26 12 2008
13 Dicembre 2008
Come Dio comanda
Te la senti addosso quella pioggia fredda, incessante, che scroscia senza tregua nella notte e sembra creare da sola il buio sul mondo…
«Come Dio comanda», l’ultimo film di Gabriele Salvatores (tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammanniti) racconta una vita ai margini dove il dolore non rende affatto migliori, anzi, quasi fa dimenticare la forma umana, mentre prevale l’ansia di sopravvivere nel suo aspetto ferino e ogni contatto diventa solo una violenza fatta o subita.
Un percorso verso l’inferno nel quale si scivola lentamente, scendendo tutti i gradini verso il fondo come in certi romanzi di Zola, ma siamo drammaticamente nell’oggi, nella violenza crudele dell’hic et nunc.
Di certo in questo film non esiste l’idea del povero «buono», alla «ricerca della felicità» di mucciniana memoria; tutt’al più il povero può essere bello, ma di una bellezza catatonica e incosciente, consumata dalle porte chiuse in faccia e dai «no» continui dell’esistenza.
Perciò si vive sognando una possibile rivincita sociale fatta di parole e simboli impresentabili che testimoniano l’estremo tentativo di difesa da un mondo vissuto come ostile ed estraneo. Non esiste alcuna solidarietà sociale ed intorno il povero e disoccupato ha soltanto il deserto, le ciminiere, la pietraia nuda. Questo è l’orizzonte della vita dove anche la natura appare corrotta, assumendo un aspetto artificiale e degradato dal lavorio delle ruspe e dei cantieri, dal lento scorrere di un fiume su un greto irto di sassi senza colore. Paesaggio carsico che ci conquista e ci atterrisce come correlativo oggettivo della coscienza. Lontano nuvole di fumo si levano alte: «altri» lavorano, «altri» producono, «altri» vivono, forse; certo non il protagonista.
L’unico elemento che lo tiene ancorato a questo mondo è la presenza del figlio con il quale ha un rapporto strettissimo, difficile e unico basato sul vicendevole «abbarbicarsi» l’uno all’altro per non essere definitivamente travolti. Uno stringersi e chiudersi a riccio in una famiglia di rifiutati: Rino, Cristiano e «Quattro Formaggi», l’amico reso disabile da un incidente sul lavoro.
La pioggia accompagna costantemente la loro esistenza, battente e fredda come una pena infernale per una colpa sconosciuta. La pioggia che fa luccicare, cancella e nasconde, confonde nel caos di una visione offuscata. Se questo è il mondo esterno, il resto della vita si svolge nello stesso degrado tra muri scrostati, una branda al posto del letto e un solo pezzo di formaggio ammuffito in frigo. La violenza rabbiosa del protagonista, il suo saper menare le mani, la sua passione per le pistole, non servono affatto a difenderlo, anzi, dimostrano soltanto la sua totale impotenza rispetto ad una società che ormai lo ha abbandonato al suo destino.
E le donne? Le donne semplicemente non esistono in questo presepe di cartone, come quello che Quattro Formaggi ha creato nello scantinato che sarebbe casa sua: le donne sono solo fugaci apparizioni e nient’altro, atterrite dalla miseria e dalla follia. Nel suo presepe tra la capanna e i pastorelli c’è posto anche per le ciminiere, Goldrake e Cip e Ciop, ma su tutti campeggia un schermo piatto, dove Ramona supersex si fa scopare a getto continuo 24 ore su 24 sempre nella stessa, ossessiva scena. Le donne sono due braccia di gomma che escono dal televisore mentre Ramona ti guarda e ti bacia…
Non ci può essere rapporto tra questo mondo «altro» e la società che lo ha posto ai margini; qualunque tentativo di contatto diventa occasione di scontro, umiliazione, menzogna o violenza. Le menzogne che si raccontano all’assistente sociale stile «dama di San Vincenzo»; l’umiliazione di elemosinare un lavoro che non arriva; lo scontro con chi ha tutto anche soltanto per prendersi una rivincita. E infine la tragedia perché l’incontro non è possibile, e si scatena soltanto la crudeltà disperata, quasi involontaria di chi non ha mai avuto nulla e vorrebbe solo qualche briciola. Il presepe si distrugge, lo schermo continua a trasmettere, la luce si spegne.
Restano un padre e un figlio ora finalmente coscienti del profondo legame reciproco e forse pronti a risalire in qualche modo dal fondo…
Notevoli le soluzioni registiche, alcune scene restano impresse nella memoria, assumendo un significato archetipico.
Il «folle» di Elio Germano ha davvero una marcia in più.
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