ripieno con varie spezie nella pita (o pida) piccola, (dalla quale probabilmente deriva anche la piada emiliana).

Esiste poi anche la pita grande quanto una pizza da mangiare come il pane con i piatti di carne o verdura, come negli altri paesi mediorientali, anche se qui viene tagliata e usata individualmente, mentre nei paesi arabi il cibo è posto direttamente sopra e viene poi tagliata con le mani dai commensali (avete presente “le mense” dei Troiani di Enea all’arrivo nel Lazio?

Tanto per dare un’idea dell’antichità di questo tipo di pane!). Abbiamo poi notato una propensione notevole per i dolci che non sono solo come quelli turchi tipo millefoglie intrisi di miele, ma hanno una composizione originale, più simile alla gelatina o alla panna cotta, ma unite alla frutta, e, devo dire, sono ottimi… anche troppo per me!

 Alla fine, però, la cucina italiana fa sempre scuola e così troviamo un intero banco dedicato a vari tipi di ravioli, fusilli e altri tipi di pasta. Chissà se saranno davvero commestibili! Dopo la famosa pizza al ketchap che ebbi la sventura di mangiare a Budapest quando trovo prodotti dall’aspetto italiano all’estero sono sempre diffidente.


Uscendo dal mercato ci lasciamo alle spalle i grandi manifesti che celebrano il rabbino Menachem Mendel Schneerson il presunto Messia del movimento religioso chassidico Chabad Lubavitch, striscioni che infestano tutta  la città e danno l’idea della prevalenza di questi movimenti estremisti all’interno dello Stato di Israele.


Dal mercato ripartiamo alla volta dello Yad Vashem “Un memoriale e un nome”  Centro mondiale per le ricerche sull’Olocausto, inserito in un vasto parco fuori della città vecchia. Entriamo subito nel museo vero e proprio dove si trova un’approfondita documentazione sulle diverse fasi della persecuzione degli ebrei.

Avendo visitato, alcuni mesi or sono, il Reichsparteitagsgelände diNorimberga, il centro dei raduni nazisti, dove era spiegata esattamente tutta la retorica del Terzo Reich sulla questione della razza – le menzogne delle leggi e il restringimento progressivo delle libertà fatto passare come “rispetto” delle minoranze – quello che si vede qui a Gerusalemme appare come complementare all’altro e assume così ancora maggiore evidenza.


Anche il luogo dove tali testimonianze sono state inserite è abbastanza impressionante perché ha una forma a capanna molto appuntita con spioventi in  cemento armato privo di intonaco, le zone espositive sono senza finestre, mentre solo il corridoio centrale prende luce da enormi finestroni.



Il percorso tra le varie sale, però, non è diretto attraverso il corridoio, ma è tortuoso in  modo tale che il visitatore si trovi sempre faccia a faccia con muri in cemento armato, nudi e altissimi che lo sovrastano, finché si giunge alla finché si giunge alla famosa cupola della “Sala dei nomi” con le foto dei deportati che non sono più tornati. La cupola ad imbuto, se da un lato somiglia ad un antico tholos, dall’altro sembra quasi un camino di fabbrica; non so se sia voluto o meno, ma a me ha ricordato proprio l’idea della ciminiera dalla quale sono passati questi morti.

Prima di questa sala, dove si giunge al culmine della drammaticità della memoria, ne trovo un’altra forse ancora più angosciante per chi si fermi un attimo a pensare: qui gli ebrei, ricordando la tragica vicenda della nave Saint Louis nel 1939  e l’odissea interminabile della nave Exodus nel 1947,  si interrogano su dove possano andare se nessuno il vuole e li accoglie e questo resta sempre un pensiero tristemente attuale anche oggi, visto che, nonostante tutto, la vita in questo territorio appare ancora estremamente precaria.

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Purtroppo ogni volta che si visita un memoriale della Shoa, proprio a causa della gravità inaudita dell’accaduto, sembra sempre che gli ebrei non siano affatto riusciti a superare la tragedia e che il dolore e il buio continuino a prevalere su tutto. Ho notato questo anche quando sono stata a Dachau (gli altri campi non li ho mai visti): il santuario memoriale delle vittime era oscuro e lugubre come pochi, non lasciava minimamente spazio alla speranza di un avvenire migliore da costruire insieme. Sembra, cioè, che questi luoghi siano testimoni eloquenti della chiusura sempre più profonda di un popolo ripiegato totalmente sul proprio dolore e auto-esclusosi dal resto del mondo per combattere la propria infinita guerra contro tutti. Le architetture parlano…



Fuori dal museo ci dirigiamo verso il Viale dei Giusti dove scopriamo le lapidi di tutti coloro che si sono schierati coraggiosamente dall’altra parte anche a costo della propria vita. All’ingresso troviamo, ovviamente, i due alberi di Oskar e Emilie Schindler. Non si può dimenticare che Oskar Schindler morì in povertà proprio per aver speso tutti i proventi delle sue fabbriche allo scopo di riscattare il maggior numero di vite.



Le scelte ideali hanno sempre un prezzo di solito alto, ma è l’unico sacrificio che fa davvero avanzare il genere umano. E’ scritto nel Talmud di Babilonia: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Più avanti un grande abete dai vasti rami è stato dedicato a Giorgio Perlasca.



Un uomo che, pur avendo compiuto inizialmente scelte sbagliate, ebbe il coraggio di ammettere i propri errori e di salvare tantissimi ebrei in modo spesso rocambolesco e incredibile; il suo esempio ci ricorda che nulla è impossibile per chi è animato dalla volontà di riuscire. Rischiando tutti i giorni la vita e spacciandosi per il sostituto del console spagnolo in Ungheria salvò circa 5200 ebrei. “Il regno dei Cieli è come un seme di mostarda, il più piccolo dei semi, ma quando cade sul terreno coltivato produce una grande pianta e diventa un riparo per gli uccelli del cielo.”


Devo dire che camminare in mezzo a queste presenze vive, nel silenzio, ascoltando solo gli alberi, è il più grande invito che abbia mai sentito a cercare il bene, perché qui si vede che esiste sempre una speranza, che c’è sempre qualcuno che ha il coraggio di difendere l’uomo anche a costo della propria vita.
Purtroppo, come scrisse Bertolt Brecht “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”…. Eppure solo attraverso gli esempi di alcuni possiamo trovare punti di riferimento per il presente.
Il nostro percorso della memoria continua rievocando i diversi aspetti della tragedia: nel silenzio che ci avvolge ci avviamo verso il “Monumento e Memoriale dei  bambini della Shoa” dove al buio, mentre scorrono le loro immagini, tra mille piccole luci accese a formare un  cielo stellato, vengono recitati i nomi di tutti i bambini morti  nei campi di sterminio.



Poco più lontano troviamo il monumento dedicato a Janusz Korczak, medico e scrittore, che preferì morire insieme agli orfani del ghetto di Varsavia (per i quali nel 1911 aveva fondato un orfanotrofio) piuttosto che lasciarli soli. Tutt’intorno e in ogni fessura della grande scultura in bronzo che rappresenta l’abbraccio di Korczak ai suoi bambini, i visitatori hanno posto piccoli sassi, per onorare la sua memoria. Infine passiamo davanti al memoriale delle Fosse Ardeatine e così, con il cuore gonfio di commozione lasciamo il parco.



Ci dirigiamo poi al Santuario del Libro dove sono conservati i manoscritti di Qumran e molti degli scritti ritrovati nelle altre grotte presso il Mar Morto. IL’esterno è molto suggestivo e solenne, dominato da una grande stele di pietra nera posta in contrasto cromatico e volumetrico con la cupola bianca che ricorda il coperchio dei vasi in cui erano contenuti i manoscritti.



All’ingresso l’atmosfera è sacrale, con il grande rotolo del libro di Isaia contenuto in un cilindro di cristallo che domina la sala centrale sotto la cupola, inserito in una struttura che ricorda i  teuchos della Torah conservati nelle sinagoghe; intorno ci sono grandi frammenti di papiro e pergamena conservati nelle teche addossate alle pareti e protetti dalla luce soffusa del luogo



E’ quasi impossibile osservarli bene qui, ma sappiamo ugualmente di essere davanti a qualcosa di preziosissimo, forse proveniente proprio dal distrutto Tempio di Gerusalemme. La voce della storia arriva fino a noi miracolosamente conservata dopo le catastrofi, quale testamento e profezia.


A poca distanza dal Museo del Libro troviamo un altro monumento di grandissimo interesse: il plastico realizzato da Hans Kroch  su disegno dello storico e geografo Michael Avi Yonah  nel quale si può vedere tutta Gerusalemme all’epoca di Cristo (secondo muro di Ezechia 700 a.C.) e nel più ampio tracciato delle mura successive, fatte costruire da Agrippa tra il 41 e il 44 d.C..


Una struttura preziosa, interamente realizzata in pietra di Gerusalemme 
in modo accuratissimo da un architetto il quale si è avvalso della collaborazione dei più autorevoli archeologi che si sono occupati degli scavi della città. Riconosciamo a sud il quartiere degli Esseni posto dove oggi si trova il Cenacolo, nelle vicinanze la casa del sommo sacerdote, le grandi torri di difesa fatte costruire da Erode il Grande con la sua reggia, il palazzo degli Asmonei poi sede del pretorio in prossimità del Tempio che qui appare perfettamente ricostruito.

Questo plastico ci mostra anche la porta Aurea oggi chiusa, dalla quale sarebbe passato Cristo al suo ingresso in città, e chiarisce come il percorso seguito dall’attuale via Dolorosa si trovasse fuori delle antiche mura di Ezechia all’epoca di Gesù, rendendo più probabile l’identificazione del luogo del santo Sepolcro con quello effettivo della crocifissione.


Certo che, osservando il plastico, ci si accorge ancora di più delle continue ferite inflitte a questa città contesa dall’incessante passaggio di invasori, popoli e religioni. Una incessante devastazione che ha coinvolto, in particolare, la zona del Tempio, ma non solo. Si tratta di una sensazione difficile da descrivere, perché mentre a Istanbul la molteplicità di volti e popoli che abitarono il centro storico ha creato una città armonica e meravigliosa, qui a Gerusalemme questo dialogo impossibile si sente ovunque e ci si accorge che tutti vivono gomito a gomito odiandosi.  Tutti venerano gli stessi luoghi e per questi si uccidono o si sono uccisi. Si rischia di ripartire da qui con una repulsione totale per qualunque religione.

Così nel pomeriggio ci attendono muri molto più moderni, che chiudono fazzoletti di terra contesi in una lotta all’ultimo sangue.

A Betlemme gli israeliani hanno costruito il famoso muro che, in realtà, come ci farà poi notare la nostra guida palestinese, fa parte dei 750 km di confine che costeggiano tutta la Cisgiordania e le enclave arabe, tra recinzione metallica doppia elettrificata (che ricorda sinistramente quella che ho visto a Dachau tanti anni fa) e muri di cemento armato vero e proprio.

In queste enclave, come per esempio anche a Gerico, tutti coloro che hanno passaporto israeliano non possono assolutamente entrare e così la nostra guida ebrea ci affida all’autista del  nostro pullman che è un palestinese.

Girano sempre in coppia per poter passare da una parte e dall’altra del confine e trattare con tutti. Ma io ho fondate ragioni per ritenere che, pur essendo gomito a gomito tutti i giorni, non si sopportino. Basta sentire i commenti della nostra guida ebrea sui musulmani e il suo senso di superiorità nei loro confronti per rendersene conto…

Intanto come biglietto di presentazione appena passato il confine ci ritroviamo di fronte ad un bianco villaggio di coloni che imperterriti continuano a vivere in pieno territorio palestinese, Il giovane arabo che ci fa da guida, in un perfetto italiano ci fa subito notare come vanno le cose.

L’unico aspetto confortante in mezzo a questo caos etnico e religioso è che gli italiani sono benvoluti da tutti, da una parte e dall’altra, almeno così sembra. Questo giovane palestinese, come molti altri qui, da quello che ho capito, dice di essere stato a lungo in Italia presso suoi parenti.

Comunque, oltre agli insediamenti dei coloni che accrescono la tensione, come se non bastasse, a Betlemme gli israeliani si sono semplicemente presi la strada principale per entrare in città insieme ad un quartiere intero, perché –  dicono – in mezzo sorge la tomba di Rachele; così, quando si entra a Betlemme, dal check-point di confine non si sa neppure da che parte girarsi tanto è il caos che regna in quelle stradine create semplicemente per un quartiere residenziale e diventate poi, a causa del muro, arterie di traffico. In questa situazione i musulmani più integralisti e arrabbiati spesso hanno preso il sopravvento e così i cristiano palestinesi che prima erano un folto gruppo ora sono sempre di meno e c’è da credere che il giorno che se ne andranno tutti; così, senza più nessuno a mediare scoppierà un’altra guerra perfino peggiore delle precedenti. Altrimenti a che cosa servirebbero dodici figli per famiglia degli integralisti ebrei (ma penso anche musulmani), e, soprattutto, dove si potranno mai insediare in questo territorio minuscolo e sovraffollato? In mezzo al deserto? Spero di sbagliarmi, ma sono molto pessimista.

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Mentre sono immersa in questi pensieri non certo positivi, ci portano in un negozio di cristiani palestinesi con l’evidente intento di farci sostenere questa minoranza… e anche questo atteggiamento è abbastanza irritante, perché gli israeliani in questo modo cercano di evitare che nelle tasche dei palestinesi musulmani possa arrivare anche un solo spicciolo. Ho notato lo stesso atteggiamento anche da parte della nostra guida: quando si gira nelle strade di Gerusalemme fa di tutto per evitare accuratamente i mercati arabi all’interno della città…. E anche a Nazareth non ha voluto attraversare il mercato arabo del centro.

Finalmente arriviamo alla grande, magnifica basilica bizantina della Natività, fatta costruire nel IV secolo

 

da Sant’Elena e restaurata nel VI, come dimostrano i resti dei mosaici pavimentali costantiniani che in alcune zone si possono ancora vedere.

La basilica è gestita in collaborazione da Armeni, Ortodossi e Cattolici. All’ingresso ci attende la famosa minuscola porticina, da cui bisogna passare inchinandosi per poter entrare: una modifica necessaria per impedire l’ingresso a cavalieri armati.

Qui finalmente ci si trova immersi nella profondità del passato, perché il sito è tutto autentico senza i pesanti interventi moderni che caratterizzano le altre chiese visitate finora; nell’insieme, però, l’edificio appare in precarie condizioni di conservazione, nonostante l’incessante afflusso di turisti.

La basilica a cinque navate comprende anche un martyrium ottagonale entro il quale è inglobata la grotta della Natività davanti alla quale tutti si accalcano per porre la mano sulla stella dorata che segna il punto dove, secondo la tradizione, sarebbe stato deposto Gesù appena nato.

Sulle pareti dell’imponente navata centrale si possono ancora vedere parti consistenti dei mosaici parietali risalenti all’epoca delle crociate.

Accanto alla basilica sorge la chiesa di santa Caterina oggi ottocentesca, ma con un bellissimo chiostro gotico sempre di epoca crociata, al centro del quale troviamo la statua di San Girolamo che ricorda il soggiorno del santo in una grotta attigua a quella della Natività, esistente ancora oggi nei sotterrai della basilica.

Qui il padre della Chiesa al quale Dio aveva rimproverato di essere “ciceronianus non christianus”, attese alla traduzione dal greco in latino della Bibbia, secondo la versione poi detta Vulgata.

E’ ora di andare e all’uscita vediamo davanti a noi il Collegio cristiano di Terrasanta. La nostra guida ci informa che i cristiani attualmente sono soggetti a diverse limitazioni dall’Autorità palestinese perché, mentre i musulmani hanno a disposizione scuole gratuite, è stato imposto ai cristiani di pagare comunque le scuole, nonostante vengano offerte gratuitamente dai religiosi.

Alla sera torniamo in albergo e ci attende la celebrazione della cena del Sabato con abluzione rituale delle mani e lettura del Kiddush, la memoria del riposo dopo la creazione, la benedizione del pane spezzato e del vino.

Così, come se niente fosse, ci ritroviamo a cambiare nuovamente pagina e al di là del muro siamo catapultati ancora una volta tra gli integralisti ebrei che celebrano con grande serietà con tutta la famiglia

al completo questa festa in una certa allegria, anche se, in realtà, il cibo è stato cucinato questa mattina e quindi, a questo punto, non è di sicuro un gran che. Oppure sarà che dopo quello che ho visto tutto mi va di traverso….