Il tuo ultimo sguardo sull’Africa

12 07 2017

 

 

Continuo a pensare a questo film criticatissimo e fischiato a Cannes, che non si tiene insieme tra scene d’amore disperato, ma hollywoodiano, e vita dei medici di frontiera in mezzo a sangue e atrocità di ogni genere. Il fatto è che forse nella mente di Sean Penn questo film non poteva e non doveva reggere, perché doveva delineare la distanza incolmabile tra un’Africa involuta su se stessa, in una spirale di violenza e povertà senza fine e l’Occidente che chiude semplicemente gli occhi sulle proprie responsabilità e si limita a gestire le emergenze. Chi tenta di fare qualcosa, come i due protagonisti, in ambiti diversi, potrà diventare solo uno dei tanti inutili martiri dei fronti di guerra oppure verrà risucchiato dalle mille iniziative benefiche che rappresentano semplicemente dei palliativi rispetto all’assenza di decisioni politiche ed economiche a livello planetario. Due facce della stessa medaglia, armati di tanta buona volontà, ma che appaiono fuori luogo, come se con un cucchiaino da caffé si cercasse di svuotare l’oceano… I paesaggi africani bellissimi e crudeli come la natura fanno da sfondo dissonante e complementare all’orrore di cui gli uomini si rivelano capaci. La sensazione di impotenza fa semplicemente fuggire via. Chi, invece, vorrà restare a vivere in Africa e non andarsene, rinunciando, in un certo senso, alla propria vita da occidentale, subirà inevitabilmente la stessa sorte della popolazione martoriata.



SHAME, LA TRISTE LIBERTA’

16 01 2012

Angoscia e sesso spazzatura in uno dei film più belli della stagione, interpretato da un grande Michael Fassbender


Brandon Sullivan è un uomo solo: niente veri amici, niente famiglia, solo un lavoro di successo, un appartamento minimalista vista Hudson, da cui si domina New York, e sesso freddo, asettico, brutale, reale o virtuale che sia; può essere la donna di una sera rimorchiata in un bar o la prostituta prezzolata. Non importa. Brandon, efficiente e brillante manager in ufficio, nella vita privata si aggira per New York come un animale randagio in cerca dei suoi simili, con l’incapacità di restare solo con se stesso e il desiderio di distrazione dall’ansia e dalla rabbia che cova in lui. Rifugge volutamente dal contatto umano, perché quello che vive tutti i giorni e le notti è solo un contatto di corpi dal quale non vuole essere realmente “toccato”. Tra Brandon e l’altro sesso, c’è un muro che egli stesso ha elevato, altissimo e invalicabile, fatto di regole ferree: una donna per non più di una sera, niente relazioni, irreperibile per chi lo cerca, soprattutto se donne; in realtà, però, non lo cerca nessuno, a parte sua sorella Sissy che gli chiede continuamente aiuto. Aiuto che Brandon non ha alcuna intenzione di darle.
Lui ha la sua tana da lupo, con le cene preconfezionate tirate fuori dal frigo, le chat erotiche, la masturbazione da quindicenne, le corse sfrenate nella notte per sfogarsi. Brandon, interpretato da un bravissimo Michael Fassbender (coppa Volpi al Festival di Venezia per questo ruolo), è un Don Giovanni triste, eppure le donne difficilmente resistono al suo sguardo ipnotico che emana eros da ogni parte, come un serpente che fissi la preda e la immobilizzi incantandola.

Steve McQueen (video artista inglese, passato brillantemente alla regia, omonimo del famoso attore degli anni ‘60 – ’70) fornisce un ritratto impietoso e obiettivo di uno dei tanti single incalliti di cui ormai la nostra società pullula: uomini volutamente isolati che rifuggono da qualunque responsabilità nei rapporti umani, che temono il sentimento e lo eliminano dalla loro vita, credendo di eliminare così anche la sofferenza; senza rendersi conto che in questo modo si privano semplicemente della vita stessa. Alla fine, però, la sorella Sissy, interpretata dalla brava Carey Mulligan, stanca di lasciare messaggi telefonici senza risposta, piomba a casa di Brandon senza avvisarlo. La scena che segue è tragicomica: la solitudine del protagonista, infatti, è talmente inveterata che, appena scopre la presenza di una persona in casa sua, egli pensa ci siano i ladri e la sua prima reazione è quella di cercare un’arma per difendersi. Giusto presentimento, visto che tra i due comincia una lotta psicologica senza quartiere. Sissy diventa per lui l’elemento nuovo nella sua esistenza incredibilmente robotizzata, una presenza che non sa gestire. Tanto più che la sorella, reduce dall’ennesima delusione amorosa, cerca in lui rifugio e protezione.

Di loro non sappiamo nulla, solo che sono del New Jersey e se ne sono andati molto giovani, probabilmente per sottrarsi ad una situazione difficile, nient’altro. Sono degli sradicati senza passato, almeno apparentemente, ma poi il loro vissuto è, di fatto, una zavorra insostenibile per entrambi. Al contrario del fratello, Sissy non è capace di badare a se stessa, è continuamente alla ricerca di conferme e di affetti che però durano una notte o poco più e poi scompaiono nel nulla. Rappresenta l’altra faccia della medaglia della vita di Brandon: schiacciata dall’ennesimo rifiuto, la sua urgenza di amore la fa diventare instabile, invadente, e inopportuna. Brandon sente una sua telefonata disperata all’ex fidanzato che la respinge ancora una volta. Mentre ascolta la conversazione, il suo viso è quello di un uomo che sa esattamente che cosa Sissi stia passando e che cosa lui abbia deciso di evitare come la peste: la possibilità di mettersi nuovamente in gioco e quindi di soffrire disperatamente. Quando invita a cena una sua collega di lavoro e cerca per una volta di cominciare un rapporto degno di questo nome, appare bloccato e impaurito come un novellino, terrorizzato; quando poi vuole provare a “fare l’amore” sul serio anziché semplicemente “sesso meccanico”, ad un certo punto non riesce più a continuare. Nel frattempo Sissy, sempre più incosciente è andata a letto con David, amico e capoufficio di Brandon, personaggio dalla vita squallida: classico pappagallo da bar, con moglie e figli, che non si fa scrupolo della fragilità di lei né del fatto che sia la sorella del suo collega e ne approfitta senza pietà. E pensare che aveva notato subito le braccia di Sissy piene di cicatrici, visto che non si sa neanche più quante volte la giovane abbia tentato il suicidio tagliandosi le vene. Brandon è arrabbiato con lei, è furioso perché Sissy fa riaffiorare in lui dei sentimenti che non voleva più ricordare; è una donna per la quale non può mostrare indifferenza, ma tra vittima e carnefice sceglie ancora il carnefice.

Davanti a loro c’è continuamente il deserto di una città lontana e triste, dove, parafrasando “New York New York” (cantata da Sissy in una originale versione malinconica) si sperava di arrivare al colmo del successo e ci si è ritrovati soli in riva all’Hudson come estranei a guardar scorrere la vita degli altri. L’emotività della sorella “stana” il protagonista dal suo mondo, lo mette davanti ad uno specchio: egli è diventato almeno esteriormente un insensibile cacciatore di emozioni e di possesso mentale (a proposito del sesso dice:“mi piace come mi fa sentire, come se esistessimo solo io e lei”); Sissy, invece, è sempre all’affannosa ricerca di un uomo che non la abbandoni, incapace com’è di vivere senza aver bisogno di qualcuno. Di fatto a causa del loro vissuto precedente, entrambi usano il sesso come unica forma di contatto con l’altro e come merce di scambio. Sono uguali, in realtà, simili al punto che tra loro esiste uno strano rapporto quasi simbiotico, sviluppatosi proprio nell’ambito di una famiglia con caratteri patologici. La loro relazione ricorda “Vaghe stelle dell’Orsa” di Luchino Visconti, ma il rapporto è invertito, visto che nel capolavoro del famoso regista italiano è il fratello Gianni l’anello debole della catena. C’è qualcosa di strano sicuramente nella loro storia, qualcosa che il regista non racconta, ma di cui vediamo gli effetti: “non siamo brutte persone è solo che veniamo da un brutto posto”… Durante un’intervista, ai giornalisti che chiedevano notizie sul passato dei due protagonisti, Fassbender non ha voluto rispondere per lasciare questo aspetto alla libera interpretazione dello spettatore, pur ammettendo di aver formulato diverse ipotesi a riguardo.  Forse alle spalle c’è una vicenda di violenza familiare, come dimostrerebbe la tendenza all’autodistruzione e l’incapacità di entrambi di riconoscersi sessualmente in modo maturo. Molti hanno interpretato il titolo Shame, “vergogna” come riferito alla vita che Brandon conduce da adulto, ma probabilmente rappresenta, piuttosto, quel senso di colpa e di paura da cui nasce la sua incapacità di rapportarsi col mondo. Il regista, infatti, più o meno consciamente descrive gli effetti a lungo termine di un abuso sessuale infantile: uno degli atteggiamenti tipici della vittima, infatti, è proprio la tendenza ad isolarsi e a rifiutare le relazioni affettive, oppure a fare di se stessa una merce di scambio sessuale. Probabilmente c’è un vissuto comune di fratello e sorella in cui, a fronte di una famiglia dai caratteri fortemente negativi, hanno cercato di creare un luogo mentale di protezione vicendevole, ma forse cadendo in una relazione morbosa.

 

Sissy riattiva in Brandon l’esigenza di sensazioni reali e non più solo virtuali; così il protagonista getta via il computer, ma non riesce ugualmente a imbastire una relazione con l’altro sesso e allora, in una specie di delirio autopunitivo, scende i gradini del suo vizio cercando emozioni sempre più forti e perverse. Fino al momento del brusco risveglio… Finalmente Brandon corre per un vero motivo, ma potrebbe essere troppo tardi. Il regista lascia il finale aperto: in uno scenario in cui domina un individualismo predatorio e ciascuno infligge agli altri continui traumi reciproci, fratello e sorella potranno salvarsi? Il sorriso di una sconosciuta veglia su di lui idealmente dall’inizio alla fine del film. Forse Brandon tenterà…

 



Segreti e bugie di John Edgar Hoover

10 01 2012

Diretto da Clint Eastwood, Leonardo Di Caprio accetta la sfida di interpretare la controversa figura del fondatore dell’FBI

L’ultimo film di Clint Eastwood è dedicato ad una vera e propria eminenza grigia del potere americano, J.Edgar Hoover , fondatore e capo dell’FBI, rimasto in carica per ben 48 anni e sopravvissuto a otto presidenti con sistemi alquanto spregiudicati, come l’uso di dossier segreti e scottanti sugli uomini di governo. Censore implacabile qual era, poco prima di morire, nel 1972, si apprestava ad entrare in conflitto anche con Nixon, avendo appreso del suo tentativo di usare intercettazioni e microspie per tenere sotto controllo, ed eventualmente ricattare, politici e giornalisti (di lì a poco, infatti, sarebbe scoppiato lo scandalo Watergate). Eastwood per la realizzazione di “J.Edgar” si è circondato di un ottimo cast in cui tra gli altri spiccano Leonardo Di Caprio, che ha accettato e vinto la sfida di recitare fortemente invecchiato e travisato nell’aspetto, e Judi Dench nel ruolo dell’autoritaria madre del protagonista. Eccezionali il montaggio, le inquadrature, la fotografia che mantiene un fascino volutamente retrò, ispirandosi agli effetti del bianco e nero, con profondi chiaroscuri. Nel film, però, si respira talvolta un senso di incompiutezza, forse determinato dal tentativo di mantenere ad ogni costo un certo equilibrio nel raccontare le vicende e il carattere di un uomo che nel bene e nel male ha segnato la storia dell’America. A volte bisognava avere il coraggio di osare di più, soprattutto in fase di sceneggiatura, approfondendo alcuni episodi controversi e oscuri della storia. Per certi aspetti Hoover ricorda i classici personaggi di Eastwood – nei quali evidentemente riconosce qualcosa di sé – come il protagonista di “Gran Torino”, chiuso in se stesso e senza veri amici. Anche il potente capo dell’FBI è un tipo schivo e diffidente, totalmente dedito al proprio lavoro, ma rimasto ad un livello di affettività quasi infantile nella vita privata, bloccato emotivamente da una madre che ha fatto di lui l’unica ragione di vita e che ha enormi aspettative riguardo al suo futuro.

J. Edgar è un uomo che, essendo stato balbuziente, per riuscire a parlare in modo normale ha imparato a reagire con un ferreo autocontrollo e una volontà incrollabile. La sua smania di controllare tutto, ogni dettaglio, fa di lui un poliziotto pressoché perfetto, un organizzatore quasi infallibile, ma anche un uomo estremamente pericoloso, perfino per se stesso. Per diventare così come lo vediamo, Hoover ha dovuto, in realtà, rinnegare molti aspetti della sua personalità, sacrificando tutto alla “causa”. Alcuni hanno paragonato la lettura che Eastwood dà di questo personaggio a quella che recentemente Michael Mann, e in precedenza la cinematografia degli anni ’30, aveva dato di John Dillinger (il nemico pubblico numero uno, che proprio Hoover contribuì a eliminare) considerandole come due facce della stessa medaglia: l’anarchico trasgressore di tutte le regole e il fanatico difensore ad oltranza dello Stato, ma altrettanto pronto a violare le leggi quando lo ritenesse necessario “ per la sicurezza nazionale”. Entrambi sono accomunati dall’esibizionismo dell’apparire sui rotocalchi, nei cinegiornali come nei fumetti e dal desiderio di essere considerati degli eroi dall’opinione pubblica. Edgar Hoover è l’uomo che con pazienza certosina alla fine, dopo tre anni di minuziose ricerche, riuscirà a scovare l’assassino del figlio di Charles Lindberg, il noto aviatore, creando la polizia “scientifica”, proprio allo scopo di risolvere l’intricato caso. Nello stesso periodo, per coordinare meglio le indagini, fonda dal primitivo Bureau of Investigation, l’FBI per perseguire i reati federali della criminalità organizzata. Una storia la sua piena di ambiguità e misteri: chiuso nei suoi uffici dirige le indagini e coordina i servizi informativi – basati su intercettazioni e microspie – con il pugno di ferro, ma poi si lascia passare sotto il naso qualcosa di così grave come l’assassinio del presidente Kennedy. Pronuncia solo poche, fredde parole al telefono con il fratello Bob: “Il presidente è stato assassinato”. Poi chiude la comunicazione senza neppure attendere una risposta…

Il film, quindi, pur senza prendere direttamente una posizione, proprio attraverso queste reticenze, lascia intendere che Hoover fosse in qualche modo implicato nell’assassinio di John Kennedy, dopo i gravi scontri avuti con il fratello Robert e i documenti riservati che accusavano il presidente di frequentare un’amante “comunista”. Sempre nello stesso periodo, a causa di attività che egli considerava anti-americane, Hoover aveva inviato minacce e ricatti a Martin Luther King perché non ritirasse il Nobel per la pace; anche in questo caso non sappiamo quale sia stato il suo livello di coinvolgimento nell’assassinio del famoso difensore dei diritti civili dei neri americani. Il capo dell’FBI era convito che il suo lavoro fosse fondamentale per preservare la sicurezza degli Stati Uniti, e perseguiva i suoi scopi anche con mezzi molto spregiudicati e spietati. Paradossalmente Eastwood, non prendendo direttamente una posizione su questo personaggio, mette maggiormente in evidenza le sue ombre e soprattutto, cosa che probabilmente gli interessa di più, i lati oscuri dell’America: quella che ancora oggi con la legge patriottica (USA Patriot Act prorogata anche sotto la presidenza Obama) ritiene che si possa tenere in carcere senza processo a tempo indeterminato un detenuto straniero sospettato di terrorismo o addirittura tollera che si possano “prelevare” e imprigionare in nome della sicurezza nazionale i sospettati che si trovino nel territorio di altri paesi (non disdegnando neppure la tortura in fase di interrogatorio). L’ossessione per la sicurezza nazionale di Hoover si riflette in un atteggiamento ancora oggi tipico di molti americani ed è significativo che da questo punto di vista anche attualmente cambino i presidenti e non cambi nulla o quasi, segno che certe decisioni non vengono prese perché si pensa che molti elettori non le condividerebbero. Perciò forse bisognerebbe ribaltare il concetto e dire non tanto che il capo dell’FBI è sopravvissuto a otto presidenti, ma piuttosto che egli rappresentava lo zoccolo duro di una certa America, quella a cui tutti i presidenti, alla fine, si sono semplicemente adeguati più o meno volentieri.

Per questo a Hoover viene lasciata narrare la sua storia a modo suo, perché, per certi aspetti, è quella che una parte degli statunitensi vorrebbe sentirsi raccontare e le obiezioni degli altri, anche nei riguardi delle sue bugie, risultano, chissà perché, sempre troppo deboli. Una vita da gran sacerdote della sicurezza nazionale, immolata al lavoro, nella quale si nasconde, però, una verità che J.Edgar non poteva accettare, cioè la propria omosessualità. E’ chiaro che questo per gli ultra tradizionalisti americani è decisamente un colpo basso: vedere un loro paladino ritratto nel suo aspetto più fragile e irrisolto certo non può aver fatto loro piacere. Tant’è vero che questo film non è stato amato dagli americani, forse anche per quel trucco eccessivo che ha qualcosa di volutamente caricaturale o forse perché J.Edgar rispecchia gran parte delle loro ossessioni, l’aspetto caratteristico della volontà incrollabile, ma anche della violenza dell’America, che si sente continuamente accerchiata, minacciata da nemici interni ed esterni. Il film non è affatto rassicurante, così come “Gangs of New York” di Martin Scorsese, con il quale ha in comune l’idea di un’America retta sì da una volontà formidabile, ma allo stesso tempo dall’autoritarismo e dalla violenza esercitata anche da chi dovrebbe far rispettare le regole.

Perché anche questa è l’America, bellezza!

 

Rossana Cerretti



SHUTTER ISLAND, L’ISOLA DELLA FOLLIA – Di Caprio e Scorsese perduti nel labirinto della mente

1 04 2010

COMPLOTTO O FOLLIA?
Uno Scorsese senza via d’uscita, dove le ombre della dittatura nazista e della manipolazione psichica sono ancora fra noi o forse fanno parte delle nostre stesse anime, creando un mondo di violenza e di orrore.
Un uomo solo, l’agente dell’FBI, Teddy Daniels, brillante investigatore ed eroe della seconda guerra mondiale,
si trova a misurarsicon il ritorno degli incubi del passato dove il ricordo dei campi di sterminio e le terribili esperienze della sua vita privata si collegano e si confondono, in un continuo passaggio tra visioni e realtà. Per seguire l’andamento di questo film geniale, ma tutt’altro che facile, si deve subito comprendere che è girato completamente seguendo il punto di vista soggettivo del protagonista. Lo spettatore viene messo volutamente in una condizione di incertezza perché conosce soltanto ciò che nel corso della narrazione Daniels scopre di se stesso e di ciò che lo circonda. Si vive in un perenne dubbio sulla verità e sulla sostanza della realtà in una dolorosa sospensione e angoscia da «grande fratello». Il regista vuole che anche noi come il protagonista ci «ammaliamo» di fantasmi, ci perdiamo nel labirinto, cominciamo a dubitare di noi stessi all’interno dei sotterranei di Shutter Island
La vicinanza con la violenza all’inizio sembra aver attraversato Daniels lasciandolo indenne, ma poi ci si chiede, in modo sempre più incalzante, fino a che punto, ormai, essa faccia parte di lui. Per tutto il film si resta in bilico tra l’idea di un complotto dai connotati neonazisti, una sorta di rigurgito dei mostri del passato, ritornati per fomentare l’atmosfera di paura del mondo attuale, e l’angosciosa e graduale scoperta dei propri demoni privati ai quali non si è saputo far fronte e che si è scelto semplicemente di rimuovere.
La coscienza di Teddy Daniels non viene piegata, ma la società, ormai, sta andando in un’altra direzione e per lui non c’è più scampo. E’ la conclusione amara e definitiva di Scorsese, che, contrariamente ad altri suoi film, non ipotizza alcuna via d’uscita possibile che ripristini la giustizia e la legge.

UNA CONTINUITA’ POETICA
Se in Gangs of New York si raccontava la genesi degli States in modo violento e insensato e si ritraeva la società americana, fin dai suoi fondamenti, come una compagine di esseri volti alla sopravvivenza ferina e totalmente privi di umanità; se in The Departed c’era, comunque, la possibilità di scoprire l’assassino e il traditore sebbene a prezzo della morte dell’eroe positivo, in Shutter Island le vie d’uscita si sono ridotte completamente a zero per l’unico che vuole opporsi alla dittatura strisciante esercitata con metodi nuovi e, se possibile, ancora più temibili: Scorsese appare durissimo, al punto che sembra quasi che Teddy Daniels (un allucinato, emozionante e bravo Di Caprio) si trovi alle prese con un nuovo progetto di creazione di una società governata dall’alto attraverso il controllo di tutte le reazioni umane per mezzo di farmaci. Un controllo invisibile e capillare già pienamente in atto al punto che ormai è impossibile fermarlo e l’unica cosa che si può ancora fare è accettare di morire da uomini, ovvero pirandellianamente da folli. Questa almeno, sembra essere la spiegazione più logica del film, considerando i punti fondamentali della poetica di Scorsese e del loro svolgimento in questi anni. Ma il fascino di quest’opera sta, comunque, proprio nella sua voluta ambiguità, affinché lo spettatore continui a chiedersi se il protagonista si trovi a misurarsi con un male interno o esterno alla natura umana stessa: sembra, infatti, che il male attraversi l’uomo e lo colpisca irrimediabilmente impedendogli poi di ritrovare la salute. Tutti cercano di dissuadere il protagonista dalla ricerca della verità, tentano di fargli capire che si tratta di un tranello creato apposta perché lui da quell’isola non se ne vada mai più. Partito l’ultimo traghetto sarà finita, ma l’agente Daniels, il grande investigatore, non molla la presa e le visioni, forse dovute ai farmaci, che sempre più ferocemente lo martellano si impossessano di lui, fino, probabilmente, a deformare il contenuto stesso dei suoi ricordi. Esiste un senso di colpa non solo per ciò che si è fatto, ma anche per quello che non si è riusciti a fare, per chi non è stato possibile salvare. E gli psichiatri di Shutter Island lo sanno molto bene. Con la crudeltà di una terribile tortura psicologica, la mente di Daniels viene smontata e rimontata distorcendo il suo vissuto e inserendovi altri elementi ex novo, congruenti con i traumi già provati e quindi credibili sia per noi sia per il protagonista. Eppure Daniels rivendica fino alla fine se stesso e si rifiuta di diventare un altro di coloro che non vedono, non sentono e non parlano all’interno di questo ospedale psichiatrico situato su quest’isola irraggiungibile e lontanissima dalla civiltà. Piuttosto che rendersi complice preferisce morire. Anche se il suo sacrificio non servirà a nulla a livello sociale, rappresenterà almeno il suo disperato tentativo di restare fino in fondo uomo. Daniels tornerà ad essere Daniels e preferirà «morire da uomo che vivere da mostro», cioè senza quegli orribili ricordi, veri o presunti, che hanno distorto ormai per sempre la sua mente.

L’OMBRA DEL MACCARTISMO

 Che il film sia un tentativo di mostrare come il potere possa influenzare le menti al punto da pilotarle completamente è evidente anche nel commento di Dennis Lehane, l’autore del libro da cui Scorsese ha tratto la sceneggiatura: «Ho cercato di analizzare quello che succede quando la libertà di parola viene
messa in discussione. Ho trovato paralleli inquietanti fra il 2003 e il 1953, l’apice del maccartismo. Se qualcuno – mi riferisco in particolare al governo – riesce a farti preoccupare di ciò che dici, prima o poi riuscirà anche a farti preoccupare di ciò che pensi e, e a quel punto, la tua mente rischia di subire un tracollo.». C’è da tener conto, però che dato il cambiamento di clima politico verificatosi negli States tra il 2003, in pieno governo Bush, ed oggi, il regista potrebbe aver voluto ritrarre un caso emblematico a finale aperto, proprio per non calcare la mano sul tema originario dell’oppressione politica, ma puntando sul fascino del viaggio stesso all’interno dei proprio demoni. Tesi che potrebbe essere avvalorata anche
dalla strana decisione di posticipare di alcuni mesi l’uscita del film da ottobre 2009 a febbraio 2010. Forse per modificare la parte finale dell’opera? In ogni caso, questo viaggio nella coscienza è realizzato a livello registico in maniera esemplare, con immagini che toccano nel profondo e ci accompagnano ben oltre l’uscita dalla sala., come quando la cenere che continuamente pioveva sui campi di sterminio nazisti si trasforma nelle foglie rosso sangue del giardino della casa sul lago dei Daniels.

UN GENIALE MANIERISMO
Il film è organizzato come un thriller, in cui la forza degli elementi infuria accompagnando lo scatenarsi delle componenti più segrete della coscienza e dei suoi sensi di colpa. La potenza distruttiva dell’acqua risulterà, infatti, l’elemento chiave e discriminante dei ricordi del protagonista.
Le visioni che Scorsese crea in relazione alla forza del male sono paragonabili all’atmosfera oppressiva ed allucinata di Apocalipse Now, ma più ancora agli incubi della coscienza e al ritorno inquietante dei morti tipici di Stanley Kubrick. C’è moltissimo cinema in questo film, anche di Hichcok, ad esempio, ma sempre in funzione della narrazione e della potenza espressiva della vicenda. L’eccezionale uragano che si scatena sull’isola e l’ossessione dell’acqua che impedisce al protagonista di riemergere dai suoi orrori
rappresenta forse il terribile viaggio dentro se stessi, una seconda rinascita non alla vita ma alla morte. Seguendo dall’interno la mente del protagonista, lo spettatore si trova a sua volta catapultato in un labirinto di indizi e controindizi ambigui, perché ognuno di noi non sappia mai quanto sia manipolato
dal potere e quanto, invece, la propria infelicità sia dovuta alle violenze private e inconfessabili sepolte nei recessi più oscuri della memoria. O forse non sa quanto i due piani finiscano per confondersi in un unico insondabile groviglio, perché chi ha vissuto accanto alla violenza e al sangue o ne è stato in qualche modo protagonista vivrà per sempre in compagnia dei propr

 

Rossana Cerretti

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Vede signor senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico…

18 03 2010

 C_era una volta in America

 

«Che hai fatto in tutti questi anni? Sono andato a letto presto…»

 

Alcune battute di C’era una volta in America, sembrano quasi accompagnare la nostra vita, forse perché questo film più di qualsiasi altro rappresenta il confronto con un passato mitico che si scopre ad un certo punto del tutto diverso da quello che si era sempre creduto. A volte capita di accorgersi che la nostra vita ci è stata semplicemente portata via. Hanno vissuto al nostro posto ed ora ci stanno togliendo anche il mito del ricordo e della giovinezza. La ragazza che avevi sempre sognato, il tuo migliore amico, il grande amore che non è stato mai e una impossibile ascesa sociale che per qualcuno, invece, è stata possibile. Anche se il prezzo per ottenerla è quella fila di cadaveri sul ciglio della strada in una fredda serata di pioggia.
«Avevi gli occhi troppo pieni di lacrime per accorgertene…» Già, quante volte i nostri occhi sono stati così pieni di lacrime da non vedere che quello lì, abbandonato sul ciglio della strada, non era chi credevamo che fosse, ma soltanto la nostra illusione, dettata dai sensi di colpa.
Perciò, quando alla fine qualcuno ci dirà che si è portato via la nostra vita e che ha vissuto al posto nostro, mentre noi ci cibavamo di rimorsi e rimpianti gli risponderemo: «Vede signor senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. Lo denunciai per salvargli la vita; invece fu ucciso. Volle farsi uccidere… Era una grande amicizia. Andò male a lui, e andò male anche a me. Buonanotte signor Bailey. Io spero che quella sua inchiesta si risolva in nulla, sarebbe un peccato se il lavoro della sua vita andasse sprecato…» 

 

 



INVICTUS – La ricetta di Clint Eastwood per guarire la nostra società malata

3 03 2010
invict4Con Invictus Clint Eastwood questa volta supera se stesso e ci parla di uno di quei momenti straordinari della storia nei quali riusciamo a pensare che l’umanità possa andare verso un vero progresso della civiltà e dei diritti. Lo fa con l’essenzialità della narrazione che gli è propria e con la straordinaria ricerca di inquadrature-simbolo che dovranno esprimere l’intera concezione del film in un’unica ripresa: come accade in quella iniziale che unisce in un continuum la squadra di rugby dei ricchi afrikaner bianchi e i ragazzi neri della baraccopoli che giocano a calcio a piedi nudi su un povero sterrato. Li divide una strada trafficata nella quale di lì a poco passerà l’auto che sta riportando finalmente a casa Nelson Mandela dopo trent’anni di carcere duro. Quella strada che ora divide due popoli dovrà invece unirli e questo è l’arduo compito che attende il capo dell’African National Congress.

Eastwood parla della possibilità di ricostruire un tessuto sociale e lo fa prendendo ad esempio una delle peggiori situazioni possibili, quella dell’apartheid. Ma si sa, questo grande attore-regista che ogni volta aspira a superare se stesso, ama raccontare le sfide impossibili e si emoziona ed entusiasma come un ragazzino, alle soglie dei suoi ottant’anni, per questa storia «troppo bella per essere vera» eppure realmente accaduta. Mostra come tutto si sarebbe potuto trasformare in tragedia e come, invece, sia possibile intendersi anche tra personalità e culture molto distanti se si trovano valori comuni per i quali battersi, qualcosa in cui riconoscersi. Mandela comprende che non basta aver preso il potere né avere la maggioranza in parlamento e nella nazione se c’è una spaccatura che divide i due popoli e l’odio e la diffidenza continuano a farla da padroni. Un uomo che è stato segregato in una angusta cella per trent’anni non ha partorito l’odio, non sono stati il rancore o il desiderio di rivalsa a tenerlo in vita, ma la convinzione della forza sconvolgente del perdono. L’idea che non la guerra e lo scontro violento siano i veri motori di un cambiamento, ma la capacità di vedere oltre, di guardare ad un bene comune più alto, all’appartenenza ad una stessa terra: «Il perdono libera l’anima, cancella la paura. Per questo è un’arma tanto potente».invict

La paura si basa sulla non conoscenza per questo Mandela utilizza il simbolo stesso dell’apartheid, gli Springboks, la squadra di rugby dei «signorini» bianchi come emblema della trasformazione che intende attuare. La sfida è difficilissima, ma fondamentale: «Se riuscirò nel mio progetto – sembra dirsi Mandela – sarà la dimostrazione sul campo che non solo la convivenza pacifica, ma la collaborazione tra i nostri due popoli sarà possibile e che sono di più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono» per questo una partita di rugby, sia pure del campionato del mondo, diventa improvvisamente così importante.
Per riuscire nel miracolo, però, Mandela deve smentire il pregiudizio che «Il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da selvaggi; il rugby è uno sport da selvaggi giocato da gentiluomini» e.portare dalla sua parte il capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un Matt Damon a volte un po’ statico; inoltre, come dicevamo, deve sconfiggere la paura con la conoscenza reciproca. Per questo invita gli Springboks ad allenarsi fuori dal loro campo di gioco mandandoli, in mezzo alle baracche dei neri finché, colpiti dalla miseria intorno a loro, questi bianchi vestiti con l’odiata divisa verde-oro, non si mettono ad insegnare il rugby ai bambini poveri delle borgate.
Eastwood attraverso questo film non parla solo del Sudafrica, ovviamente, ma della situazione del mondo attuale e delle terribili tensioni che caratterizzano le nostre società multietniche e i rapporti tra civiltà diverse. Il film è emozionante e veramente intenso, in questa sfida che ha tutto il sapore dell’impossibile. se non sapessimo che questo popolo, almeno in parte, si è ricostituito quasi non ci crederemmo. Morgan Freeman, poi, è un Mandela perfetto, calmo essenziale, un uomo di acciaio con il tocco di velluto, che non ha paura di niente perché nella sua vita ha visto e provato il peggio. E’ serenamente pronto a morire perché la morte gli è stata compagna per trenta lunghi anni e adesso nulla sembra poterlo fermare. La forza del bene che promana dalla sua persona è immediata e potente tanto da non permettere a nessuno di dire no. Eastwood ci parla di Mandela come qualcuno che è riuscito a realizzare un’impresa quasi folle solo per mezzo della sua volontà incrollabile. Come il poeta che il neo presidente del Sudafrica aveva imparato ad amare quando si trovava in carcere: William Ernest Henley autore nel 1875 proprio degli emozionanti versi di Invictus 
«Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l’indomabile anima mia.»
Un uomo che già nella prima adolescenza era stato condannato a morte dalla tubercolosi, ma che era riuscito a lottare con la sua malattia fino a 53 anni. Un miracolo sul quale i medici non avrebbero scommesso un centesimo. Una situazione paragonabile a quella del Sudafrica per il quale ben pochi avrebbero immaginato un epilogo positivo né tanto meno che Mandela sarebbe stato scarcerato.senza colpo ferire, ma soltanto per la forza delle idee. Quando il regista cita il poeta sembra che parli di se stesso perché ormai vede le prospettive accorciarsi davanti a sé, ma proprio per questo in ogni film sembra volerci lasciare una sua eredità spirituale
Eastwood ci parla con la saggezza della sua età e non con la disperazione, perché quell’anima indomita è prima di tutto la sua. Un epilogo che dall’ispettore Callaghan non ci saremmo mai aspettati, ma la giustizia, infine, non può prevalere sull’umanità.
Uno di quei film che meritano di essere visti una seconda volta anche solo per apprezzare tutte brillanti soluzioni tecniche ed espressive del suo cinema elegante, essenziale e potente, come per esempio, la partita di rugby finale girata in mezzo al campo alla stessa altezza dei giocatori.
Un film che per la lotta disperata ed eroica ricorda Lettere da Iwo Jima, ma con una conclusione inaspettatamente positiva nel trionfo di valori condivisi: il simbolo della riconciliazione è il nuovo inno nazionale scritto nella lingua dei neri, ma cantato anche dai bianchi. Un’opera commovente e grandiosa come solo i più alti ideali sanno essere per testimoniare che qualunque mattone può servire per ricostruire, anche quello di chi consideriamo il nostro nemico, se si ha il coraggio di utilizzarlo.


LE «FURBIZIE» DI DANNY BOYLE – Un’India corale e strappalacrime nel film “Teh Millionaire” candidato a 10 premi Oscar

2 02 2009
the MillionaireIl passaggio dall’India dei cumuli di rifiuti e delle baraccopoli sconfinate nelle quali milioni di persone vivevano, ai grattacieli ipertrofici delle periferie e delle costruzioni selvagge: il nuovo film di Danny Boyle, candidato a ben 10 premi Oscar è interessante soprattutto per le scene corali e per l’illustrazione di questo cambiamento epocale dell’India, da paese del sottosviluppo a nuovo fulcro dell’economia mondiale.
Un mutamento disordinato e incoerente che sembra non corrispondere, in realtà, ad un vero avanzamento civile, ma si manifesta solo con la creazione di nuovi miti mediatici.
Subito si nota lo stridente contrasto tra le montagne di rifiuti, le fogne a cielo aperto, la soffocante presenza delle baracche ammassate e il sogno proposto dal cinema, prima, e dalla televisione poi.
La sensazione dall’inizio alla fine del film è quella che Jamal, il protagonista, sia un ragazzo solo contro tutti, ma dalla volontà di ferro, tanto che, dopo molte peripezie vincerà contro avversità apparentemente insormontabili. 
Un epilogo così ottimista da essere molto improbabile, salvato dalla coscienza che si tratta di un sogno, come sottolinea il ballo finale alla Grease, ma in perfetto stile Bollywood.
Il film, nel complesso, è girato in modo brillante, e scorre sotto i nostri occhi freneticamente, con scene molto veloci, movimentate, che creano la sensazione del labirinto. In più prevale l’elemento sentimentale accentuato dai tre bambini soli nel caos della vita: come i tre moschettieri Athos, Portos e…
L’ultima domanda del «Chi vuol esser milionario» in versione indiana è proprio sul terzo, simbolico moschettiere che nasconde la ragazza da sempre amata da Jamal. Un sogno infantile che, alla fine, si realizza secondo un cliché un po’ strappalacrime e troppo simmetrico, perché modellato sulla convinzione che i principali eventi negativi vissuti dal protagonista rientrino tutti in un «karma» decisamente di maniera. 
Belle, invece, le scene "veriste": le corse in mezzo ai vicoli, le fughe continue, la sensazione di esser perennemente braccati che accompagna i tre protagonisti fin dalla loro drammatica infanzia nell’enorme baraccopoli di Bombay (Mumbai): c’è sempre un ostacolo da superare, qualcuno da cui scappare.
La polizia, che simboleggia il potere, non tutela mai i deboli, anzi, è corrotta e favorisce sempre i più forti, al punto che nessuno può credere che Jamal, giovane senza arte né parte, possa aver vinto tutti quei soldi con le proprie forze, così, paradossalmente, viene arrestato perché sospettato di frode.
Ad ordire l’arresto è il conduttore del programma che si vede rubare la scena. Come in ogni copione «verghiano» che si rispetti non esiste alcuna solidarietà tra poveri o ex-poveri: il conduttore televisivo viene dalle baraccopoli anche lui e proprio per questo si accanisce maggiormente contro il protagonista.
Seguendo un’idea tipicamente orientale del destino, ad ogni avventura negativa dell’esistenza il giovane ha imparato suo malgrado qualcosa che non è più riuscito a dimenticare, ma proprio da questa «memoria» traumatica dipenderà, alla fine, una vincita al «Milionario» fino ad arrivare all’ultimo montepremi finale, quando il sogno di tutta una vita sarà in gioco.
Sembra quasi che in un sol colpo l’esistenza abbia voluto ripagare Jamal di tutte le sue perdite e di tutti i disastri, come ognuno si augurerebbe.
Così il giovane diventa per tutti l’emblema di una rivincita, al punto che il potere non può credere nell’ingranaggio impazzito: come può un buon a nulla – uno che porta il tè ai telefonisti di un call center – come può vincere 20 milioni di rupie?
Già, non accadrà mai, ma continuate a sognare, almeno al cinema.
Perché questa è Bollywood!
Certo, la selezione di un film del genere come canditato a 10 premi Oscar invita a riflettere: le giurie hollywoodiane stanno diventando sempre più «di maniera» e con pretese buoniste…
Il caso Gomorra docet, ma d’altra parte un film così "vero" come quello di Garrone che cosa avrebbe potuto rappresentare in questo mondo di cartapesta? Forse, allora, meglio il Gran Prix speciale della giuria di Cannes presieduta da Sean Penn. Quello di certo vale qualcosa, gli altri chissà…


26 12 2008
13 Dicembre 2008
Come Dio comanda
Te la senti addosso quella pioggia fredda, incessante, che scroscia senza tregua nella notte e sembra creare da sola il buio sul mondo…
«Come Dio comanda», l’ultimo film di Gabriele Salvatores (tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammanniti) racconta una vita ai margini dove il dolore non rende affatto migliori, anzi, quasi fa dimenticare la forma umana, mentre prevale l’ansia di sopravvivere nel suo aspetto ferino e ogni contatto diventa solo una violenza fatta o subita.
Un percorso verso l’inferno nel quale si scivola lentamente, scendendo tutti i gradini verso il fondo come in certi romanzi di Zola, ma siamo drammaticamente nell’oggi, nella violenza crudele dell’hic et nunc.
Di certo in questo film non esiste l’idea del povero «buono», alla «ricerca della felicità» di mucciniana memoria; tutt’al più il povero può essere bello, ma di una bellezza catatonica e incosciente, consumata dalle porte chiuse in faccia e dai «no» continui dell’esistenza.
Perciò si vive sognando una possibile rivincita sociale fatta di parole e simboli impresentabili che testimoniano l’estremo tentativo di difesa da un mondo vissuto come ostile ed estraneo. Non esiste alcuna solidarietà sociale ed intorno il povero e disoccupato ha soltanto il deserto, le ciminiere, la pietraia nuda. Questo è l’orizzonte della vita dove anche la natura appare corrotta, assumendo un aspetto artificiale e degradato dal lavorio delle ruspe e dei cantieri, dal lento scorrere di un fiume su un greto irto di sassi senza colore. Paesaggio carsico che ci conquista e ci atterrisce come correlativo oggettivo della coscienza. Lontano nuvole di fumo si levano alte: «altri» lavorano, «altri» producono, «altri» vivono, forse; certo non il protagonista.
L’unico elemento che lo tiene ancorato a questo mondo è la presenza del figlio con il quale ha un rapporto strettissimo, difficile e unico basato sul vicendevole «abbarbicarsi» l’uno all’altro per non essere definitivamente travolti. Uno stringersi e chiudersi a riccio in una famiglia di rifiutati: Rino, Cristiano e «Quattro Formaggi», l’amico reso disabile da un incidente sul lavoro.
La pioggia accompagna costantemente la loro esistenza, battente e fredda come una pena infernale per una colpa sconosciuta. La pioggia che fa luccicare, cancella e nasconde, confonde nel caos di una visione offuscata. Se questo è il mondo esterno, il resto della vita si svolge nello stesso degrado tra muri scrostati, una branda al posto del letto e un solo pezzo di formaggio ammuffito in frigo. La violenza rabbiosa del protagonista, il suo saper menare le mani, la sua passione per le pistole, non servono affatto a difenderlo, anzi, dimostrano soltanto la sua totale impotenza rispetto ad una società che ormai lo ha abbandonato al suo destino.
E le donne? Le donne semplicemente non esistono in questo presepe di cartone, come quello che Quattro Formaggi ha creato nello scantinato che sarebbe casa sua: le donne sono solo fugaci apparizioni e nient’altro, atterrite dalla miseria e dalla follia. Nel suo presepe tra la capanna e i pastorelli c’è posto anche per le ciminiere, Goldrake e Cip e Ciop, ma su tutti campeggia un schermo piatto, dove Ramona supersex si fa scopare a getto continuo 24 ore su 24 sempre nella stessa, ossessiva scena. Le donne sono due braccia di gomma che escono dal televisore mentre Ramona ti guarda e ti bacia…
Non ci può essere rapporto tra questo mondo «altro» e la società che lo ha posto ai margini; qualunque tentativo di contatto diventa occasione di scontro, umiliazione, menzogna o violenza. Le menzogne che si raccontano all’assistente sociale stile «dama di San Vincenzo»; l’umiliazione di elemosinare un lavoro che non arriva; lo scontro con chi ha tutto anche soltanto per prendersi una rivincita. E infine la tragedia perché l’incontro non è possibile, e si scatena soltanto la crudeltà disperata, quasi involontaria di chi non ha mai avuto nulla e vorrebbe solo qualche briciola. Il presepe si distrugge, lo schermo continua a trasmettere, la luce si spegne.
Restano un padre e un figlio ora finalmente coscienti del profondo legame reciproco e forse pronti a risalire in qualche modo dal fondo…
Notevoli le soluzioni registiche, alcune scene restano impresse nella memoria, assumendo un significato archetipico.
Il «folle» di Elio Germano ha davvero una marcia in più.
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L’EREDITA’ DEL DESTINO – The Burning Plain

26 12 2008

22 Novembre 2008

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Guillermo Arriaga, sceneggiatore dei film di Inarritu, attualmente passato alla regia, ci ha abituato ai suoi destini intrecciati, al caso che ci sorprende e ci stupisce, alla sensazione che dietro ogni apparenza di casualità si nasconda, invece, una logica di causalità misteriosa eppure ben riconoscibile. Forse assistiamo alle imperscrutabili logiche dell’antico Fato o al dispiegarsi di un misterioso legame che unisce i destini di uomini diversi e solo apparentemente lontani, perché le azioni di ognuno finiscono, in realtà, per influire sul futuro di tutti: è la storia di «21 grammi» come di «Babel» e adesso di questo «The Burning Plain» dove il destino sembra ripetersi per tre generazioni di donne, soprattutto come un viaggio nella coscienza e nell’eredità del passato proprio e altrui.
Si assiste ad un itinerario umano che cerca faticosamente il suo difficile scioglimento: ognuna delle protagoniste, infatti, rischia di rivivere i traumi della propria madre e di diventare da vittima carnefice, schiava delle proprie immagini mentali, dove l’emulazione di colei che si rifiuta e si ama vale più di qualunque verità razionale.
Questa volta Arriaga indaga il mondo dei sentimenti e dell’inconscio, costruisce con le sue tipiche inversioni spazio-temporali una sorta di giallo, scavando nei recessi della mente, nei sensi di colpa che diventano desideri autodistruttivi.
Una madre, Gina, interpretata da Kim Basinger, è al centro di questa vicenda, con la sua doppia vita e la sua solitudine assente. Gina è una moglie alle prese con il suo non sentirsi più donna da quando un tumore l’ha menomata e il marito si è dimostrato incapace di accettarla, così, mutilata, ma vittoriosa.
Fuori dall’oppressione e dalla solitudine di questo stereotipo familiare c’è invece Nick, uno «straniero», qualcuno che sembra con c’entrare nulla, e che, invece, capisce tutto anche senza parole. E c’è un luogo deserto dove questo amore cerca un posto improbabile in cui vivere.
Ma nel mondo degli obblighi sociali, tutto è molto più difficile: ci sono famiglie, figli e pregiudizi; tutto sbarra la strada ad una possibile nuova vita.
Gina per i propri figli è semplicemente latitante e sola di fronte alla sua vita e alle sue emozioni. Il trauma della figlia maggiore, Mariana, diventa tragedia e sarà lei a raccogliere l’eredità di questa madre o meglio, della sua immagine, che crede perversa e «puttana», niente di più di una donna che si vende senza amore e senza pudore.

Così Mariana gioca a fare l’amante nel letto dei genitori con il figlio dello stesso uomo di cui la madre era innamorata, rivivendo tutto come in una specie di destino rituale o di coazione a ripetere. Vicende intrecciate, come i pensieri e le psicologie avvitate su se stesse che caratterizzano l’avvicendarsi delle generazioni. Un tentativo di rivivere e purificare che non riesce, non può riuscire. Allora non resta che la fuga, che lasciare ogni identità e ogni amore, perché non ne si è degni e continuare a «darsi via», a ripetere il destino di morte…
Infine, però, la ruota del cosmo gira sulle vite degli uomini, e così Mariana ha lasciato dietro di sé una traccia che non può essere dimenticata: qualcuno che potrà diventare come lei oppure potrà aprirle una nuova possibilità di esistenza, una speranza inattesa di ricominciare da capo.
L’interpretazione del personaggio di Sylvia da parte di Charlize Theron da sola vale il film…

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LA VITA RUBATA – Ricordando

26 12 2008

 9 Agosto 2008

C_era una volta in America

«Che hai fatto in tutti questi anni? Sono andato a letto presto…»

Alcune battute di C’era una volta in America, sembrano quasi accompagnare la nostra vita, forse perché questo film più di qualsiasi altro rappresenta il confronto con un passato mitico che si scopre ad un certo punto del tutto diverso da quello che si era sempre creduto. A volte capita di accorgersi che la nostra vita ci è stata semplicemente portata via. Hanno vissuto al nostro posto ed ora ci stanno togliendo anche il mito del ricordo e della giovinezza. La ragazza che avevi sempre sognato, il tuo migliore amico, il grande amore che non è stato mai e una impossibile ascesa sociale che per qualcuno, invece, è stata possibile. Anche se il prezzo per ottenerla è quella fila di cadaveri sul ciglio della strada in una fredda serata di pioggia.
«Avevi gli occhi troppo pieni di lacrime per accorgertene…» Già, quante volte i nostri occhi sono stati così pieni di lacrime da non vedere che quello lì, abbandonato sul ciglio della strada, non era chi credevamo che fosse, ma soltanto la nostra illusione, dettata dai sensi di colpa.
Perciò, quando alla fine qualcuno ci dirà che si è portato via la nostra vita e che ha vissuto al posto nostro, mentre noi ci cibavamo di rimorsi e rimpianti gli risponderemo: «Vede senatore, avevo un amico una volta, un caro amico, ma è morto tanti anni fa… Buonanotte signor Bailey»