DIALOGO CON FRANCO BRANCIAROLI – Uno dei grandi mattatori del teatro italiano parla di sé e del suo Don Chisciotte

14 02 2009
11-02-09_1814Mercoledì scorso al Mondadori Multicenter di Piazza del Duomo a Milano, Franco Branciaroli ha presentato il suo spettacolo Don Chisciotte – in scena in questi giorni al Teatro Strehler- nel corso di un incontro condotto da Antonio Calibi, Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano. In quest’occasione, attraverso le domande del conduttore e del pubblico, Branciaroli ha ripercorso le varie fasi di ideazione del suo spettacolo, chiarendo il rapporto con i due mattatori del teatro italiano, Vittorio Gassman e Carmelo Bene ai quali si ispira per dare voce a Don Chisciotte.e Sancio Panza. Vi proponiamo il suo intervento così come lo abbiamo raccolto, sotto forma di un dialogo – intervista con l’attore.
 
L’IDEAZIONE DEL «DON CHISCIOTTE»
Come ha concepito l’idea di mettere in scena il cavaliere della Mancia in modo così originale?
Questo strano Don Chisciotte nasce da una sfida: non c’è attore che non sogni di interpretarlo, ma già mettere in scena i romanzi è un controsenso perché i romanzi sono fatti di personaggi, caratteri, mentre nel teatro si affrontano miti e i miti antichi sono funzioni e rappresentazioni. I personaggi moderni come Don Giovanni, Faust e Don Chisciotte sono, invece, caratteri: si sa troppo di loro, sono eccessivamente concreti. Si sa cosa mangiano e come sono, non sono funzioni astratte come Edipo per questo «funzionano» meglio se interpretati con il canto o la parodia.
Sta dicendo, quindi, che rappresentare Don Chisciotte sul palcoscenico è impossibile?
Proprio così, i fallimenti che si sono susseguiti nel tentativo di mettere in scena questo personaggio lo dimostrano. Pabst è l’unico regista che è riuscito a tradurre il Don Chisciotte in un film, ma le sue parti erano cantate altrimenti sulla scena non sarebbe stato efficace. Un attore non regge per più di 5 minuti con un bacile sulla testa, a meno che non sia tutto trasfigurato attraverso una visione più onirica ed artificiale. E’ la sfida che già Shakespeare aveva capito: mettere in scena un personaggio attraverso la sua assenza, perché, altrimenti, sarebbe risultato troppo debole, come accade, per esempio, nel Giulio Cesare: quello che dovrebbe essere il protagonista, sta in scena al massimo per un quarto d’ora in tutto, per pochi minuti ogni volta.
C’è un perfetto parallelismo nello spettacolo perché Cervantes e Shakespeare sono morti lo stesso giorno (23 aprile 1616), mentre Bene e Gassman erano nati lo stesso giorno, il primo settembre.
Una bella sfida insomma… come ha pensato di risolverla?
Ho pensato di concentrarmi su che cosa fa Don Chisciotte, anziché su chi sia. In realtà, egli è fondamentalmente un imitatore e il romanzo di cui è protagonista è una sorta di trattato sull’imitazione. In genere, è considerato un personaggio positivo, ma questo giudizio sarebbe in parte da rivedere, perché non è autonomo, imita personalità anacronistiche, si uniforma in tutto e per tutto ad Amadigi di Gaula, che per lui resta un modello inarrivabile.
Allora ho pensato che, se volevo portare in scena Don Chisciotte, anziché imitare i cavalieri erranti, dovevo imitare «i cavalieri della scena» che si cimentano nella sfida impossibile di «rappresentare» il Don Chisciotte.
Insomma lei nei confronti di Bene e Gassman si comporta come Don Chisciotte, di fatto compie la medesima operazione…
Esatto, io sono come Don Chisciotte: io imito Bene e Gassman che interpretano il personaggio di Cervantes. Un percorso metateatrale degno di Borges: essi escono sconfitti dall’impossibilità di mettere in scena il Don Chisciotte, mentre io lo «faccio», cioè divento l’imitatore dei miti del teatro italiano ed esco vincente dalla sfida. Il vero Chisciotte sono io: infatti la mia vera voce non si sente mai, perché il «Don» è solo imitazione.
L’altra idea comica è stata quella di creare una coppia che reggesse la scena come Totò e Peppino o Stanlio e Ollio. Inoltre, lo spettacolo è organizzato per episodi anche slegati perché così è simile alla trama del libro: si possono estrapolare passi diversi anche senza rispettare un ordine narrativo dal momento che è costruito per giustapposizione.
 
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IL ROMANZO DELL’ILLUSIONE BAROCCA
Insomma sembra di capire che il Don Chisciotte sia un romanzo «allo specchio», secondo il procedimento dell’illusione barocca. Specchio che, infatti, appare in scena, quando viene aperto il libro di Cervantes…
Nel romanzo c’è un plagio: Don Chisciotte diventa lettore di se stesso in diretta, e la conclusione del duello con Biscaino, infatti, viene letta sull’altro libro quello ritrovato per caso a Toledo, opera di uno scrittore moro. E’ come se il protagonista ritrovasse il suo libro dove si raccontano le sue gesta, anche quelle che non ha ancora compiuto. Ciò può accadere solo perché è un essere del tutto virtuale. Il plagio fornisce una scusa a Cervantes per scrivere il secondo volume che non sarebbe frutto d’imitazione. Lo spettacolo ha la stessa funzione: provocare nello spettatore l’idea dell’impossibilità dell’illusione scenica del teatro. Nell’era di un programma come il «Grande Fratello» che scimmiotta la vita vera «facendo la vita vera», il teatro, che è finzione volta al vero, quale funzione può assumere? Per questo Don Chisciotte è l’eroe di un’epoca di crisi: se c’è un romanzo uguale al romanzo che racconta la vostra vita, allora anche voi potreste essere finti. Si potrebbe arrivare a mostrare in televisione me seduto sul divano che guardo la televisione (dove ovviamente sullo schermo ci sono io).
Mi pare che lei abbia voluto restituire al teatro il suo senso proprio attraverso la funzione di quel sipario barocco che non cala mai, ma si apre su una vertigine.
Sì, il sipario barocco disvela un antro che è una vertigine, perché al centro c’è la porta dell’inferno e ai lati il bancone di un bar ingombro di superalcolici.
Lo specchio, infatti, determina il meccanismo barocco: non deve essere un doppio sterile, ma attraverso l’oggettivazione esterna in un altro elemento, mostrerà la verità a chi guarda. Questa è la funzione del romanzo barocco ovvero del Don Chisciotte.
Lo spettacolo però è anche molto comico… Non è solo un’operazione intellettuale
Questo spettacolo è basato sul cabaret: due morti vi invitano sul loro palcoscenico nell’aldilà dove si vive una sorta di atmosfera allucinatoria. Trascinati dall’alcool che era la droga degli anni ’50, i due «mattatori» introducono a freddo i pezzi di Cervantes come se fossero alticci, in preda ad una sorta di veggenza o di delirio. Gassman, per esempio, beve «il biondo amico della notte» (whisky) e poi vede i mulini a vento. Quando scambia i mulini per giganti, però, Don Chisciotte non prende semplicemente "Roma per toma" perché la sua visione fa parte del concetto di maraviglioso dell’epoca nel quale si affermava l’identità di giganti e torri. Insomma, tra torri e mulini, poi, non c’è tutta questa differenza: è un mondo che egli non riconosce più e non vuole consapevolmente riconoscere (cioè il mondo della tecnica ndr).
 
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L’IMMORTALITA’ DI DON CHISCIOTTE E’ IL TEATRO
Come mai nell’opera si allude al fatto che ogni sera cambierebbero gli episodi narrati?
Ho voluto dare la sensazione di un’opera in fieri che viene costantemente ripetuta dai due attori, in uno spettacolo infinito, ma sempre con un testo diverso. Si presume, infatti, che Bene e Gassman reciteranno per sempre. Il palcoscenico del teatro si trova al Purgatorio: è lì che vogliono eternamente vivere, sebbene essi siano stati mandati in Paradiso, a dispetto di tutti i loro eccessi, mentre Dante è all’inferno, secondo un tipico meccanismo di inversione carnevalesca.
Per questo il suo Don Chisciotte non muore?
Il «Don» sul mio palcoscenico non muore mai. Inganna anche Cervantes: non muore perché sta al Purgatorio cioè, come dicevo, nel teatro (perché il Purgatorio è il luogo «ove ragion ne fruga» come spiega Dante nel III canto, ndr) luogo sospeso tra terra e cielo, tra Paradiso e Inferno. Questa soluzione viene anticipata da Miguel de Unamuno il quale ha scritto una Vita di Don Chisciotte e di Sancio dove attacca Cervantes perché a suo parere non avrebbe capito realmente il valore del suo personaggio. Secondo de Unamuno il fondamentale delitto di Cervantes è che interrompe il romanzo facendo rinsavire il protagonista e facendogli rinnegare la cavalleria errante. Il romanzo infatti, è costruito come una sfida e una lotta tra Cervantes, che non può più credere alla cavalleria e il suo personaggio che tenta di seguirla in tutto e per tutto.
A volte sembra che il suo Don Chisciotte sia nato improvvisando e che anche in scena lei stesso talvolta improvvisi…
E’ vero, è nato improvvisando e anche in scena c’è questo rapporto diretto con il pubblico al quale ci si rivolge e che rompe la finzione, anche introducendo gli applausi di un altro pubblico virtuale.
Inoltre, questo mio progetto ha preso corpo durante la tournee del Galileo di Brecht: durante le pause perseguitavo gli attori della compagnia di fronte a quali improvvisavo delle scene del Don Chisciotte con le voci di Bene e Gassman per vedere se «funzionavano» se avrebbero riso.
Ad un certo punto dello spettacolo si parla di identità, verità e amore, le tre domande che Don Chisciotte si pone, perché?
Che cos’è l’amore, l’identità, la verità: tutte e tre queste componenti sono messe in discussione dalla nuova visione del mondo dell’uomo moderno. Come Shakespeare lo fa con Amleto in modo tragico, Cervantes mostra attraverso il suo personaggio la precarietà di questi tre concetti che prima sembravano indiscutibili: Don Chisciotte non ha un’identità sua, ma è frutto di pura imitazione, la «sua» verità è un fatto del tutto soggettivo, e nel suo romanzo anche la realtà sembra sempre ingannevole; infine, come si fa ad amare una donna che non si conosce? Quindi tutte le certezze risultano volutamente sovvertite. E’ il mistero del falso che affascina più del vero e che da sempre fa parte del gioco del teatro e della letteratura.
Perché augura buon viaggio agli spettatori alla fine dello spettacolo?
Perché si immagina che anche gli spettatori siano entrati in questo luogo dell’aldilà privo di tempo, dove la loro stessa corporeità si sia frantumata, allora alla fine dello spettacolo sarebbe come dire «ricomponete i vostri elettroni e tornate a recitare nella vita».
Perché il personaggio di Don Chisciotte non è solo comico, ma anche ferisce?
Ferisce perché nell’opera c’è lo humour che rende ambiguo tutto. Lo humour è un’invenzione del Don Chisciotte: prima c’era la comicità, poi l’ironia ariostesca che già ci si avvicina, ma lo humour dilacera, perché pirandellianamente mette a nudo la verità. Non nasconde, ma esalta l’elemento patetico che viene svelato al di là dell’apparenza.

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RICORDO DI DUE «MATTATORI»
Gassman e Bene si conoscevano? Erano amici?
Sì si conoscevano ma non erano amiconi, direi piuttosto, «amicani», nel senso che si punzecchiavano spesso e volentieri.
Ricordo uno scontro su uno spettacolo di Carmelo Bene. Il figlio di Vittorio Gassman andò a complimentarsi con lui, ma Bene gli disse che suo padre lo aveva mandato perché non aveva avuto il coraggio di venire personalmente… Allora ad un incontro pubblico successivo, Gassman si presentò di sorpresa e lo mise in difficoltà chiedendogli che cosa fosse un anacoluto. Allora, poiché Bene non seppe rispondere, lo accusò di «coglionare» il pubblico.
Nello spettacolo spesso sembra che, in realtà, Bene e Gassman siano le due facce della stessa medaglia…
In effetti è così, come Sancio e Don Chisciotte, entrambi sono funzionali l’uno a l’altro. Del resto, Bene e Gassman venivano dalla stessa scuola di recitazione, detta dei «fonatori»: uno recitava di più con il diaframma e l’altro più di «maschera», ma entrambi con una sorta di intonazione musicale derivata forse anche dal fatto che inizialmente i testi teatrali venivano tradotti dal francese e mantenevano quella musicalità. Entrambi, perciò, hanno creato una sorta di manierismo, tant’è vero che sono imitabili. Si tratta di una recitazione «filosofica», astratta. Al contrario, ad esempio, della scuola di Salvo Randone che sembrava voler costruire una sorta di «parlato vero».
Com’erano umanamente Gassman e Bene?
Non erano due mostri di simpatia anche perché erano soggetti a continui cambiamenti di umore. Ma sicuramente erano due attori eccezionali. L’interpretazione più incredibile di Gassman è nel film I mostri perché rivela tutte le sue possibilità espressive, anche su registri differenti. Bene interpretava soprattutto se stesso e tendeva a sovrapporsi ai personaggi. Tra il Sorpasso e Profumo di donna, invece, c’è uno sforzo di recitazione, poiché si tratta due personaggi ben differenziati. E pensare che Gassman si vergognava a interpretare questi ruoli al cinema, invece erano geniali! Tra i due Gassman era una personalità forse più instabile, stranamente tormentato, come poi abbiamo visto negli ultimi anni della sua vita. Bene era un bevitore accanito di gin, un fumatore a livello autodistruttivo, con i suoi tre pacchetti di Gitanes al giorno, ma era più stabile nella sua sregolatezza, e al di là del suo «personaggio» come artista, era un vero gentiluomo del Sud. Comunque, i suoi eccessi non li ho mai molto apprezzati. A mio parere un artista finisce il suo apprendistato quando smette di essere un "genio".

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LE TAPPE DI UNA «VITA INIMITABILE»
Quali sono state le personalità artistiche che hanno segnato la sua carriera?
Ci sono tre grandi personaggi dai quali ho appreso molto: Aldo Trionfo, con il quale io e Carmelo abbiamo interpretato il Faust-Marlowe-Burlesque, regista geniale e quasi sconosciuto perché facendo il teatro solo per passione e non per vivere (visto che era di famiglia molto ricca) non pubblicizzava neppure i suoi spettacoli e non invitava i critici. Con lui Carmelo Bene ha interpretato il suo primo Caligola. E poi mi ricordo ancora un suo famoso Sandokan… A lui piaceva fare un tipo di teatro «di rivista».
Un altro regista importante per me è stato Luca Ronconi con il quale ho interpretato Medea: lui mi ha insegnato che il teatro può essere vissuto come esperienza e conoscenza filosofica.
E infine, Giovanni Testori perché creava i suoi testi modellandoli direttamente sull’attore e la compagnia che li avrebbe recitati, quindi è stata un’esperienza irripetibile. E’ stato fondamentale per me anche per il suo aspetto visionario, calato, però, profondamente nel reale, come quando rappresentammo In exitu su una scalinata della Stazione Centrale di Milano, usando una lingua lombarda tutta sua.
C’è uno spettacolo o un personaggio a cui è particolarmente legato?
In genere non è affatto vero che per interpretare un personaggio si deve sentire profondamente quello che prova, anzi, una volta conclusa una tournee spesso viene dimanticato, ma ce n’è uno che mi è rimasto veramente impresso: Hamm di Finale di partita di Beckett. Non lo so perché, ma le sue battute continuavano a riecheggiarmi nella mente, questo personaggio mi mancava, anche finite le repliche. Anche Medea, quando ero in scena vestito come Anna Magnani, per me è stato il massimo… E poi mi ha segnato molto, come dicevo, il protagonista di In exitu, ma ricordo anche con grande piacere lo spettacolo Nerone è morto, di Aldo Trionfo nel quale recitava anche Wanda Osiris.
Com’è il suo rapporto con il cinema e la televisione?
Con la televisione, non ho praticamente rapporti, semplicemente non mi interessa. Il cinema, invece, non è mai stato veramente il mio mondo: ho fatto cinque film con Tinto Brass perché è un amco e con lui sul set ci si divertiva. Per il resto, ogni tanto accetto qualche ruolo altrimenti – accenna un sorrisetto beffardo – il mio agente cinematografico resta disoccupato… Il cinema, insomma non è proprio il mio ambito, resta per me un altro mondo, un altro paese.
Come dovrebbe essere secondo lei il nuovo teatro?
Oggi si tende a descrivere quello che si vede e basta e chi lo fa rischia anche di essere definito un genio…. In realtà non sta proponendo altro che quello che vede. Il vero artista, invece, dovrebbe ricercare in ciò che osserva la verità sull’uomo. Occuparsi della gente che vive e chiedersi come può crescere, descrivere non basta; ci vorrebbe un teatro propositivo. Forrest Wallace è un grande autore contemporaneo proprio per questo perché non si limita a descrivere «l’orrenda società americana», ma si spinge oltre. Mostrare il nulla non basta: la difficoltà è far vivere nel teatro che cos’è l’uomo.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm

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