Recensione: IL CORAGGIO DI UN UOMO SOLO – Operazione Valchiria

28 02 2009
Operazione Valchiria
Voi non avete partecipato alla vergogna
Voi avete reagito
Voi avete dato il grande
E per sempre inesausto
Segno del cambiamento
Sacrificando la vostra luminosa esistenza
Per la libertà
La giustizia e l’onore.
 
(dal Monumento alla Resistenza tedesca a Berlino)
 
Claus Stauffenberg con Albrecht Mertz von Quirnheim
 
Talvolta, per una serie di strane coincidenze, nello stesso periodo vengono programmati film che appaiono quasi complementari. E’ il caso di Operazione Valchiria e di The Reader. Essi rappresentano, infatti, due facce della stessa medaglia: se nel secondo si parla di una sorvegliante di Auschwitz assolutamente succube del sistema di condizionamenti messo in atto dal regime, in Operazione Valchiria troviamo, invece, uno sparuto gruppo di tenaci oppositori del nazismo, che tentano disperatamente di sovvertire la dittatura pur sapendo che molto probabilmente non riusciranno nell’intento, consapevoli fin dall’inizio che dovranno sacrificare la vita, forse inutilmente. Oltre all’interesse, quindi, per l’intrecciarsi di due identità e psicologie diverse del popolo tedesco, Operazione Valchiria è costruito anche come un thriller appassionante e amaro.
Riesce a tenere lo spettatore con il fiato sospeso dall’inizio alla fine e in modo quasi inspiegabile, dal momento che tutti, più o meno, sanno già come andrà a finire. Non per niente il regista Bryan Singer è stato considerato una delle più recenti rivelazioni del cinema hollywoodiano. Regista e sceneggiatore (Cristopher McQuarrie) suscitano abilmente una tensione crescente perché il pubblico viene spinto ad identificarsi con questo manipolo di uomini tanto eroici quanto soli.

operazione valchiria - von Stauffenberg prima dell
Tutti sanno bene che, alla fine, questo tentativo, uno dei più significativi tra i quindici effettuati nel corso della dittatura di Hitler, non andrà a buon fine: siamo, infatti, nel 1944 ed è ben noto che il fuhrer morirà nel suo bunker soltanto un anno dopo…
Come si fa, quindi, a raccontare un thriller di cui si conosce già l’epilogo? Eppure la tentazione, l’auspicio che ci venga narrata una storia diversa da quella che conosciamo e avvenga il miracolo, è troppo forte.
E’ lo stesso desiderio quasi suicida che ispirò il colonnello von Stauffenberg (interpretato da un Tom Cruise piuttosto prevedibile), conte di antica famiglia bavarese, eroe e mutilato di guerra, ad organizzare la missione Valchiria pur sapendo che avrebbe avuto poche possibilità di riuscita, perché troppi elementi del piano, abilmente ideato, si sarebbero potuti inceppare. Eppure bisognava tentare. Il protagonista è un uomo pieno di carattere, che non vuole dissimulare le ferite ricevute per la patria, né la mano recisa all’altezza del polso né il suo occhio perduto. E’ un uomo che conosciute le menzogne del regime non intende piegarsi e fa il saluto nazista proprio con quella mano mancante.

stauffenberg memorial

stauffenberg memorial berlino


Come in un’opera di Sofocle, la coscienza morale prevale sull’applicazione cieca della legge.
A questo punto non si trattava più di essere fedeli al fuhrer o alla patria in senso astratto, ma di fronte a così tante morti inutili tra i civili e militari, alla prospettiva dello sfacelo conclusivo che si stava di fatto avvicinando, il giuramento di fedeltà alla Germania assumeva tutt’altro valore. Per non tradire il proprio paese era necessario macchiarsi di alto tradimento di fronte al regime, questo era il paradosso, questo il prezzo altissimo richiesto dall’azione.
Certo, fa impressione vedere la «Tana del lupo» di Hitler immersa proprio in quei boschi di abeti dal fusto slanciato che sicuramente a Stauffenberg ricordavano quelli della sua terra natale. Foreste tanto amate da personalità come Ludwig II di Baviera, con le sue alte idealità e la ricerca del bene comune del popolo, dissacrate dalla presenza di un uomo che, di fatto, stava pianificando la distruzione finale della sua stessa patria.

Il vero Claus Stauffenberg con i suoi figli
Quella commovente natura diventa il luogo di un’impossibile redenzione del popolo tedesco, ancora troppo confuso e plagiato dal culto della personalità del dittatore per tentare in massa di emanciparsi. Ma bisognava provare, e, se non c’è stato il successo, una morte onorevole è stata comunque l’alternativa migliore al dover eseguire continuamente ordini suicidi e iniqui.
Se tanti in più lo avessero pensato… O forse, ne sarebbe bastato uno solo in più, perché talvolta anche un unico uomo che faccia la sua parte può risultare di vitale importanza in un senso o nell’altro.
La ricostruzione storica, proposta nel film, ricorda, infatti, come il meccanismo messo in moto da von Stauffenberg si sia inceppato per via di un uomo solo. Bastava forse quell’unico ufficiale della riserva per cambiare il corso della storia, ma ancora una volta, il carisma di Hitler, inspiegabile quanto oscuramente indiscutibile, ebbe il sopravvento.

Tom Cruise - von Stauffenberg nel film

A lui dedico la musica di Wagner più amata da Ludwig, l’opera del "puro folle" cavaliere del Graal



Recensione: LA RESA DEI CONTI DI DUE GENERAZIONI – The Reader – A voce alta dal romanzo bestseller di Bernhard Schlink

23 02 2009
the reader
Conoscere per caso una donna e innamorarsi di lei pur avendo meno della metà dei suoi anni, per vederla poi scomparire inspiegabilmente all’improvviso: così il primo amore diventa una condanna, un dolore, un trauma che segnerà tutta la vita. Questo, però, non è ancora nulla rispetto al segreto che Hanna nasconde. A distanza di anni Michael, il protagonista, durante un seminario della facoltà di Giurisprudenza a cui si è iscritto, scoprirà nel modo più traumatico – durante il processo – che la donna tanto amata è stata una sorvegliante ad Auschwitz, un’addetta alle selezioni, un’assassina.
Ancora peggio è scoprire, poi, che non aveva provato quasi nulla, almeno a parole, nel lasciar morire arse vive trecento persone. In realtà, quella di Hanna è una personalità bloccata completamente, al punto da non saper, non solo esprimere, ma neppure riconoscere, i propri sentimenti. Per Michael, però, le rivelazioni scioccanti si susseguono: scopre, infatti, che, come era capitato a lui durante la loro breve relazione, anche alle detenute del campo quella donna chiedeva di leggere ad alta voce dei libri per poi, abbandonarle al loro destino, ovvero alla morte.
Lo choc del protagonista è quasi il medesimo dello spettatore, ed è forse lo stesso di molti tedeschi delle passate generazioni, quando scoprivano che l’insospettabile vicino di casa, il mite vecchietto inoffensivo della porta accanto a suo tempo era stato uno spietato nazista.
Il regista Stephen Daldry ci ha abituato allo studio di psicologie complesse, talvolta criptiche, come in The Hours e anche qui la giovane sorvegliante dei campi di sterminio è una personalità complessa e dissociata.
Hanna è una donna capace di improvvise commozioni e traumatici flashback, ma, nel complesso, sembra non rendersi conto di ciò che ha fatto, tanto che si autoaccusa perché è incapace di comprendere la gravità dei suoi atti, perciò li racconta come se fossero scontati e ovvi: «Dovevamo sceglierle, non potevamo tenerle tutte, ne arrivavano in continuazione». Ad interpretarla un’enigmatica e poliedrica Kate Winslet (premio Oscar come migliore attrice protagonista) affiancata da un Ralph Fiennes (Michael da adulto) il quale esprime efficacemente le chiusure e i sensi di colpa di una personalità a sua volta «bloccata».
E’ una donna a cui il sadismo del regime ha risucchiato completamente la coscienza morale, lasciandola con i suoi «dovevo farlo, ero la sorvegliante, la responsabilità era mia».

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Una personalità fortemente condizionata che fa paura perché, in realtà, rappresenta quella parte esistente in ciascuno di noi davvero condizionabile, come ben ha messo in evidenza, tra gli altri, Erich Fromm nel suo Anatomia della distruttività umana, un libro ormai datato, ma sempre attuale, per la sua analisi sul nazismo e, più in generale, sul rapporto con il potere assoluto. Questo film traduce in una vicenda concreta ciò che è illustrato con dovizia di esempi ed esperienze nello studio di Fromm.

Al di là del banco degli imputati, tra il pubblico che assiste, si consuma il dramma di una o più generazioni di tedeschi: tentare di negare l’evidenza che molti, moltissimi erano colpevoli e fare invece in modo che qualcuno paghi, magari anche più del dovuto, per lavare un generale senso di colpa. Così farà il protagonista, così faranno le due sopravvissute ebree che la accusano. Esse si sono salvate probabilmente perché stavano leggendo per lei, ma su questo punto tacciono entrambe. Il protagonista, invece, sa che Hanna non sa leggere e quindi neppure scrivere. Questo la scagionerebbe in parte dall’accusa più grave, ma Michael viene preso da una smania di vederla punita più delle altre. La vuole condannata come la più colpevole di tutte, perché si sente tradito e quasi suo complice.
Di fronte ad una strage, assistiamo allo spettacolo di una generazione contro l’altra, di un muro contro muro senza alcuna comunicazione tra le due realtà; al punto che Hanna, per ascoltare la sentenza che la condannerà al carcere a vita, si presenta vestita in divisa come se fosse ancora una sorvegliante nazista. Sembra che Hanna voglia sfidare tutti o lo faccia solo per riflesso condizionato, senza neanche rendersene conto.
Una donna indecifrabile, soprattutto per se stessa, la quale sembra vivere solo il presente e ciò che «va» fatto, ma probabilmente perché non è in grado di riconoscere quello che ha dentro come è incapace di leggere e scrivere. Non si tratta, però, di un problema di «cultura», come qualche critico ha erroneamente sostenuto, tale incapacità è simbolo, piuttosto, di una sorta di analfabetismo interiore.
Quando Hanna imparerà finalmente a scrivere, attraverso la voce di Michael che continua a leggerle – registrandole e inviandole in carcere – le storie che tanto avevano amato quando stavano insieme, sarà troppo tardi per apprendere davvero qualcosa su se stessa: dalla prigione non si impara niente come non si è imparato nulla dai campi di sterminio né per l’aguzzina né per la sopravvissuta.
Alla fine la memoria si chiude solo col dolore. Non c’è nulla da imparare senza coscienza (come nel caso di Hanna) o senza perdono (come per Ilana Mather, sopravvissuta ad Auschwitz) solo la durezza di cuore e la morte. Questo è infatti l’ultimo dolore che Hanna infligge a Michael, lasciandogli l’ennesimo e inutile senso di colpa.
Un film difficile, talvolta forse volutamente irrisolto, nell’intento di ricordarci quanto siano ancora aperte certe domande sia nella mente dei sopravvissuti sia in quella dei tedeschi. Domande irrisolte, certo, ma prive della tendenza assolutoria nei confronti del Nazismo che qualcuno erroneamente ha voluto riconoscervi. Un’opera che a tratti nella figura di Hanna sembra quasi ricordare i film storici sul terrorismo come Anni di piombo, Maledetti vi amerò o il più recente Buongiorno, notte nei quali spesso si sottolineava la distanza tra vita privata e dimensione pubblica, evidenziando la freddezza con la quale un uomo all’apparenza comune potesse diventare un feroce assassino.


Recensione: L’OROLOGIO CHE ANDAVA ALL’INDIETRO – La relatività del tempo nel

20 02 2009

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«I giorni dell’uomo son come l’erba;
egli fiorisce come il fiore dei campi;
se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più
e non si riconosce più il luogo dov’era.» (Salmi 103, 15-16)

 

Che cosa sono i giorni dell’uomo? E’ la domanda che risuona nella mente dello spettatore dopo i titoli di coda. Continua a riproporsi, evocata nella miriade di fotogrammi e storie, l’immagine delle generazioni che si susseguano come foglie autunnali, insieme quella di New Orleans – la città dove è ambientata la vicenda – la quale sta per essere travolta dall’uragano Katrina. Allora anche il vecchio orologio della sua stazione ferroviaria, che scandisce il tempo al contrario, per far tornare indietro i minuti nella speranza di poter così riparare gli errori degli uomini, si fermerà per sempre.
A New Orleans la storia umana sta per essere travolta da «un’onda di mar commosso», ma la memorabile avventura di Benjamin Button merita di essere ricordata a costo di giocare a rimpiattino con la morte ancora per qualche ora o forse solo pochi minuti. Anche se questo è il destino dell’uomo, egli è un essere affascinante e tenace che non smette mai di lottare, di cercare, di amare.
La strana storia di Benjamin (Brad Pitt), nato vecchio e via via diventato giovane, percorrendo la strada inversa rispetto a tutti gli altri, mostra come forse l’uomo dovrebbe sentirsi una volta giunto nel mondo: con la morte vicina compagna di strada e la capacità di considerare ogni nuovo giorno come un regalo insperato dell’esistenza, a fronte di una fine ritenuta imminente quanto certa.
Il titolo del film ricorda certe novelle di Edgar Allan Poe perché la storia comincia come potrebbe iniziare un suo racconto dell’orrore. Ma se l’esordio evoca il «mostro», circondato da creature dall’aspetto caricaturale, nel corso della narrazione sono ben altre le domande ricorrenti sullo spirito e sulla sua reale forza, l’apparenza e la realtà. Ogni cosa è breve sogno nella vita umana, eppure è ugualmente straordinaria. L’uomo crea la sua magia dibattendosi nel breve tempo che precede la sua scomparsa, eppure continua a produrre il suo perenne canto del cigno. Il più bello, il più ricco e d’infinita varietà che mai si sia veduto e ascoltato.

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Colpisce la fragilità dell’essere umano e il suo miracolo, il fatto che ci si possa incontrare anche solo per poco tempo e che in quei brevi momenti risieda la grandezza di tutta una vita e il suo senso. E’ la struggente bellezza di ciò che muore, perché questa è la sua natura. Ogni cosa è bella proprio nella sua fuggevole realtà, perché così è la sua vita, dura un attimo e in quell’istante dà il meglio di sé. Come la piccola vita del colibrì, animale simbolo di questo film, il quale, se le sue ali si fermassero, morirebbe in poco tempo. La sua magia, per chi lo guarda, può durare solo un attimo, perché il suo volo, poi, si perde lontano. L’anima del colibrì dovrebbe essere il nostro cuore, che non si risparmia fino all’ultimo battito d’ali.
Ciò che appare una sventura spesso diventa in punto di forza, veicolo privilegiato da cui più si apprende; ciò che sembra una nostra limitazione diventa la strada tracciata che porta verso altre mete e altri traguardi, compreso quello di conoscere il mondo e di capire ciò che si agita nel cuore dell’uomo. Così gli ultimi attimi di vita di Daisy (Cate Blanchett), pieni di un dolore quasi insopportabile, vissuti insieme all’imminente rovina della sua città, sono quelli in cui la figlia scopre di lei tutto ciò che non aveva mai saputo, le sue radici e la vera storia d’amore con suo padre. Ma anche Daisy dal diario di Benjamin che non aveva mai avuto il cuore di leggere, scoprirà come quell’uomo l’avesse amata ancora più profondamente di quanto avesse potuto immaginare.
Tutto scorrerà via, ma solo all’apparenza, perché esistono amori e legami che né la lontananza né il sovrapporsi di altre esperienze potranno spezzare. L’eternità dell’uomo nello spirito e nelle sue inspiegabili permanenze sono gli elementi che lo pongono a contatto con una più alta concezione dell’essere, qualcosa che va oltre la morte stessa.
Prevale la sensazione che si possa pensare alla morte come ad una quotidiana compagna dell’esistenza, e che, attraverso essa, la vita appaia anche più vera e straordinaria, ricca di una commozione costante. Nel film non assistiamo né alla smania di voler vivere ad ogni costo chissà quali forti emozioni (quasi per bruciare il tempo) né alla disperazione della perdita; semplicemente ci accompagna l’emozionante malinconia di assaporare quello che viene, sapendo che vive solo in quell’attimo, ma è comunque un miracolo che quell’istante esista.
Un film, che si avvale dell’interpretazione di un Brad Pitt un po’ meno sex symbol e sempre più attore e di una Cate Blanchett che si conferma intensa, magnetica e sensibile protagonista femminile. Una favola originale e fantastica quanto «vera», costruita con la lucidità visionaria di Eric Roth, già sceneggiatore di Forrest Gump, e con l’abilità immaginativa del regista David Fincher il quale a partire da Seven e passando per Fight Club, ci ha abituato alle storie inconsuete e non scontate. In genere il tallone d’Achille di questo regista è stata in passato la tendenza a non padroneggiare fino in fondo la materia fantastica con risultati a volte discontinui. In questo caso, invece, Fincher ha creato un’opera che emoziona profondamente dall’inizio alla fine, come il danzare delle foglie nei primi freddi dell’autunno, nel giallo sfolgorante della loro ultima meravigliosa livrea, che se ne va lieve ad ogni soffio di vento.

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QUALCOSA PER CUI PERDERE TUTTO – La scena finale del “Vento e il leone”

4 02 2009

  

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(clicca sull’immagine per vedere la parte finale del film "Il vento e il leone")

 

Sceriffo dei Berberi: "Grande Raisuli, ormai tutto è perduto, tutto è travolto dal vento come avevi detto, abbiamo perduto tutto."

Mulay Achmed Mohammed El-Raisuli il Magnifico: "Sceriffo, non esiste una cosa nella tua vita per la quale valga la pena perdere tutto?"





LE «FURBIZIE» DI DANNY BOYLE – Un’India corale e strappalacrime nel film “Teh Millionaire” candidato a 10 premi Oscar

2 02 2009
the MillionaireIl passaggio dall’India dei cumuli di rifiuti e delle baraccopoli sconfinate nelle quali milioni di persone vivevano, ai grattacieli ipertrofici delle periferie e delle costruzioni selvagge: il nuovo film di Danny Boyle, candidato a ben 10 premi Oscar è interessante soprattutto per le scene corali e per l’illustrazione di questo cambiamento epocale dell’India, da paese del sottosviluppo a nuovo fulcro dell’economia mondiale.
Un mutamento disordinato e incoerente che sembra non corrispondere, in realtà, ad un vero avanzamento civile, ma si manifesta solo con la creazione di nuovi miti mediatici.
Subito si nota lo stridente contrasto tra le montagne di rifiuti, le fogne a cielo aperto, la soffocante presenza delle baracche ammassate e il sogno proposto dal cinema, prima, e dalla televisione poi.
La sensazione dall’inizio alla fine del film è quella che Jamal, il protagonista, sia un ragazzo solo contro tutti, ma dalla volontà di ferro, tanto che, dopo molte peripezie vincerà contro avversità apparentemente insormontabili. 
Un epilogo così ottimista da essere molto improbabile, salvato dalla coscienza che si tratta di un sogno, come sottolinea il ballo finale alla Grease, ma in perfetto stile Bollywood.
Il film, nel complesso, è girato in modo brillante, e scorre sotto i nostri occhi freneticamente, con scene molto veloci, movimentate, che creano la sensazione del labirinto. In più prevale l’elemento sentimentale accentuato dai tre bambini soli nel caos della vita: come i tre moschettieri Athos, Portos e…
L’ultima domanda del «Chi vuol esser milionario» in versione indiana è proprio sul terzo, simbolico moschettiere che nasconde la ragazza da sempre amata da Jamal. Un sogno infantile che, alla fine, si realizza secondo un cliché un po’ strappalacrime e troppo simmetrico, perché modellato sulla convinzione che i principali eventi negativi vissuti dal protagonista rientrino tutti in un «karma» decisamente di maniera. 
Belle, invece, le scene "veriste": le corse in mezzo ai vicoli, le fughe continue, la sensazione di esser perennemente braccati che accompagna i tre protagonisti fin dalla loro drammatica infanzia nell’enorme baraccopoli di Bombay (Mumbai): c’è sempre un ostacolo da superare, qualcuno da cui scappare.
La polizia, che simboleggia il potere, non tutela mai i deboli, anzi, è corrotta e favorisce sempre i più forti, al punto che nessuno può credere che Jamal, giovane senza arte né parte, possa aver vinto tutti quei soldi con le proprie forze, così, paradossalmente, viene arrestato perché sospettato di frode.
Ad ordire l’arresto è il conduttore del programma che si vede rubare la scena. Come in ogni copione «verghiano» che si rispetti non esiste alcuna solidarietà tra poveri o ex-poveri: il conduttore televisivo viene dalle baraccopoli anche lui e proprio per questo si accanisce maggiormente contro il protagonista.
Seguendo un’idea tipicamente orientale del destino, ad ogni avventura negativa dell’esistenza il giovane ha imparato suo malgrado qualcosa che non è più riuscito a dimenticare, ma proprio da questa «memoria» traumatica dipenderà, alla fine, una vincita al «Milionario» fino ad arrivare all’ultimo montepremi finale, quando il sogno di tutta una vita sarà in gioco.
Sembra quasi che in un sol colpo l’esistenza abbia voluto ripagare Jamal di tutte le sue perdite e di tutti i disastri, come ognuno si augurerebbe.
Così il giovane diventa per tutti l’emblema di una rivincita, al punto che il potere non può credere nell’ingranaggio impazzito: come può un buon a nulla – uno che porta il tè ai telefonisti di un call center – come può vincere 20 milioni di rupie?
Già, non accadrà mai, ma continuate a sognare, almeno al cinema.
Perché questa è Bollywood!
Certo, la selezione di un film del genere come canditato a 10 premi Oscar invita a riflettere: le giurie hollywoodiane stanno diventando sempre più «di maniera» e con pretese buoniste…
Il caso Gomorra docet, ma d’altra parte un film così "vero" come quello di Garrone che cosa avrebbe potuto rappresentare in questo mondo di cartapesta? Forse, allora, meglio il Gran Prix speciale della giuria di Cannes presieduta da Sean Penn. Quello di certo vale qualcosa, gli altri chissà…


26 12 2008
13 Dicembre 2008
Come Dio comanda
Te la senti addosso quella pioggia fredda, incessante, che scroscia senza tregua nella notte e sembra creare da sola il buio sul mondo…
«Come Dio comanda», l’ultimo film di Gabriele Salvatores (tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammanniti) racconta una vita ai margini dove il dolore non rende affatto migliori, anzi, quasi fa dimenticare la forma umana, mentre prevale l’ansia di sopravvivere nel suo aspetto ferino e ogni contatto diventa solo una violenza fatta o subita.
Un percorso verso l’inferno nel quale si scivola lentamente, scendendo tutti i gradini verso il fondo come in certi romanzi di Zola, ma siamo drammaticamente nell’oggi, nella violenza crudele dell’hic et nunc.
Di certo in questo film non esiste l’idea del povero «buono», alla «ricerca della felicità» di mucciniana memoria; tutt’al più il povero può essere bello, ma di una bellezza catatonica e incosciente, consumata dalle porte chiuse in faccia e dai «no» continui dell’esistenza.
Perciò si vive sognando una possibile rivincita sociale fatta di parole e simboli impresentabili che testimoniano l’estremo tentativo di difesa da un mondo vissuto come ostile ed estraneo. Non esiste alcuna solidarietà sociale ed intorno il povero e disoccupato ha soltanto il deserto, le ciminiere, la pietraia nuda. Questo è l’orizzonte della vita dove anche la natura appare corrotta, assumendo un aspetto artificiale e degradato dal lavorio delle ruspe e dei cantieri, dal lento scorrere di un fiume su un greto irto di sassi senza colore. Paesaggio carsico che ci conquista e ci atterrisce come correlativo oggettivo della coscienza. Lontano nuvole di fumo si levano alte: «altri» lavorano, «altri» producono, «altri» vivono, forse; certo non il protagonista.
L’unico elemento che lo tiene ancorato a questo mondo è la presenza del figlio con il quale ha un rapporto strettissimo, difficile e unico basato sul vicendevole «abbarbicarsi» l’uno all’altro per non essere definitivamente travolti. Uno stringersi e chiudersi a riccio in una famiglia di rifiutati: Rino, Cristiano e «Quattro Formaggi», l’amico reso disabile da un incidente sul lavoro.
La pioggia accompagna costantemente la loro esistenza, battente e fredda come una pena infernale per una colpa sconosciuta. La pioggia che fa luccicare, cancella e nasconde, confonde nel caos di una visione offuscata. Se questo è il mondo esterno, il resto della vita si svolge nello stesso degrado tra muri scrostati, una branda al posto del letto e un solo pezzo di formaggio ammuffito in frigo. La violenza rabbiosa del protagonista, il suo saper menare le mani, la sua passione per le pistole, non servono affatto a difenderlo, anzi, dimostrano soltanto la sua totale impotenza rispetto ad una società che ormai lo ha abbandonato al suo destino.
E le donne? Le donne semplicemente non esistono in questo presepe di cartone, come quello che Quattro Formaggi ha creato nello scantinato che sarebbe casa sua: le donne sono solo fugaci apparizioni e nient’altro, atterrite dalla miseria e dalla follia. Nel suo presepe tra la capanna e i pastorelli c’è posto anche per le ciminiere, Goldrake e Cip e Ciop, ma su tutti campeggia un schermo piatto, dove Ramona supersex si fa scopare a getto continuo 24 ore su 24 sempre nella stessa, ossessiva scena. Le donne sono due braccia di gomma che escono dal televisore mentre Ramona ti guarda e ti bacia…
Non ci può essere rapporto tra questo mondo «altro» e la società che lo ha posto ai margini; qualunque tentativo di contatto diventa occasione di scontro, umiliazione, menzogna o violenza. Le menzogne che si raccontano all’assistente sociale stile «dama di San Vincenzo»; l’umiliazione di elemosinare un lavoro che non arriva; lo scontro con chi ha tutto anche soltanto per prendersi una rivincita. E infine la tragedia perché l’incontro non è possibile, e si scatena soltanto la crudeltà disperata, quasi involontaria di chi non ha mai avuto nulla e vorrebbe solo qualche briciola. Il presepe si distrugge, lo schermo continua a trasmettere, la luce si spegne.
Restano un padre e un figlio ora finalmente coscienti del profondo legame reciproco e forse pronti a risalire in qualche modo dal fondo…
Notevoli le soluzioni registiche, alcune scene restano impresse nella memoria, assumendo un significato archetipico.
Il «folle» di Elio Germano ha davvero una marcia in più.
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L’EREDITA’ DEL DESTINO – The Burning Plain

26 12 2008

22 Novembre 2008

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Guillermo Arriaga, sceneggiatore dei film di Inarritu, attualmente passato alla regia, ci ha abituato ai suoi destini intrecciati, al caso che ci sorprende e ci stupisce, alla sensazione che dietro ogni apparenza di casualità si nasconda, invece, una logica di causalità misteriosa eppure ben riconoscibile. Forse assistiamo alle imperscrutabili logiche dell’antico Fato o al dispiegarsi di un misterioso legame che unisce i destini di uomini diversi e solo apparentemente lontani, perché le azioni di ognuno finiscono, in realtà, per influire sul futuro di tutti: è la storia di «21 grammi» come di «Babel» e adesso di questo «The Burning Plain» dove il destino sembra ripetersi per tre generazioni di donne, soprattutto come un viaggio nella coscienza e nell’eredità del passato proprio e altrui.
Si assiste ad un itinerario umano che cerca faticosamente il suo difficile scioglimento: ognuna delle protagoniste, infatti, rischia di rivivere i traumi della propria madre e di diventare da vittima carnefice, schiava delle proprie immagini mentali, dove l’emulazione di colei che si rifiuta e si ama vale più di qualunque verità razionale.
Questa volta Arriaga indaga il mondo dei sentimenti e dell’inconscio, costruisce con le sue tipiche inversioni spazio-temporali una sorta di giallo, scavando nei recessi della mente, nei sensi di colpa che diventano desideri autodistruttivi.
Una madre, Gina, interpretata da Kim Basinger, è al centro di questa vicenda, con la sua doppia vita e la sua solitudine assente. Gina è una moglie alle prese con il suo non sentirsi più donna da quando un tumore l’ha menomata e il marito si è dimostrato incapace di accettarla, così, mutilata, ma vittoriosa.
Fuori dall’oppressione e dalla solitudine di questo stereotipo familiare c’è invece Nick, uno «straniero», qualcuno che sembra con c’entrare nulla, e che, invece, capisce tutto anche senza parole. E c’è un luogo deserto dove questo amore cerca un posto improbabile in cui vivere.
Ma nel mondo degli obblighi sociali, tutto è molto più difficile: ci sono famiglie, figli e pregiudizi; tutto sbarra la strada ad una possibile nuova vita.
Gina per i propri figli è semplicemente latitante e sola di fronte alla sua vita e alle sue emozioni. Il trauma della figlia maggiore, Mariana, diventa tragedia e sarà lei a raccogliere l’eredità di questa madre o meglio, della sua immagine, che crede perversa e «puttana», niente di più di una donna che si vende senza amore e senza pudore.

Così Mariana gioca a fare l’amante nel letto dei genitori con il figlio dello stesso uomo di cui la madre era innamorata, rivivendo tutto come in una specie di destino rituale o di coazione a ripetere. Vicende intrecciate, come i pensieri e le psicologie avvitate su se stesse che caratterizzano l’avvicendarsi delle generazioni. Un tentativo di rivivere e purificare che non riesce, non può riuscire. Allora non resta che la fuga, che lasciare ogni identità e ogni amore, perché non ne si è degni e continuare a «darsi via», a ripetere il destino di morte…
Infine, però, la ruota del cosmo gira sulle vite degli uomini, e così Mariana ha lasciato dietro di sé una traccia che non può essere dimenticata: qualcuno che potrà diventare come lei oppure potrà aprirle una nuova possibilità di esistenza, una speranza inattesa di ricominciare da capo.
L’interpretazione del personaggio di Sylvia da parte di Charlize Theron da sola vale il film…

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LA VITA RUBATA – Ricordando

26 12 2008

 9 Agosto 2008

C_era una volta in America

«Che hai fatto in tutti questi anni? Sono andato a letto presto…»

Alcune battute di C’era una volta in America, sembrano quasi accompagnare la nostra vita, forse perché questo film più di qualsiasi altro rappresenta il confronto con un passato mitico che si scopre ad un certo punto del tutto diverso da quello che si era sempre creduto. A volte capita di accorgersi che la nostra vita ci è stata semplicemente portata via. Hanno vissuto al nostro posto ed ora ci stanno togliendo anche il mito del ricordo e della giovinezza. La ragazza che avevi sempre sognato, il tuo migliore amico, il grande amore che non è stato mai e una impossibile ascesa sociale che per qualcuno, invece, è stata possibile. Anche se il prezzo per ottenerla è quella fila di cadaveri sul ciglio della strada in una fredda serata di pioggia.
«Avevi gli occhi troppo pieni di lacrime per accorgertene…» Già, quante volte i nostri occhi sono stati così pieni di lacrime da non vedere che quello lì, abbandonato sul ciglio della strada, non era chi credevamo che fosse, ma soltanto la nostra illusione, dettata dai sensi di colpa.
Perciò, quando alla fine qualcuno ci dirà che si è portato via la nostra vita e che ha vissuto al posto nostro, mentre noi ci cibavamo di rimorsi e rimpianti gli risponderemo: «Vede senatore, avevo un amico una volta, un caro amico, ma è morto tanti anni fa… Buonanotte signor Bailey»


Il destino dell’Italia da “Gomorra” al “Divo”

26 12 2008

 14 Luglio 2008

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Già quando avevo visto questi due film, praticamente uno dietro l’altro, ero rimasta sconvolta, perché descrivono chiaramente la situazione drammatica del nostro Paese, che non trova scampo né dal basso né tantomento dall’alto. E noi, ci troviamo in mezzo a lottare tutti i giorni per una normalità e una semplice giustizia che appaiono sempre più lontane e irraggiungibili, dal momento che chi è preposto al rispetto della legge non fa che violarla e chi, a sua volta, si esprime votando, non fa che emulare i pessimi esempi mediatici ed istituzionali che ci vengono mostrati quotidianamente.
Oggi il susseguirsi degli avvenimenti di questi ultimi giorni mi ha fatto ripensare alle mie considerazioni senza speranza di qualche tempo fa. Ormai chi segue la legge è considerato un utopico giustizialista e quindi meglio imitare corruttori e corrotti, evasori delle tasse e, in generale, tutti coloro che cercano scorciatoie per ammassare denaro facile e per esercitare indebitamente il proprio potere.
Così tra Scampia che ormai ci appare una sorta di isola dei pirati senza nulla di pittoresco e nella quale vige solo la legge del taglione, esercitata dal più forte e alla quale nessuno osa ribellarsi, e le stanze del potere andreottiano e non, quello che colpisce è sempre l’indifferenza al destino del nostro popolo e l’assoluto disprezzo del bene comune.

Sei nato e morto qua. E basta: la verità, anche solo mezza, te la sogni…



INTO THE WILD – Eddie Vedder – Guaranteed

26 12 2008

 1 Giugno 2008

into_the_wild
 

Sono passati i mesi, ma le immagini di Into the Wild di Sean Penn continuano a scorrere indelebili nella mia mente, accompagnate dalla meravigliosa voce di Eddie Vedder, già presaga della nostalgia che pervade il nostro stesso essere. 
E’ sempre lì, nella memoria, quel ragazzo che ha cercato disperatamente la felicità, con il coraggio folle dei vent’anni – quello che tutti almeno una volta nella vita abbiamo avuto – ed è stato tradito dai limiti stessi della Natura.
Dall’illusione di essere libero, perché solo, di fronte alle incommensurabili forze dell’universo.
Perduta per sempre l’innocenza quando le sue mani emergono sanguinati dalla carcassa di un alce ucciso inutilmente, per giungere al respiro più grande della vita e della sua forza affascinante e crudele. Tanta strada per scoprire che l’unica felicità possibile è nella compassione tra gli uomini oppure non sarà mai…

 Ma quel suo sogno certo vuole dire che bisognava volare… che bisognava volare….

 


http://www.youtube.com/watch?v=IWgxntibBtE