VIOLETTA E LA SINDROME DI STOCCOLMA
La grande forza emotiva di quest’opera completamente concentrata sull’amore, si basa proprio sulla negazione e la fragilità intrinseca di questo sentimento. Nella Traviata l’amore è sempre fuggevole, nel momento in cui viene affermato è già in pericolo, è già minato alle fondamenta e quando non lo è Verdi lo rende tale, non raccontandolo, ricorrendo ad un’ellissi narrativa. Contrariamente a quanto avviene nell’opera teatrale di Dumas, Verdi sacrifica tutta la parte in cui i due giovani innamorati si incontrano e decidono di andare a vivere insieme. Dall’inizio della storia, quindi, si passa subito ad una sua prima drammatica conclusione; come nelle parole che Violetta dirà mentre si accinge ad andarsene ad un Alfredo del tutto ignaro e incapace di comprendere «Amami, Alfredo, quant’io t’amo. Addio» Esse esprimono appieno la felicità sempre fugace e l’amore traumaticamente spezzato nel momento in cui sembra aver trovato il proprio coronamento.Il II atto, infatti, si apre già sulla vita dei due giovani in campagna tre mesi più tardi e sulle loro prime difficoltà.. Si passa dall’unico attimo di gioia immensa di Alfredo che crede di vivere «quasi in ciel» da quando lei ha lasciato tutto per seguirlo, alla scoperta amara che Violetta si sta vendendo ogni cosa pur di venire in soccorso finanziario all’amante, diseredato dal padre. Il giovane Alfredo, così poco esperto della vita ed ingenuo («dell’universo immemore io vivo») sembra all’oscuro di tutto: come se si svegliasse da un bel sogno che «il vero» giunge a distruggere; ma questo è solo l’inizio della rovina, lo spettatore lo intuisce seguendo i tristi presentimenti che, come al solito, Verdi dissemina nel libretto e nella musica.
Alfredo non ha alcun senso pratico non sa niente della vita. E’ questa forse la motivazione per la quale si è innamorato di Violetta: la sua sostanziale innocenza ha saputo vedere quello che nessuno aveva visto in lei, ma è anche il suo difetto più grave. Così, mentre Alfredo tutto trafelato e mortificato va a Parigi per cercare soldi in famiglia, avviene l’impatto con la realtà più vera e gretta delle regole sociali: Giorgio Germont il padre del giovane, piomba nella loro casa di campagna dove trova Violetta e qui approfitta della situazione. La ragazza è sola ed è facile metterla in crisi: in fondo lei vede nel padre di Alfredo i genitori che non ha mai avuto, e poi ora che ha provato l’amore si sente sporca, indegna, a causa della vita di prima. Giorgio Germont capisce subito che questa non è la donna che si era immaginato: la trova, infatti, mentre sta vendendo tutto il suo patrimonio per poter mantenere Alfredo. Quindi Violetta, non è interessata al denaro e anche Germont si chiede perché abbia avuto un passato così disdicevole. Dopo un momento di stupore, però, le ragioni di famiglia prendono il sopravvento (sua figlia per via di questa relazione illecita è stata respinta dal fidanzato) e decide di andare comunque fino in fondo, solo cambia tattica: se davvero lei ama Alfredo lo lascerà proprio per non rovinarlo, si impone un «sacrifizio» esemplare. Perciò Violetta dovrà lasciarlo per sempre. Lei risponde che è impossibile, lo ama ed è sola al mondo, chi si occuperà di lei? E poi è malata le resta poco da vivere, così la ucciderà. Ma Giorgio sottovaluta questa affermazione e anzi approfitta della sensibilità della donna, facendo leva sui suoi sensi di colpa e sul suo desiderio inconscio di espiazione e sacrificio. La fa sentire addirittura parte della famiglia, anzi, una sua benefattrice: «Siate di mia famiglia l’angiol consolatore»
La società è molto chiara a riguardo: chi osa unirsi pubblicamente ad una donna come lei in una relazione seria e non come amante di una notte avrà tutta la famiglia marchiata dal disonore. Violetta tutte queste cose le sa. Si noti che Verdi nella cosiddetta trilogia popolare ha voluto mettere in scena tre personaggi reietti per vari motivi, tre personalità di emarginati e per questo destinati alla rovina, nonostante tutti i loro sforzi di creare un’isola di bellezza e verità nella loro vita. Il sentimento di vendetta o di disperazione prevale sempre. Germont la blandisce con i soliti luoghi comuni: è giovane e bella col tempo dimenticherà, ma Violetta afferma di voler amare solo Alfredo o morire. La musica di Verdi incalza la giovane e culmina in una sorta di crudele recitativo, mentre il padre di Alfredo enuncia l’argomento principe, quello che proprio fa crollare la sua fiducia nell’avvenire: «Sia pure ma volubile sovente è l’uom» l’amore è fugace dura poco e lei che è una donna di mondo lo sa bene. Come fa ad essersi illusa proprio una persona come lei? Alfredo non potrà mai sposarla e di conseguenza «poiché dal ciel non furono tai nodi benedetti» prima o poi la lascerà. E allora lei che farà? Meglio non aspettare quella fine annunciata, meglio prevenirla e tenere vivo quel ricordo di un amore mitico e vagheggiato per sempre. La realtà trionfa sul sogno e lei molto colpita risponde solo un «E’ vero!» pieno di tristezza disperata.
I principali errori degli esseri umani spesso sono dovuti proprio allo scetticismo e al cinismo che impediscono di vedere il bene e alimentano la convinzione che la fine sia già segnata, l’esito sia già determinato e che sia inutile credere in un cambiamento o semplicemente nel futuro. Questo permette anche di commettere a propria volta errori di ogni genere. Come accade in questo caso: l’unico uomo di esperienza nella vita di Violetta, colui che per la giovane incarna l’idea stessa del padre, le getta in faccia le facili verità sociali del perbenismo borghese e le toglie ogni speranza.
Violetta capisce improvvisamente che la vita per lei ormai è senza via d’uscita; se lo aspettava, in realtà, ma ha fatto finta di dimenticarlo: anche se Dio può perdonare e far risorgere una creatura caduta, l’uomo con lei sarà implacabile.
Violetta, investita della nuova missione di martire e salvatrice della sorella di Alfredo, anche a prezzo della propria felicità, dopo aver deciso di tornare dal suo vecchio amante, saluta Giorgio considerandolo come suo padre, vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma, presa da uno strano desiderio di espiazione ed annullamento: «Qual figlia m’abbracciate forte così sarò» Germont umanamente è molto colpito, ma non torna sui suoi passi. La invita a piangere sulla sua spalla come un vero padre, in un duetto memorabile, che rafforza ancor di più la giovane nei suoi propositi. Quando giunge Alfredo,Violetta lo saluta con parole sibilline «Sarò là, tra quei fior presso a te sempre.» perché la cornice del loro amore è agreste, mentre a Parigi, nel contesto sociale, Violetta resterà sempre e solo una cortigiana. Alfredo non capisce ciò che sta veramente accadendo, finché non arriva una lettera di Violetta che gli dice di essere tornata dal barone Douphol. Giorgio Germont cerca inutilmente di consolare il figlio facendogli ricordare la terra natia di Provenza secondo il classico espediente verdiano dell’estraniarsi per un momento dal dolore sognando un’altra terra e un’altra vita (come già era accaduto nell’ultimo atto del Trovatore nel dialogo ambientato in prigione tra Azucena e Manrico).
VERRA’ LA MORTE AVRA’ I TUOI OCCHI
Alfredo è furioso e disperato e appena vede sul tavolo la lettera di Flora che li invitava entrambi ad uno dei soliti «festini» capisce dove si trova Violetta e si precipita là. Naturalmente, anche in questo caso, si tratta di una festa dove ci sono maschere, come le zingarelle e i toreri. La tematica dell’infedeltà e della seduzione è ripresa, poi, proprio dalle zingarelle danzatrici che leggono la mano al marchese, sottolineando la sua volubilità, mentre i matador, ricordando i molti tori uccisi, evocano uno strano presentimento di amore e morte: ad essere abbattuta e quasi giustiziata tra poco sarà proprio Violetta.
Mentre i matador vincono a prezzo della vita, nella Parigi dei vip gli audaci sono i giocatori d’azzardo, facoltosi e vuoti ospiti del bel mondo che si cimentano tra loro solo inseguendo la dea bendata; eppure di lì a poco assisteranno alla sfida per un duello vero perché questa volta c’è l’Amore in gioco.
Così il barone e Alfredo cominciano con lo sfidarsi al tavolo verde in un concitato scambio di battute pieno di sottintesi. Poi avviene il drammatico dialogo tra Alfredo e Violetta che ha chiesto di vederlo a quattr’occhi: gli fa capire che lo ha lasciato per tener fede ad un giuramento, rischia quasi di rivelare tutto, ma poi si riprende e afferma di amare il barone
Alfredo ingenuo come sempre, pensa solo al tradimento, non capisce le prime parole di Violetta, non approfondisce il loro significato, spinto da una gelosia furibonda chiama tutti gli invitati ad ascoltare («Or tutti a me»).
Alfredo non capisce che cosa si nasconda sotto quelle strane affermazioni e ora vuole soltanto ridurre quel grande amore ad un semplice mercanteggiamento come tutti gli altri. «Qui testimoni vi chiamo che qui pagata io l’ho»., urla davanti a tutti, gettandole una borsa di denaro come per restituire a Violetta tutto ciò che aveva speso per lui. Alfredo non vuole debiti con una simile donna e, soprattutto, si comporta come se fosse lui a lasciarla e a trattarla come una puttana.
Tutti deplorano il gesto «Un cor sensibile così uccidesti! » esclamano gli scaltri convitati i quali sembrano aver intuito ciò che davvero è successo, ma non parlano apertamente. L’unico cieco è proprio Alfredo perché si sa che l’amante respinto spesso e volentieri perde ogni lucidità.
Giorgio Germont, intanto, è già preso dai rimorsi e rimprovera suo figlio per l’atto di spregio e poi condanna anche se stesso perché è l’unico a sapere quali siano i veri sentimenti della donna. Ancora una volta, però, le esigenze della famiglia hanno il sopravvento e Giorgio tace nuovamente. («Io so che l’ama, che gli è fedele, eppur, crudele, – tacer dovrò!»)
In realtà, Violetta è tornata dal suo antico amante perché è molto malata. E questa scenata di Alfredo le dà il colpo di grazia: vedere ridotto così l’unico vero amore della sua vita è un dolore che proprio non riesce a sopportare. Desidera solo la morte perché ormai appare come l’unica via d’uscita da un’esistenza tutta sbagliata e senza possibili rimedi.
Alfredo capisce di essere stato crudele e di essersi fatto guidare dalla folle gelosia.e dall’amore deluso, ma Violetta, riavendosi, gli dice che capirà il suo amore dopo la sua morte «Tu non conosci che fino a prezzo del tuo disprezzo – provato io l’ho! » e che continuerà ad amarlo anche dall’aldilà «Io spenta ancora – pur t’amerò. »
Violetta ora parla solo di morte non riesce a parlar d’altro. La sua mente ha ormai completamente rinunciato alla vita, tutto il suo avvenire semplicemente per lei non esiste più.
E’ inevitabile, quindi, che il terzo atto si apra nella camera da letto della giovane, ormai in fin di vita, tanto che il medico le dice per farle coraggio che, se si sente meglio, la convalescenza non è lontana, ma poi, in separata sede, afferma che all’infelice restano solo poche ore.
Rispetto all’opera teatrale di Dumas, con una sua scelta originale, Verdi decide di ambientare la morte di Violetta non l’ultimo giorno dell’anno, ma quando «Tutta Parigi impazza » perché è l’ultimo di Carnevale. Così fuori scena si sente un coro di baccanale, che per contrasto esalta l’effetto drammatico.
Dai toreri che uccidono i tori e conquistano le donne si passa ai parigini che celebrano ancora una volta ironicamente l’infedeltà:
Di fiori e pampini
Cinto la testa
Largo al piu’ docile
D’ogni cornuto,
Di corni e pifferi
Abbia il saluto.
Cantano per le strade portando in processione il bue grasso: emblema di una società futile, superficiale, godereccia e avida, ma ancora intenta a celebrare i suoi ipocriti perbenismi Questa falsa felicità nasconde la sofferenza, Violetta lo sa bene: «Ah, nel comun tripudio, sallo il cielo quanti infelici soffron! ». Così è nuovamente il tema delle maschere a prendere il sopravvento, le lugubri maschere della negazione di se stessi.
Intanto Giorgio Germont si è pentito. e la informa con una lettera che il duello ha avuto luogo, il barone è stato ferito, ma migliora e Alfredo è stato informato del suo sacrificio e tornerà da lei. «Curatevi – le scrive – meritate un avvenir migliore.» La superficialità di cui tutti sono vittime inconsapevoli in questa società, impedisce anche a lui di capire che ormai è troppo tardi: la vita non è una mascherata dove il finale si può cambiare a piacimento. Alcune azioni sono senza rimedio. Violetta guardandosi allo specchio si vede pallida e sfinita. Dice addio al passato e ai «bei sogni ridenti» le rose della giovinezza sono sfiorite, tutto è finito, e non resta che pregare Dio perché abbia per lei, anche se traviata, come volutamente sottolinea, quella pietà che gli uomini non hanno avuto.
Alfredo, infine, giunge e di nuovo parla di quel «palpito» che sempre nell’opera evoca il vero amore, ma è troppo tardi, ormai il dolore l’ha uccisa («Credi che uccidere non può il dolor»). Ed ecco che il giovane, di fronte alla situazione ormai disperata si rifugia nel sogno: i due innamorati parlano di andar via, di lasciare Parigi, luogo di perdizione, per cominciare una nuova vita, in un memorabile duetto.
E come accade in tutta l’opera, fino alla fine, Verdi fa sperare lo spettatore nel miracolo: così la giovane proprio nel momento in cui dice di sentirsi meglio, in realtà, muore. Violetta, la donna che aveva troppo amato non vorrà mai più vivere, neppure per Alfredo.
Violetta adesso è pura, è diventata un angelo, proprio perché non è più, ma ha pagato con la sua stessa vita, perfetta creatura post-manzoniana attualizzata…
La vera storia di Alphonsine racconta che dopo la sua morte i parigini, presi da una sorta di feticismo ossessivo, si contesero a cifre esorbitanti i suoi oggetti personali, i vestiti lussuosi, i gioielli, i suoi mobili, messi all’asta per pagare i debiti.
Nei suoi ultimi istanti, però, dei suoi tanti amanti solo un vecchio amico e il marito da cui era separata si trovavano al suo capezzale…