LA CASA DEI MORTI RACCONTA DI TUTTI NOI – Grande successo in questi giorni alla Scala per l’opera di Leoš Janáček

7 03 2010

«Gnomo: Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto: Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male…» (Dialogo di un folletto e di uno gnomo G. Leopardi)

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Da una casa di morti, scritta profeticamente nel 1928 dal grande compositore ceco Leoš Janáček è caratterizzata da un libretto estremamente drammatico di emozionante poesia, tratto da Memorie da una casa di morti, opera che racconta l’esperienza autobiografica di Fedor Dostevskij, inizialmente condannato a morte e poi internato nel 1849 in un campo di lavoro in Siberia per quattro anni a causa della sua adesione ad una società segreta sovversiva. La musica, molto espressiva, incalza lo spettatore che si sente in prima persona trascinato sulla scena, come in una presa di coscienza collettiva dei propri traumi peggiori e degli incubi più segreti. L’allestimento della Scala è veramente efficace e la regia di Patrice Chéreausegue e valorizza brillantemente la tessitura musicale.
Z mrtvého domu si interroga sulla vera natura degli esseri umani. Il nostro nemico è esterno oppure siamo noi stessi? Inimmaginabili eppure vere sono le offese che l’uomo può arrecare alla propria natura con livore autodistruttivo oppure infierendo in modi altrettanto brutali sugli altri. E le passioni sono sempre le stesse, alla fine c’è sempre lo stesso desiderio di amore struggente anche se vissuto quasi come una condanna, degradato e svilito. La casa dei morti è un luogo dove le persone si fanno a pezzi e non sono solo le guardie i carnefici. Tutti infieriscono su se stessi e sugli altri, prigionieri innanzitutto dei propri orrendi sensi di colpa, degli incubi per ciò che hanno commesso, si straziano nello spirito prima ancora che nella carne e più violentemente, eppure hanno un assoluto bisogno di raccontare le loro miserie, di rivelare pubblicamente quello che sono stati un giorno e come hanno perduto tutto. Nessuno si proclama innocente, tutti sono lì perché hanno veramente ucciso. Si rivela l’immagine di un mondo dove le violenze palesi sono in fin dei conti quasi meno orribili della repressione e dell’ingiustizia sociale in cui tutti sono immersi, delle continue brutalità nascoste nei rapporti umani più comuni.
Si scopre così che molte delle azioni più gravi restano senza un movente, senza una risposta plausibile, sembrano semplicemente reazioni incontrollabili volte alla distruzione di sé e degli altri. Perché, per esempio, Filka ha lasciato Akulina? Per moralismo? Per vendetta verso il padre? Per paura dell’amore? Non lo sapremo mai, ma è certo che con quel gesto ha segnato la disperazione per se stesso e per coloro che gli vivevano accanto. Akulina sembra una persona a cui tutto ormai appare indifferente: non le importa più di nulla ora che Filka se n’è andato, che la battano pure o che la uccidano tanto è già morta.
E Filka, che nel campo si fa chiamare Luka, morirà mentre Šiškov racconta come ha assassinato Akulina perdendo per sempre se stesso. Filka, a sua volta, ha da poco raccontato la sua storia: come ha ucciso il comandante della sua compagnia perché si era autoproclamato dio o forse, anche in questo caso, non c’era una vera ragione, e l’unico motivo è che semplicemente godeva nell’aizzare gli uni contro gli altri come cani.

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Il regista allestisce per questi racconti così tragici delle grandi scene corali semplicemente perfette che trasmettono potentemente l’idea della segregazione al limite della follia. La pantomima tragica continua poi nella scena del teatro dei detenuti, goffa e struggente rappresentazione del loro bisogno di amore e della mancanza del sesso.
Ognuno seguita a vivere i propri incubi come Skuratov che probabilmente ha ucciso involontariamente Lujza, l’amore della sua vita, cercando di assassinare il tedesco ricco che voleva sposarla.
Nel campo c’è un’aquila ferita che non riesce più a volare, e lo spettatore dà per scontato che morirà, che non può farcela: le guardie uccideranno anche lei oppure saranno gli stessi detenuti, per noia, per disperazione o per invidia delle sue ali.
In Siberia c’è bisogno di tenersi occupati e così le guardie sembrano doversi procacciare dei lavori da far fare ai forzati anche se occupazioni vere non ce ne sarebbero. Così pietre e rifiuti vengono portati in scena a mucchi appositamente per essere nuovamente trasportati fuori: una trovata geniale del regista per dimostrare che l’unica cosa che conta per le guardie è la loro sensazione di potere sugli altri uomini che li fa sentire stupidamente «salvi».
L’unico che si salva, invece, alla fine è il “signore”, Gorjančikov, al quale all’inizio vengono fatti pagare tutti i suoi privilegi, ma si sa, dopotutto, cane non mangia cane e arriva la grazia… Il signore però, detenuto per reati politici, è anche l’unico che in quella situazione è forse libero della libertà apprezzata da Dostoevskij: capace di solidarizzare con qualcuno anche in una situazione estrema: infatti aiuta un ragazzo povero insegnandogli a leggere e scrivere.
In questo abisso di dolore in cui sembra di precipitare senza fine succede qualcosa di veramente  imprevisto e grandioso: l’aquila ferita volerà e i detenuti la guardano allontanarsi estasiati, ma sulla terra i soldati continueranno a ripetere «Marsch!». «L’aquila è zar» urleranno più volte i forzati, sottolineando che essa non ha padroni, può vivere solo libera e questo è l’unico modo di essere veramente sovrani,  soprattutto di se stessi e delle proprie passioni che conducono alla rovina. E’ interessante notare come spesso questi uomini si siano perduti proprio per la cosa migliore che era loro capitata nella vita. Basta un piccolo cambiamento, una minuscola variazione ed ecco che l’occasione della vita si tramuta in perdizione, perché gli uomini non sanno accettare di perdere la loro illusione preziosa su cui avevano costruito i progetti futuri. Altri, invece, hanno forse solo dissipato l’esistenza perdendo tempo. Infine c’è anche chi, come Filka, ha vissuto semplicemente in perenne cruento conflitto con gli altri, invidiandoli e desiderandone il male, senza neanche sapere perché.
Bravi gli interpreti, su tutti il tenore John Mark Ainsley  nel ruolo di Skuratov e il basso Peter Mattei (Šiškov) La direzione visionaria, febbrile e aggressiva del giovane e bravissimo direttore finlandese Esa-Pekka Solonen valorizza ulteriormente quest’opera forte e incalzante, quasi feroce a tratti, essendo un’anticipazione drammaticamente realistica di ciò che poi accadrà durante la seconda guerra mondiale nei campi di sterminio nazisti. Un luogo da cui nessuno uscirà indenne, soprattutto i sopravvissuti ai quali resterà il pesante senso di colpa di essere rimasti vivi quasi a discapito degli altri, mentre nei loro occhi scorreranno per sempre le immagini incancellabili della fabbrica della morte.
 
Rossana Cerretti


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