SHUTTER ISLAND, L’ISOLA DELLA FOLLIA – Di Caprio e Scorsese perduti nel labirinto della mente

1 04 2010

COMPLOTTO O FOLLIA?
Uno Scorsese senza via d’uscita, dove le ombre della dittatura nazista e della manipolazione psichica sono ancora fra noi o forse fanno parte delle nostre stesse anime, creando un mondo di violenza e di orrore.
Un uomo solo, l’agente dell’FBI, Teddy Daniels, brillante investigatore ed eroe della seconda guerra mondiale,
si trova a misurarsicon il ritorno degli incubi del passato dove il ricordo dei campi di sterminio e le terribili esperienze della sua vita privata si collegano e si confondono, in un continuo passaggio tra visioni e realtà. Per seguire l’andamento di questo film geniale, ma tutt’altro che facile, si deve subito comprendere che è girato completamente seguendo il punto di vista soggettivo del protagonista. Lo spettatore viene messo volutamente in una condizione di incertezza perché conosce soltanto ciò che nel corso della narrazione Daniels scopre di se stesso e di ciò che lo circonda. Si vive in un perenne dubbio sulla verità e sulla sostanza della realtà in una dolorosa sospensione e angoscia da «grande fratello». Il regista vuole che anche noi come il protagonista ci «ammaliamo» di fantasmi, ci perdiamo nel labirinto, cominciamo a dubitare di noi stessi all’interno dei sotterranei di Shutter Island
La vicinanza con la violenza all’inizio sembra aver attraversato Daniels lasciandolo indenne, ma poi ci si chiede, in modo sempre più incalzante, fino a che punto, ormai, essa faccia parte di lui. Per tutto il film si resta in bilico tra l’idea di un complotto dai connotati neonazisti, una sorta di rigurgito dei mostri del passato, ritornati per fomentare l’atmosfera di paura del mondo attuale, e l’angosciosa e graduale scoperta dei propri demoni privati ai quali non si è saputo far fronte e che si è scelto semplicemente di rimuovere.
La coscienza di Teddy Daniels non viene piegata, ma la società, ormai, sta andando in un’altra direzione e per lui non c’è più scampo. E’ la conclusione amara e definitiva di Scorsese, che, contrariamente ad altri suoi film, non ipotizza alcuna via d’uscita possibile che ripristini la giustizia e la legge.

UNA CONTINUITA’ POETICA
Se in Gangs of New York si raccontava la genesi degli States in modo violento e insensato e si ritraeva la società americana, fin dai suoi fondamenti, come una compagine di esseri volti alla sopravvivenza ferina e totalmente privi di umanità; se in The Departed c’era, comunque, la possibilità di scoprire l’assassino e il traditore sebbene a prezzo della morte dell’eroe positivo, in Shutter Island le vie d’uscita si sono ridotte completamente a zero per l’unico che vuole opporsi alla dittatura strisciante esercitata con metodi nuovi e, se possibile, ancora più temibili: Scorsese appare durissimo, al punto che sembra quasi che Teddy Daniels (un allucinato, emozionante e bravo Di Caprio) si trovi alle prese con un nuovo progetto di creazione di una società governata dall’alto attraverso il controllo di tutte le reazioni umane per mezzo di farmaci. Un controllo invisibile e capillare già pienamente in atto al punto che ormai è impossibile fermarlo e l’unica cosa che si può ancora fare è accettare di morire da uomini, ovvero pirandellianamente da folli. Questa almeno, sembra essere la spiegazione più logica del film, considerando i punti fondamentali della poetica di Scorsese e del loro svolgimento in questi anni. Ma il fascino di quest’opera sta, comunque, proprio nella sua voluta ambiguità, affinché lo spettatore continui a chiedersi se il protagonista si trovi a misurarsi con un male interno o esterno alla natura umana stessa: sembra, infatti, che il male attraversi l’uomo e lo colpisca irrimediabilmente impedendogli poi di ritrovare la salute. Tutti cercano di dissuadere il protagonista dalla ricerca della verità, tentano di fargli capire che si tratta di un tranello creato apposta perché lui da quell’isola non se ne vada mai più. Partito l’ultimo traghetto sarà finita, ma l’agente Daniels, il grande investigatore, non molla la presa e le visioni, forse dovute ai farmaci, che sempre più ferocemente lo martellano si impossessano di lui, fino, probabilmente, a deformare il contenuto stesso dei suoi ricordi. Esiste un senso di colpa non solo per ciò che si è fatto, ma anche per quello che non si è riusciti a fare, per chi non è stato possibile salvare. E gli psichiatri di Shutter Island lo sanno molto bene. Con la crudeltà di una terribile tortura psicologica, la mente di Daniels viene smontata e rimontata distorcendo il suo vissuto e inserendovi altri elementi ex novo, congruenti con i traumi già provati e quindi credibili sia per noi sia per il protagonista. Eppure Daniels rivendica fino alla fine se stesso e si rifiuta di diventare un altro di coloro che non vedono, non sentono e non parlano all’interno di questo ospedale psichiatrico situato su quest’isola irraggiungibile e lontanissima dalla civiltà. Piuttosto che rendersi complice preferisce morire. Anche se il suo sacrificio non servirà a nulla a livello sociale, rappresenterà almeno il suo disperato tentativo di restare fino in fondo uomo. Daniels tornerà ad essere Daniels e preferirà «morire da uomo che vivere da mostro», cioè senza quegli orribili ricordi, veri o presunti, che hanno distorto ormai per sempre la sua mente.

L’OMBRA DEL MACCARTISMO

 Che il film sia un tentativo di mostrare come il potere possa influenzare le menti al punto da pilotarle completamente è evidente anche nel commento di Dennis Lehane, l’autore del libro da cui Scorsese ha tratto la sceneggiatura: «Ho cercato di analizzare quello che succede quando la libertà di parola viene
messa in discussione. Ho trovato paralleli inquietanti fra il 2003 e il 1953, l’apice del maccartismo. Se qualcuno – mi riferisco in particolare al governo – riesce a farti preoccupare di ciò che dici, prima o poi riuscirà anche a farti preoccupare di ciò che pensi e, e a quel punto, la tua mente rischia di subire un tracollo.». C’è da tener conto, però che dato il cambiamento di clima politico verificatosi negli States tra il 2003, in pieno governo Bush, ed oggi, il regista potrebbe aver voluto ritrarre un caso emblematico a finale aperto, proprio per non calcare la mano sul tema originario dell’oppressione politica, ma puntando sul fascino del viaggio stesso all’interno dei proprio demoni. Tesi che potrebbe essere avvalorata anche
dalla strana decisione di posticipare di alcuni mesi l’uscita del film da ottobre 2009 a febbraio 2010. Forse per modificare la parte finale dell’opera? In ogni caso, questo viaggio nella coscienza è realizzato a livello registico in maniera esemplare, con immagini che toccano nel profondo e ci accompagnano ben oltre l’uscita dalla sala., come quando la cenere che continuamente pioveva sui campi di sterminio nazisti si trasforma nelle foglie rosso sangue del giardino della casa sul lago dei Daniels.

UN GENIALE MANIERISMO
Il film è organizzato come un thriller, in cui la forza degli elementi infuria accompagnando lo scatenarsi delle componenti più segrete della coscienza e dei suoi sensi di colpa. La potenza distruttiva dell’acqua risulterà, infatti, l’elemento chiave e discriminante dei ricordi del protagonista.
Le visioni che Scorsese crea in relazione alla forza del male sono paragonabili all’atmosfera oppressiva ed allucinata di Apocalipse Now, ma più ancora agli incubi della coscienza e al ritorno inquietante dei morti tipici di Stanley Kubrick. C’è moltissimo cinema in questo film, anche di Hichcok, ad esempio, ma sempre in funzione della narrazione e della potenza espressiva della vicenda. L’eccezionale uragano che si scatena sull’isola e l’ossessione dell’acqua che impedisce al protagonista di riemergere dai suoi orrori
rappresenta forse il terribile viaggio dentro se stessi, una seconda rinascita non alla vita ma alla morte. Seguendo dall’interno la mente del protagonista, lo spettatore si trova a sua volta catapultato in un labirinto di indizi e controindizi ambigui, perché ognuno di noi non sappia mai quanto sia manipolato
dal potere e quanto, invece, la propria infelicità sia dovuta alle violenze private e inconfessabili sepolte nei recessi più oscuri della memoria. O forse non sa quanto i due piani finiscano per confondersi in un unico insondabile groviglio, perché chi ha vissuto accanto alla violenza e al sangue o ne è stato in qualche modo protagonista vivrà per sempre in compagnia dei propr

 

Rossana Cerretti

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