IFIGENIA E LA POTENZA DELLA VERITA’ – L’etica e la coscienza, la società e il potere nel mito rivisitato da W. Goethe

29 11 2009
 
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E’ andata in scena in questi giorni al teatro Sociale di Brescia per la regia di Cesare Lievi la tragedia «Ifigenia in Tauride» di W. Goethe, realizzata in coproduzione con il Teatro Biondo Stabile di Palermo e interpretata con efficacia e partecipazione da un affiatato gruppo di giovani attori coadiuvati da una personalità di maggiore esperienza come Gigi Angelillo (Toante).
 
Chissà perché Cesare Lievi avrà scelto un’opera di Goethe così apparentemente lontana dalla realtà attuale? E’ probabile che, ad una prima impressione superficiale sia stata questa la domanda ricorrente nel pubblico di Ifigenia. Indagando, però, appena sotto la superficie della riproposizione del mito antico, ci si accorge della modernità e della complessità psicologica ed etica dei temi trattati dal grande scrittore tedesco. E si capisce anche perché l’autore combatté strenuamente con i suoi impegni di Stato pur di rielaborare l’opera completamente in una nuova edizione in versi.
Al suo interno, infatti, si agitano molte tematiche di carattere etico-filosofico che si spingono ben oltre il caso in sé e che superano anche il precedente della tragedia di Euripide. Inoltre, la traduzione moderna, curata dallo stesso Cesare Lievi valorizza appieno la portata universale del messaggio e sottolinea l’attualità delle tematiche trattate. Per quanto riguarda l’interpretazione degli attori, Lorenzo Gleijeses si è rivelato un Oreste che sa trasmettere la sua disperata energia al pubblico, avvalendosi anche dell’efficace contrasto offerto dall’amico Pilade (Fabrizio Amicucci). La recitazione di Maria Alberta Navello (Ifigenia) è apparsa talvolta troppo ansiosa e in contraddizione con il carattere misurato della protagonista secondo Goethe; al contrario, Arcade (Sergio Mascherpa), che probabilmente dovrebbe rappresentare il pensiero del popolo della Tauride, è apparso forse fin troppo equilibrato, sebbene giustamente perentorio.
 
Ifigenia come Lucia?
Nell’opera di Goethe Ifigenia assume le caratteristiche di una creatura salvifica, una sorta di manzoniana Lucia ante litteram: la sua sola presenza ha l’effetto di cancellare i costumi barbarici e sanguinari degli abitanti della Tauride, dove ella è approdata per il volere stesso della dea Diana; ma anche il fratello Oreste viene miracolosamente risanato dal suo intervento, e liberato dalla furia distruttrice delle Erinni che lo perseguitano. Infine, la giovane sacerdotessa di Artemide non vorrà mentire al re Toante, ma partirà con il fratello e con l’inseparabile amico di lui, Pilade, ottenendo la libertà con la sola forza della verità e dell’umanità. Anche Ifigenia stessa, però, alla conclusione della vicenda, avrà compiuto una sua positiva evoluzione, come sottolinea la scenografia, voluta dal regista in forma di tempio dalle alte mura che vengono via via smantellate nel corso della rappresentazione. Il santuario di Artemide, infatti, la protegge dalle brutture del mondo esterno, nonché dalla memoria delle vicende personali e della sua famiglia, ma è anche una sorta di dorata prigione, nella quale si trova in completo isolamento. Ifigenia, insomma, pur di non macchiarsi dei delitti dei suoi avi sembra quasi aver rinunciato a vivere. La salvezza di suo fratello Oreste, però, determinerà anche la sua liberazione, segno che per Goethe la libertà non è mai un fatto individuale o di pura trasgressione, ma piuttosto un evento collettivo, di adesione meditata e responsabile alle leggi della coscienza e del cuore e quindi della divinità.
Questa interpretazione della protagonista è un’originale invenzione dello scrittore tedesco che lo distingue nettamente dalla precedente versione di Euripide, nella quale la giovane, giunta in quella terra lontana, aveva continuato a compiere sacrifici umani in onore di Diana, secondo l’antico costume dei Tauri. Inoltre, anche nella parte finale, Goethe adotterà una significativa variazione rispetto al precedente greco, perché Ifigenia deciderà consapevolmente di non seguire l’inganno di Pilade per non tradire la verità della propria coscienza.
 
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La coscienza al di sopra di tutto
Come viene spiegato all’inizio dell’opera, l’autore, infatti, ha scelto una donna proprio per dimostrare che le vere armi capaci di cambiare in meglio la storia, portando la civiltà contro la barbarie, non sono quelle maschili della guerra, del potere e dell’astuzia, ma quelle della coscienza, della compassione e della purezza della verità. Le ragioni di umanità e verità si difendono da sole, senza armi, per evidenza, al punto che esse trovano posto anche presso i cosiddetti barbari. Anzi, in questo senso, si rivela apertamente la modernità di Goethe che sottolinea come non basti una condizione di progresso o ricchezza per fare di un popolo un esempio di civiltà, ma solo sul piano dell’umanità e dell’ascolto della voce del cuore e della ragione, contro quella del desiderio smodato, del possesso egoistico individuale e della violenza, si può dimostrare la vera superiorità di un mondo su un altro. Se i Greci, infatti, per favorire la loro guerra contro Ilio erano stati disposti a cuor leggero a sacrificare la pura e quasi angelica Ifigenia, non riconoscendone il valore sacrale, i Tauri, da loro disprezzati come esseri quasi bestiali, hanno interrotto la cruenta pratica dei sacrifici umani degli stranieri appena Ifigenia è giunta alle loro rive, riconoscendone immediatamente la valenza salvifica e respingendo così l’antica violenza. Hanno saputo vedere, cioè, quella grazia che il suo stesso popolo non era stato in grado di riconoscere in lei. Lo straniero, dunque, solo per l’umanità e la civiltà deve essere giudicato.
 
La forza del perdono sconfigge il karma degli antenati
A questo tema se ne intreccia un altro, volto, anche qui a sfatare il pregiudizio, dimostrando che le responsabilità sono individuali e che, nonostante tutti i precedenti negativi, un essere umano risponde soltanto di se stesso e del proprio valore. Stiamo parlando della maledizione che grava sulla famiglia dei discendenti di Tantalo, cioè gli Atridi, i quali sono perseguitati dai loro continui efferati delitti tra consanguinei. L’arrivo di Oreste che le rivela la tragica fine di Agamennone e la traumatica vendetta che egli stesso ha dovuto compiere, fanno sprofondare Ifigenia quasi nella disperazione, tanto più che sua madre ha ucciso il marito proprio perché ella lo riteneva reo di aver sacrificato la sua primogenita alla dea Artemide. Anche il suo sacrificio mancato, quindi, è rientrato a pieno titolo nella catena di delitti che sembra inarrestabile, e che rischia di continuare anche in Tauride, visto che il re Toante ha deciso di ripristinare i sacrifici umani degli stranieri per la dea proprio quando Oreste è arrivato nella sua terra insieme all’inseparabile Pilade. Toante, infatti si è invaghito di Ifigenia e vuole a tutti i costi sposarla, ma la ragazza, con il suo rifiuto, ha scatenato l’ira del re il quale ha pronunciato allora il terribile decreto.
Dal canto suo, Oreste, con un procedimento tipico dell’antichità, non vuole credere di avere di fronte sua sorella, non vuole credere che l’unica donna pura della sua casa, l’unica erede onorata della sua famiglia dovrà macchiarsi a sua volta di un fratricidio, ritornando così nel circolo vizioso di quelle orribili nefandezze che lo hanno fatto piombare nella disperazione. Ma l’arma usata da Ifigenia nei confronti del misero fratello – il quale invoca la morte dalla sorella stessa pur di liberarsi dalla follia del rimorso che lo attanaglia – è quella, davvero miracolosa, del perdono: ella, pur avendo appreso che egli è l’uccisore di sua madre, non lo chiama assassino, ma «infelice», mostrando prima di tutto la compassione e la solidarietà verso lo sventurato in preda a terribili sofferenze. La compassione vincerà, infine su tutto: dopo l’abbraccio di Ifigenia, infatti, Oreste in una simbolica discesa agli inferi sarà capace di scorgere tutti i suoi avi pacificati, completamente dimentichi degli orrori commessi e dell’odio, di quella incapacità di perdono degli uni verso gli altri che li ha spinti a perpetuare l’infinita catena di delitti. Solo Tantalo è ancora nel Tartaro a sopportare pene orribili, perché il dolore delle scelte di sangue è insopprimibile nella natura umana e, alla fine, bisogna accettarlo con rassegnata fermezza.

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La vittoria finale della verità sul potere e il pregiudizio

La purezza di Ifigenia salva il fratello, ma come potrà preservarlo dall’arroganza del potere?
Quest’opera di Goethe, tra l’altro, individua in modo emblematico i diversi atteggiamenti umani nei confronti della vita e del potere: se Ifigenia, infatti, segue prima di tutto le ragioni della coscienza comune a tutti gli essere umani in quanto tali, Pilade sembra incarnare la visione illuminista della preminenza del necessario e dell’utile, mentre Oreste fa ancora riferimento all’etica degli antichi eroi omerici, dettata dal valore e dal coraggio. Toante, invece, mostra come il potere assoluto, anche esercitato da un uomo giusto, susciti sempre la tentazione di essere usato per il soddisfacimento delle proprie passioni; Arcade, infine, il messaggero, rappresenta la voce popolare, spesso esprimendo un attaccamento quasi irrazionale alle antiche tradizioni.
In questa complessa situazione, Ifigenia dopo aver inizialmente seguito i consigli di Pilade che ha ordito un ingegnoso inganno «per necessità», visto che Toante non vuol sentire ragioni, decide, comunque, di dire al re la verità e lasciare la terra dei Tauri in pace con tutti. Incredibilmente, il re Toante, colpito ancora una volta dalla purezza e dalla coraggiosa sincerità della ragazza li lascerà andare perché, come afferma la giovane in un significativo passo dell’opera, l’umanità e il vero «li sente ognuno, sotto il cielo, se dentro il petto fluisce tersa e libera la sorgente della vita». La voce dell’umanità parla sempre agli uomini, ma è una brezza leggera che non deve essere sovrastata dalla tempesta dei desideri e delle passioni egoistiche. Questo perciò è il messaggio finale che Goethe lascia a tutti gli uomini: per ascoltare, la vera voce del cuore, quella che ci accomuna agli altri esseri umani, se si vuole arrivare al centro del nostro essere, si devono far tacere le passioni. Solo allora si potrà scorgere anche un barlume di felicità.
Il giovane poeta, che nel Werther aveva ipotizzato il suicidio per amore di una donna, trova qui ragioni più alte per continuare a vivere, ascoltando il messaggio universale dell’umanità e della coscienza e battendosi per la compassione e la fratellanza tra tutti gli esseri umani senza distinzione.
 




UNA SERATA CON ALBERTO GAZALE – L’eccezionale baritono verdiano ha dedicato ai suoi fans una serata speciale

23 11 2009
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L’ennesimo «Trovatore» di questa stagione in una Trieste sempre bellissima e dall’inossidabile fascino mitteleuropeo. Sabato 21 novembre al Teatro Verdi con il suggestivo allestimento di Alessandro Ciammarughi e la brillante regia di Stefano Vizioli, è andata in scena l’opera del verdiano Manrico in una versione segnata da luci ed ombre. Deboli si sono rivelate soprattutto le voci femminili: la mezzo soprano Mariana Pentcheva (Azucena) ha recitato con molto pathos e si è distinta per la bella presenza scenica, ma talvolta non è riuscita a creare quella tensione vocale tipica del personaggio della zingara tra i bassi, peraltro bellissimi, e gli acuti (a volte forzati) che sono alla base della fortissima intensità emotiva della partitura verdiana; anche il soprano Tatjana Serian (Leonora) ha interpretato con difficoltà e incertezze la bella contesa tra i due fratelli ignari l’uno dell’altro, peccando a sua volta sulle note alte e sul fraseggio.

Le voci maschili, però, hanno riscattato la rappresentazione con la buona prestazione del basso Carlo Cigni (Ferrando) e la bella prova del coreano Francesco Hong che ha mostrato, seppure senza eseguire il «da capo» della «Pira», le sue buone doti canore e una brillantezza vocale molto interessante. Dulcis in fundo, meritatamente applauditissimo, è stato il baritono Alberto Gazale il quale nei panni del Conte di Luna ha messo in evidenza tutte le caratteristiche e le complessità di questo tipico personaggio verdiano: un cattivo con i tratti dell’umana passionalità quasi in preda ad un freddo delirio, un innamorato che non conosce limiti al proprio desiderio fino a farlo diventare brama e quasi follia. Una tragedia della gelosia fratricida che talvolta assume tratti decisamente freudiani.
Dopo la sua superba prova, che ha ricordato in diversi momenti, nella patria di Piero Cappuccilli, la limpida finezza e la potente autorevolezza vocale del grande baritono scomparso nel 2005, Alberto Gazale ci ha accolto con grande affabilità nel suo camerino, invitandoci poi a cena in occasione del suo compleanno. Un privilegio inaspettato per i suoi fan più affezionati che ci ha permesso di chiacchierare con lui con calma, di ascoltare il suo parere sulla sua professione e sul mondo della lirica e di rivolgergli anche qualche domanda.

 

 

Vendetta, tremenda vendetta!

Secondo lei in che condizioni è attualmente la situazione della lirica italiana?

Temo che in queste condizioni potrà durare ancora ben poco, e molti sono i fattori che determinano la situazione attuale: da un lato sicuramente c’è la mancanza di fondi e il continuo taglio delle risorse; un altro aspetto di cui, però, i direttori artistici dovrebbero tener conto, è la popolarità di uno spettacolo. Certo, per i grandi appassionati può risultare talvolta anche più interessante l’allestimento di un’opera poco conosciuta, ma questa non attira il grande pubblico e, inoltre, non si riesce poi a vendere la produzione ad altri teatri. A volte per incompetenza o sopravvalutazione sono stati spesi molti soldi per opere che il pubblico ha accolto con freddezza.

Una sua eccezionale interpretazione del personaggio di Nabucodonosor sia per il canto sia per la recitazione


A suo parere esistono ancora delle voci promettenti nel panorama italiano?

Io spero di sì anche se in Italia avremmo bisogno di più scuole di canto e, soprattutto, di bravi insegnanti. Difficilmente un cantante non molto abile può diventare un grande insegnante, ma purtroppo, può anche capitare di trovare chi non sa trasmettere le proprie capacità ad altri e chi non si sente portato per questa attività. Può capitare che anche grandi interpreti non si dedichino poi all’insegnamento, una volta conclusa la carriera di cantanti. E questo è decisamente un peccato. Voci giovani ce ne sono anche, ma talvolta difettano di insegnanti, come ho avuto modo di constatare proprio ieri a Sirmione.
 
Di che manifestazione si è trattato?
Mi hanno chiamato per scegliere insieme alla giuria del concorso voci nuove per la lirica «Lina Aymaro», i vincitori del premio che consisteva in 5 borse di studio di cui 4 di 2000 euro e una di 4000 euro per tre anni, destinate a cantanti promettenti e molto giovani. Abbiamo cercato di dividere i fondi messi a disposizione tra i diversi tipi di voci scegliendo, in linea di massima, un basso, un baritono, un soprano ecc. Hanno partecipato alla selezione anche diversi giovani stranieri, ma, in gran parte, sono stati premiati i concorrenti italiani, segno che anche nel nostro paese ci sono concrete possibilità di avere nuove leve nell’ambito della lirica. E’ stato molto difficile scegliere tra i ragazzi, perché si trattava di distinguere anche in prospettiva, cercando di stabilire chi avrebbe potuto essere più ricettivo e avere migliori potenzialità di maturazione. E’ stata un’esperienza molto interessante.
 
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Certo che il cantante lirico è sempre in qualche modo in balia della sua voce, che è uno strumento molto delicato…

Diciamo che nel nostro ambiente ci sono due tipi di cantanti: le voci sovrumane, quei talenti eccezionali che nascono già con uno «strumento» nella gola completamente formato e pressoché perfetto, e poi ci sono i cantati ben dotati, ma comunque più comuni i quali costruiscono la voce con un lungo studio.
 
Può farci un esempio?
Uno degli esempi più famosi è Carlo Bergonzi, il mio maestro, il quale aveva una voce bellissima e molto versatile, ma costruita anche molto con lo studio.
 

Mentre la serata va avanti e si sta amabilmente chiacchierando con Alberto Gazale – che ormai molti critici considerano l’erede più autorevole delle grandi voci liriche del passato – arriva per un saluto e per gli auguri, anche Claudio Sgura, il baritono del secondo cast, voce interessante e interprete sempre più promettente del repertorio verdiano. E’ preoccupato, nonostante la buona prestazione personale, perché nella recita del secondo cast c’è stato qualche problema e il pubblico pare non sia stato tenero soprattutto con il tenore…

Cogliamo la palla al balzo per chiedere un parere proprio a Gazale.


Secondo lei un cantante se ne accorge quando canta male?

La brillante interpretazione di Iago nell’Otello

Sì certo che se ne accorge, il fatto è però che qualche volta spera di poter portare a termine dignitosamente lo spettacolo anche se fin dalla mattina si accorge che quel giorno la voce manca. E perché questo accada non è sempre facile da stabilire. Di sicuro valgono ancora le care vecchie regole ricordate dai maestri: niente ore piccole o stravizi, non si deve parlare, o parlare comunque poco il giorno prima dello spettacolo, e lavorare sempre con costanza e abnegazione.
Insomma, la leggenda sui cantanti lirici, i quali sarebbero quasi degli asceti dediti anima e corpo alla Musa Polimnia, almeno in parte è vera…
Certamente, se si vuole mantenere la propria voce ci vuole molta cura, attenzione e altrettanto lavoro. Inoltre, per essere sicuri di offrire delle prestazioni sempre di alto livello al pubblico non si deve strafare: inutile eseguire ruoli che non sono nelle proprie corde o lo sono in tono minore. Per esempio, io mi sento soprattutto un baritono verdiano. Inutile, a mio parere, anche se spesso me lo hanno chiesto, presentarmi nei grandi teatri con ruoli che non mi si addicono appieno come quello di Scarpia nella Tosca o di Escamillo nella Carmen. Meglio evitare di voler fare tutto. Si può avere un repertorio comunque vasto, ma su un genere più circostanziato. Io, come dicevo, tendenzialmente sono un verdiano.
 
Già come a gennaio quando proporrà alla Scala il Rigoletto in cui le recite saranno suddivise tra lei e Leo Nucci… Dovremo venire a vedervi entrambi…
E’ un onore per me questa alternanza con un grandissimo della nostra lirica. Poi io tengo particolarmente al personaggio di Rigoletto che ormai è diventato parte di me da quando l’ho interpretato in una storica edizione con Riccardo Muti nel 2000, debuttando a Tokio e poi alla Scala e che ho riproposto quest’anno a ottobre negli spettacoli del Maggio Musicale Fiorentino. E’ un personaggio che sento molto e che mi ha sempre dato grandi soddisfazioni. Allora ci vediamo alla Scala!

Alberto Gazale nel Rigoletto al Maggio Musicale Fiorentino ottobre 2009

 
In attesa di vedere Alberto Gazale all’opera nella veste del più tragico ed eccezionale buffone di corte della storia del teatro, siamo ormai al brindisi finale: Tanti auguri Alberto, e tanti complimenti sia per la bellissima voce che per la spontanea, autentica umanità.
 
 
 

                                                Rossana Cerretti e Marco Sonaglia

 




«Sono nata il 21 a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta»

2 11 2009

Si è spenta a Milano, all’età di 78 anni, Alda Merini una delle voci più ispirate ed autentiche della nostra poesia contemporanea

 

 

 

TERRA SANTA

Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da agenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello di Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.

 

Alda se n’è andata, forse dove aveva sempre voluto: diceva, infatti, di non aver paura della morte, perché in essa era contenuto il senso ultimo dell’esistenza, come «una riviera musicale, il seno curvo della donna amata». Nata il 21 marzo 1931, il primo giorno di primavera, come spesso amava sottolineare, non ebbe certo una vita facile, segnata dall’incomprensione della scuola e della famiglia e da frequenti internamenti in ospedale psichiatrico dei quali il più lungo tra il 1961 e il ’72. Nonostante tutto, con il carattere coraggioso e appassionato che sempre la contraddistinse, la Merini visse intensamente dal punto di vista sentimentale, avendo anche quattro figli, che però spesso le venivano sottratti a causa delle sue condizioni di salute. La sua attività poetica fu decisamente precoce: infatti, cominciò a scrivere a 16 anni e venne in contatto con gli ambienti letterari del dopoguerra, intrattenendo rapporti di collaborazione e amicizia, tra gli altri, con Salvatore Quasimodo.

 

 

Tra le sue opere più importanti ricordiamo «La Terra Santa» (1984), dedicato alla sua esperienza in manicomio e «L’altra verità. Diario di una diversa» (1985). Nel ’91 scrisse poi «Le parole di Alda Merini» per giungere agli «Aforismi» e al volume «Reato di vita, autobiografia e poesia» del 1994. Tra le ultime opere ricordiamo «La clinica dell’abbandono» pubblicata nel 2004. Le sue poesie hanno ispirato anche diversi musicisti e cantanti come Giovanni Nuti, Roberto Vecchioni, Milva. Negli ultimi anni il suo valore poetico è stato riconosciuto anche attraverso numerosi premi e onorificenze, come il Librex-Guggenheim "Eugenio Montale" per la Poesia che nel ’92 l’ha consacrata tra i grandi letterati italiani, la nomina a Commendatore della Repubblica nel 2002 e la laurea honoris causa in Scienze della Formazione all’Università di Messina (2007).

Forse la poesia confina sempre con la follia. Così è stato per il grande poeta tedesco Holderlin, che, per la cocente delusione dell’unico amore della sua vita, si fece rinchiudere volontariamente in una torre e ne uscì solo dopo la morte. Il nostro geniale Dino Campana non resistette agli incubi della sua mente e finì i suoi giorni in manicomio; né sapeva sopportare l’esistenza Torquato Tasso, il quale – a detta dei suoi contemporanei – intratteneva lunghi dialoghi con un suo «genio familiare» che soltanto lui vedeva. Il latino Lucrezio morì suicida perché – si diceva – impazzito dopo aver bevuto un filtro d’amore. In realtà, forse, l’unico vero filtro amoroso del poeta è la poesia stessa, perché «i poeti non si redimono, vanno lasciati volare tra gli alberi come usignoli pronti a morire» scrisse Alda Merini. Così è stato certamente per lei che alla vita ha dato tutta se stessa, senza remore, senza riserve, in un’apertura «nuda» che effettivamente soltanto un puro folle alla Parsifal avrebbe potuto concepire, perché «l’anima e soprattutto la follia vanno oltre le cose reali, immaginano una verità vera non contraffatta dal caso». Come l’antico mistico cavaliere del Graal anche lei fu costretta a passare lunghi anni nella «terra desolata», mentre il genio poetico le scavava dentro le parole che neppure il suo stesso io conosceva. «Oh bambina che sei dentro di me senza una casa. Bambina che vedi crescere una donna senza un amore», scrisse di se stessa. La sua terra desolata fu il manicomio, perché non c’è nulla di più dirompente della verità al di là delle apparenze, al di là della vita convenzionale. 

 

 

Alda Merini fu una vittima delle leggi che rifiutavano qualunque tipo di diversità psichica, e, sebbene il suo genio poetico fosse stato precocemente riconosciuto, ciò non valse a salvarla dall’orrore. Eppure quelle sofferenze furono per lei il «vestito incandescente» che creò la parola poetica, quello che cambia la percezione della realtà, per giungere alla «limpida meraviglia di un delirante fermento», come scrisse un poeta a lei molto vicino, Giuseppe Ungaretti. Anche la Merini, infatti, concepiva la sua poesia come un atto di illuminazione, qualcosa che sorge dalle profondità dell’essere proprio nel momento in cui si crede di toccare il fondo dell’umana sofferenza e disperazione. «Il poeta non è mai solo – amava dire – è sempre accompagnato dalla meraviglia del suo pensiero» Uno stupore che le permetteva di trasformare quella realtà di miseria e di dolore in un itinerario verso la profonda comprensione del mondo e dell’uomo. Un cammino mistico e dionisiaco insieme in cui la poetessa era quasi incosciente e le parole sgorgavano dalle profondità dello spirito in un impulso nativo, in un attimo di vita iniziale, venuto da chissà dove, come una divina Sibilla. E proprio alla divinità spesso si rivolgevano le sue poesie, al profondo senso del divino che la animava e alla sua consapevolezza intuitiva di esserne quasi la voce, per quel suo dono speciale di cui ignorava l’origine. Il suo Cristo era quello degli ultimi, degli emarginati; la sua fede, vissuta nella carne ancor prima che nella coscienza, con l’adesione e l’abbandono di chi vede nella figura del crocifisso l’immagine della condivisione delle sue stesse sofferenze e il fulcro, il senso profondo della realtà e del suo svelarsi.  

 

 

Alda Merini era sempre innamorata, e non poteva essere che così, abbandonata totalmente al suo spirito appassionato che la spingeva dove gli altri non avevano il coraggio di giungere, portatrice di quell’amore che confinava con la follia, ma metteva in contatto profondo con se stessi e con la realtà. La follia – diceva Alda – era un modo, l’unico forse, di vedere chiaramente. Era una forza dirompente e rivoluzionaria. «Le più belle poesie Si scrivono sopra le pietre Coi ginocchi piagati», prostrati a terra, eppure innamorati di quello strazio meraviglioso, di un «tu» che forse superava anche l’interlocutore di quel momento e l’uomo a cui la poetessa si riferiva. Il «tu» svelato dalla percezione stessa del mondo, nella visione di una superiore bellezza vagheggiata come la «cara beltà» del Leopardi.

 

Per Alda Merini la poesia fu una discesa agli inferi per risorgere dopo aver incontrato i propri demoni e aver strappato loro, incurante delle ferite, l’illuminazione delle verità dell’anima. Così oggi che non è più nelle apparenze, ma solo nella grande testimonianza delle sue parole, potrà finalmente abitare solo con gli angeli.