SQUALI NELLA SAVANA – Il neocolonialismo in Africa in «Lotta di negro contro cani» di B. M. Koltes

27 06 2009

lotta_di_negro_contro_caniIn una notte africana intorno al cantiere di un’azienda di bianchi Alboury, l’indigeno, si aggira come un’ombra, come un’ossessione. E’ venuto a reclamare il corpo del fratello, ufficialmente morto sul lavoro, ma forse non è andata proprio così, visto che il suo cadavere non si trova, ed ogni volta parlarne crea disappunto, imbarazzo, rabbia. In questo scenario assolutamente attuale che mette a confronto il mondo globalizzato dei bianchi e le tradizioni secolari dei neri – violentati da una realtà che non comprendono, ma cocciutamente ancorati alla loro dignità – si apre «Lotta di negro contro cani» di Bernard Marie Koltés, andato in scena di recente allo Spazio Scenico Pim di Milano per la regia di Andrea Maria Brunetti Uno spettacolo di forte intensità emotiva che dimostra, a distanza di più di vent’anni dalla sua prima rappresentazione, una notevole modernità. Anzi, per la verità, Koltés, autore geniale, morto prematuramente nel 1989 dopo un’esistenza burrascosa, vissuta tra Francia, Africa (dove aveva trascorso l’infanzia) e Sud America, sembra aver precorso i tempi con spirito quasi profetico. La sua è una chiara denuncia del neocolonialismo «globalizzato», impersonato da Horn (Fabio Banfo) in tutte le sue sfumature di ambiguità, attaccamento al denaro, avidità di potere, ipocrisia, in un serrato confronto con il vecchio colonialismo bianco simboleggiato dall’ingegnere Cal (Paolo Andreoni), apertamente razzista e ossessionato da tutto ciò che è africano.

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Sulla scena le luci tagliano come coltelli, la bilancia al centro rappresenta la giustizia, ma una giustizia «a peso» rudimentale e primitiva come il cuore di questo continente. La presenza dell’indigeno che si aggira nella notte suscita inquietudini e incubi: Horn pensa a come pagarlo per non versare sangue scomodo, Cal manifesta il suo odio per l’Africa, piena di quei parassiti dai quali bisogna proteggersi e coprirsi a cominciare dalle scarpe: mai camminare con i sandali in Africa, mai provare il contatto con quella terra così difficile per chi non vi è nato e cresciuto. Lo spazio scenico è organizzato orizzontalmente in tre settori distinti attraverso l’uso della luce. Lo scenario è africano con suoni di animali e richiami, ma anche con il rumore ossessivo dei sorveglianti del cantiere che devono vegliare sui bianchi in un luogo che non sarebbe per loro. Piante di bouganville insieme a vuoti bidoni metallici, conferiscono alla scena l’aspetto di un insediamento industriale ormai dismesso, visto che il cantiere sta per chiudere. I cani evocati da Koltés hanno denti di squalo e facce da uomo. Horn, è un padrone dall’approccio «friendly» che invita a bere i propri dipendenti perché – dice – è uno di loro, venuto dalla gavetta, ex manovale, operaio e chissà cos’altro. Uno che si è fatto da solo, un proletario arricchito, insomma. Di fatto, egli rappresenta la maschera edulcorata del potere economico occidentale nella sua versione finanziaria e meno cruenta, ma non più «pulita», basata sul denaro: del resto è inutile fare la guerra con le armi in pugno (così antieconomica!) se tutto e tutti si possono corrompere e acquistare. Horn è un essere squallido e inquietante (forse anche impotente, come sembra alludere il testo) che per trovare una moglie se la compra letteralmente, scegliendo un’ignara e folle cameriera parigina dal passato burrascoso e cosmopolita. E poi c’è Cal il bianco vecchio stile, l’ingegnere venuto a costruire strade o dighe – che importa? – per il potere dell’ennesima dittatura militare, apertamente razzista e che non tollera la minima insubordinazione. Un istintivo, in fondo, un rozzo esemplare di un mondo vecchio quanto la parola «negro» in questa nuova versione apparentemente «buonista» del potere bianco. E’ lui il responsabile della morte del fratello di Alboury, perché era uno che non abbassava la testa e non obbediva agli ordini. Perciò meglio toglierlo di mezzo senza tanti complimenti, altrimenti sarebbe stato un pessimo esempio per tutti gli altri dipendenti. Una morte inutile, visto che ormai entro pochi giorni il cantiere sarebbe stato smobilitato. Una morte, che sa piuttosto di vendetta contro questo popolo che si lascia sfruttare, ma non si piega mai veramente. Adesso c’è un problema urgente da risolvere: come togliersi dai piedi Alboury senza destare i sospetti della polizia? In questa atmosfera di tensione che tiene lo spettatore con il fiato sospeso, giunge al campo Léone, la giovane donna che dovrà sposare Horn. L’Africa ha su di lei un effetto dirompente: è sconvolta pensa di esserci già stata, forse addirittura in un’altra vita, cerca un improbabile rapporto con gli indigeni, finisce addirittura per sfregiarsi il viso come una di loro, sentendo di appartenere più alla loro cultura che a quella europea, essendo a sua volta un’apolide. Nessuno però, per quante lingue parli, potrà penetrare il silenzio di Alboury perché la realtà degli indigeni resta totalmente inconoscibile per noi. Non è incoraggiante il quadro che Koltés tratteggia sulle relazioni tra bianchi e neri, un rapporto continuamente sbilanciato e mai alla pari, un’interazione in cui le aperture si vivono per senso di colpa o interesse e le chiusure a riccio sono espressione di una discriminazione vicendevole ed inevitabile. Il testo di Koltes è serratissimo e di notevole difficoltà, richiede solide capacità di recitazione, poiché presenta, anche nei dialoghi, una certa ampiezza meditativa. Fabio Banfo nel ruolo di Horn ha reso con grande efficacia il carattere ambiguo, calcolatore e meschino del personaggio, squallidamente attaccato alla sua certezza del denaro. Cal interpretato da un poliedrico Paolo Andreoni, è sanguigno e ossessivo, costantemente in bilico tra depressione e isteria, non è più padrone di se stesso. La giovane Léone è forse il personaggio più complesso dell’opera, interpretato in modo trasognato e a volte un po’ sopra le righe da Anastasia Zagorskaya. L’indigeno Alboury nella sua solenne presenza scenica, è stato reso con intensità da Mohammed Ba. Uno spettacolo da riproporre anche per l’ottima regia. La vicenda, alla fine, si risolve, alla maniera di Horn: sarà lui a vincere, così come accade veramente nel mondo di oggi. Potere del denaro e della persuasione.



L’ULTIMO GIORNO DI NAPOLEONE IN UNO SPETTACOLO DI ANDREA BRUNETTI CON FABIO BANFO

14 02 2009

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«Napoleone», lo spettacolo presentato nei giorni scorsi al Teatro Olmetto di Milano, descrive il grande generale corso alla fine della sua parabola umana e politica, ma, nonostante tutto, ancora con il suo carisma intatto. 
Il testo scritto dal regista Andrea Brunetti sembra costruito sulle caratteristiche di Fabio Banfo a cui è affidato il ruolo del protagonista. Ne esce un ritratto di Napoleone per nulla scontato, con le sue luci e le sue ombre, ma sempre grande anche nella sconfitta e continuamente in cerca di qualcosa da conquistare, in una sorta di perenne e atavica «fame» di possesso, di dominio, di vittoria.
Alla stregua di un Don Giovanni o di un Faust, Napoleone non cessa di essere un superuomo anche nei pochi chilometri quadrati di un’isola sperduta nell’oceano.
Un personaggio non facile da interpretare, ma brillantemente risolto da Banfo, perennemente in bilico tra grandezza e pathos, tra carisma e nevrosi.
Un Napoleone che pensa a Waterloo continuamente e non sa come possa aver perduto quella battaglia. Vittima, del destino, della follia del suo più fidato generale o, forse, solo di quel Dio che lo volle per un suo disegno misterioso «due volte nella polvere, due volte sull’altar».
Un uomo che viene messo a confronto con un «giovane» e che si trova ad invidiarlo; che pagherebbe tutto ciò che aveva un tempo per poter tornare alla sua età e ricominciare la sua avventura da capo.
Lui che ha avuto tutto, tutti ai suoi piedi e ha perso tutto, ora si ritrova a contendersi le attenzioni di una puttana la quale guarda con maggiore interesse il suo servitore di quanto non guardi lui.
Ora le sue strategie di battaglia servono solo a bloccare una colonna di formiche al lavoro per la conquista spasmodica delle sue «scorte». Quelle formiche sono le schiere umane della storia, l’avanzare lento, ma inarrestabile di quel popolo che per lui era così lontano, così inferiore da doversi chinare per ascoltarlo.
Quel popolo ora è lì e lo venera come sempre, non riesce a non amarlo, nonostante la sua arroganza, lo venera anche da sconfitto, per il suo carisma che incantava gli uomini e suscitava in loro grandi sogni, quella «fantasia» che sempre ha colpito l’immaginario di tutti. Il popolo lo adora, ma alla fine lo supera, semplicemente va oltre.
Napoleone è solo un uomo che voleva sempre vincere, che non tollera di perdere anche se in gioco c’è solo una giovane contadina troppo "generosa". Vuole vincere a tutti i costi, anche contro un’ordinata colonna di formiche; non importa se per farlo dovrà distruggere lo stesso oggetto da conquistare: questa è la vittoria e la vittoria viene prima di tutto.
Alla fine, il popolo che tanto lo aveva amato sarà proprio il primo a tradirlo, servendogli più o meno consapevolmente del cibo avvelenato.



BETRAYAL – TRADIMENTI di Harold Pinter – regia di Fabio Banfo

26 12 2008

24 Dicembre 2008

Betrayal1Seduti al tavolino di un bar due ex amanti si ritrovano due anni dopo la fine del loro rapporto clandestino: ricorrono i soliti «come stai», «che fai adesso» intervallati da pause di visibile imbarazzo e da ricordi che non collimano, stesse storie raccontate in modi ben diversi.
Ogni ricordo sbiadisce come in una vecchia foto e si vive la strana sensazione che tutte le esperienze siano sempre in bilico tra realtà e immaginazione. Ogni traccia rimane come nella memoria di un ubriaco, vacillante, piena di lacune e forse inventata, magari «riveduta e corretta». Sono amnesie provvidenziali che permettono di continuare a vivere, ma documentano efficacemente quell’insostenibile leggerezza che consente di passare dall’intimità di una vita a due alla totale indifferenza anche dopo anni di convivenza o di assidua frequentazione.

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Questo è Tradimenti di Pinter presentato nei giorni scorsi al Teatro Olmetto di Milano per la regia di Fabio Banfo. E’ il dramma dell’impermanenza e della mancanza di memoria, della vita vissuta con il massimo della distrazione: si segue un certo percorso solo perché si è imboccata quella strada apparentemente unica. Poi qualche condizione esterna cambia, e allora ci si ricorda improvvisamente che «si tiene famiglia», che non si può continuare questa relazione clandestina, diventata ormai una vera e propria convivenza parallela con tanto di appartamento per gli incontri pomeridiani.
Ma se i personaggi tentano di dimenticare come sono andate davvero le cose, Pinter, implacabile come sempre, traccia un doppio anello temporale riportandoci indietro fino al momento in cui tale relazione era cominciata, cioè il giorno stesso del matrimonio di Emma, quando Jerry era stato il testimone di nozze del suo «migliore amico» Robert .
La regia di Fabio Banfo scandisce l’itinerario temporale con didascalie in scena che sottolineano ancora di più le colpevoli dimenticanze, le pietose bugie che i protagonisti raccontano, soprattutto a se stessi prima ancora che agli altri. Tra la chiave ironico- umoristica con la quale talvolta i testi di Pinter vengono interpretati e la visione drammatica e frustrante dell’incapacità dell’essere umano di restare fedele a qualsiasi cosa, il regista ha optato decisamente per la seconda, restituendoci un testo di grande chiarezza dove tutte le motivazioni sono ampiamente sottolineate e sviscerate dalla recitazione.
La vicenda, al di là della scansione temporale, assume però, anche aspetti archetipici delle dinamiche di coppia e potrebbe essere letta a se stante, senza seguire con esattezza la sua scansione temporale perché in essa Pinter ha voluto comunicare il fallimento del rapporto coppia nel suo complesso e tutti si possono riconoscere in questo o in quel tratto perché forse tutti, almeno una volta nella vita, hanno detto quelle stesse parole e frasi magari in circostanze diverse.
Si tratta di matrimoni borghesi destinati a naufragare in partenza forse ancora prima di cominciare e che sembrano basati fin dall’inizio sulla menzogna. Matrimoni a proposito dei quali vengono in mente le parole di Svevo nella Coscienza di Zeno: «Infatti si vive poi uno accanto all’altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per chi è tanto dissimile da noi o per un’invidia per chi a noi è superiore»; i due coniugi si scoprono sempre più estranei l’uno all’altra e incapaci di far collimare due individualità inconciliabili. I rapporti restano sulla superficie e perfino l’amante, in fondo, si cerca per noia.
Segno del malessere generale è il continuo ricorso all’alcool anche nelle situazioni che dovrebbero essere più felici, l’analgesico più facile quando si deve dimenticare che si sta tradendo, quando si vuole evitare di pensare.
Infine, quando ormai i sensi di colpa prevalgono, si scopre che nessuno è davvero vittima e che anche i rispettivi moglie e marito si sono dati un gran bel daffare anche prima che cominciasse la storia tra Jerry ed Emma.
Matrimoni minati dall’inizio quindi, che rappresentano solo facciate di comodo, ma che «servono» al punto che se il primo finisce si pensa subito ad un possibile rimpiazzo. Così si scopre che Emma ha cercato di nuovo Jerry a distanza di due anni solo perché messa ora alle strette dalla decisione del marito di lasciarla e dalla sua confessione di averla sempre tradita. Jerry, dal canto suo, di quella loro storia durata sette anni non ricorda poi un granché come se fosse a malapena esistita. E’ un ritratto impietoso della psicologia sia maschile sia femminile perché spesso le donne vengono prese dall’angoscia irrefrenabile di restare sole, mentre gli uomini si «distraggono» assai facilmente e mettono in opera i loro consolidati meccanismi di rimozione.
Così nella vita di ognuno resta solo un’amarezza vaga e un bicchiere di brandy.
«Betrayal» è prima di tutto l’epopea del tradimento di se stessi, dei propri sentimenti e delle proprie convinzioni e la bruciante scoperta dell’incorreggibile irrazionalità del vivere.

Fabio Banfo



AMLETO NEL LABIRINTO DELLA COSCIENZA – Il nostro spettacolo

26 12 2008

 6 Giugno 2008

Amleto

Freddo, buio, l’aria gelida della notte avvolge le cose e sospinge i fantasmi del passato. All’ingannevole luce della luna, che colpisce di taglio le guardie del castello, un’ombra maestosa e superba, tutta armata semina il terrore tra le sentinelle di Helsinore. O forse è solo il pallido schermo di una nuvola a creare quell’illusione. Infine, non resta che il freddo tenebroso della notte e il lungo lamento del gufo. Il fantasma se n’è andato senza dire nulla, ma tornerà, tutti lo sanno, anche se nessuno osa parlarne ancora. Cerca suo figlio, è solo questione di tempo.

Ma già l’oltretomba vive nella mente del giovane Amleto: sebbene non lo sappia, quel buio si è impossessato della sua anima mobile e solare, poetica e innamorata. Gli immondi spiriti del Tartaro si avanzano lenti e inesorabili e alla fine lo afferreranno, lo incateneranno, in un modo che ancora non sospetta. E’ l’Amleto del laboratorio teatrale del Liceo Copernico diretto dal regista Fabio Banfo, rappresentato il mese scorso in due affollatissime repliche. In scena l’uso sapiente delle luci crea effetti chiaroscurali che subito introducono nel dramma e nel mistero della coscienza, tramutando il palcoscenico in un luogo rituale e ipnotico dove ognuno può ricercare i moti profondi dell’anima e il fondo oscuro del proprio essere. La regia corale, la concretezza visionaria, la continua ricerca di un "correlativo oggettivo" gestuale del sentimento, hanno reso lo spettacolo intenso e carico di energia.
L’indagine psicologica del protagonista è rigorosa e talvolta implacabile, esaltata dalla recitazione e dall’azione scenica incalzante. Tutto comincia con la morte improvvisa e prematura del padre, che ha lasciato Amleto in questo mondo senza potergli insegnare come agire, come difendersi, come comandare, visto che un giorno sarà il futuro re di Danimarca. Adesso è solo con se stesso, senza più una guida, ma con un imperativo categorico: "Ricordati di me".
E’ un giovane studente di filosofia alle prese con la morte: a che servono tutti i pensieri degli uomini e le loro velleità di potenza quando siamo soltanto una "quintessenza di polvere"? Amleto di fronte alla perdita del padre si accorge improvvisamente di una realtà che forse non aveva mai indagato a fondo: la certezza della propria fine, il dissolversi completamente, diventare cibo per vermi, e, finalmente, scoprire la vanità del tutto. Di fronte alla volta celeste trapunta di fuochi d’oro si chiede che senso abbia tutto questo, facendoci tornare alla mente certe domande leopardiane, così simili ai dilemmi del giovane personaggio di Shakespeare.
Amleto non solo è messo da parte, ma anche scavalcato. Da quella madre superficiale e infedele che senza scomporsi ha sposato il fratello del marito, cioè suo zio, dopo meno di due mesi di vedovanza.
Freddo, buio, le luci radenti che colpiscono come lame e caricano di ombre e chiaroscuri i volti e i gesti, dove più brilla il pugnale che Amleto, disperato e abbandonato, sembra voler usare contro se stesso. Quella sua camicia bianca emerge dal buio come una citazione caravaggesca, sfidando lo sguardo degli spettatori al pari di una staffilata, un desiderio di verità nel labirinto delle menzogne e del male che mangiamo tutti i giorni.
Il suo viso perde sempre di più la braveria sorridente dei vent’anni per diventare accusatore implacabile e sarcastico delle ipocrisie e dei misfatti degli uomini, anche dei suoi. Basta una rivelazione: c’è un assassino sotto il tuo stesso tetto, si è preso tutto, il trono, tua madre e la vita di tuo padre.
Il marcio è lì, sotto i suoi occhi, ma che fare? Come vendicarsi senza un punto di riferimento? L’abbraccio a quel padre che lo lascia solo è struggente, lo abbandona proprio ora che più avrebbe bisogno di lui. Solo con la sua mente ricca di sogni che sono diventati improvvisamente "brutti" a contatto con la realtà, infranti come la visione bellissima di Ofelia e del suo amore.
Così, l’abile tessitura dialettica della parola shakespeariana, la sua intrinseca passionalità, la potenza creativa dai molteplici sensi, la sua profondità insondabile capace di rivoltarci "gli occhi dentro l’anima" viene portata in scena dal protagonista in modo compiuto ed emozionante.
Intanto, nel cerchio magico e maledetto della tragedia viene attirata anche un’altra famiglia ignara di tutto: quella di Polonio, che alla fine risulterà a sua volta completamente distrutta. Banfo valorizza, anche attraverso la suggestiva recitazione degli interpreti, questo secondo "polo" tragico dell’opera nel quale il meccanismo perverso e fatale del destino stritola nei suoi ingranaggi le vittime inconsapevoli – Ofelia, Polonio, Laerte – per il fatto stesso di "essersi messe in mezzo".
Amleto non ha tempo di pensare a loro, deve guardarsi dai suoi assassini che ormai sono dappertutto, nascosti anche tra gli amici d’infanzia. E’ un uomo braccato, forte solo della sua verità e del disprezzo profondo della vita. Non gli importa più di vivere, purché, almeno per una volta, la sua giustizia possa trionfare.
Il mondo è solo una galera, perché non resta che far torto o patirlo.
E Amleto vuole capire, capire come va questo mondo, indaga, con la forza della disperazione e in questa ricerca, di cui in cuor suo conosce già l’esito infausto e terribile, rischia di perdere la ragione per davvero: perché come può un uomo essere tradito anche dalla propria madre e non diventare folle? Quanto più si rivela la sua raffinata abilità nello scoprire l’omicida tanto più cresce in lui il desiderio di porre fine a quell’orribile farsa. Una volta preso atto che il fantasma del padre aveva detto tutta la verità, che non ci si può più fidare di nessuno e l’esistenza è solo un ignobile gioco delle parti, cosa farsene di questa galera?
Il sangue scorre irrefrenabile nell’ecatombe finale, dove il re assassino viene "ucciso due volte" con la spada e il veleno perché di lui due volte dovrà gioire la morte.
Così lo spirito della tragedia accompagna da sempre la storia umana ed è questo che più ci affascina del grande affresco dell’anima e della passione che è Amleto.
"A noi Zeus diede sorte maligna, affinché fossimo anche in futuro, per la gente di là da venire, materia di canto" ci ammonisce la voce dell’antico cantore di Ilio.
Tutto il resto è silenzio.
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DON GIOVANNI E IL DESERTO DELL’ANIMA – Dedicato al Don Giovanni di Moliere

26 12 2008
19 Aprile 2008
Ciao a tutti, questa è la recensione del "Don Giovanni" di Moliere realizzato a Milano nel febbraio scorso al Teatro Olmetto dalla Compagnia della Corte per la regia del mio caro amico Fabio Banfo. Forse sarò di parte, ma per me è stato uno spettacolo bellissimo…

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DON GIOVANNI E IL DESERTO DELL’ANIMA

Don Giovanni, come un moderno Capaneo dantesco, irridente, materialista e sarcastico, capace di respingere il cielo e nello stesso tempo in perenne lotta con esso in un implicito riconoscimento per negazione. Il Don Juan di Moliere visto dal regista Fabio Banfo nella coraggiosa e originale interpretazione della Compagnia della Corte, è un uomo prigioniero del suo deserto narcisistico. Assediato dalla morte già dall’inizio dell’opera, vive la sua parabola in un crescendo di ammonimenti, follie e tentativi di seduzione, di occasioni mancate che culmineranno nell’incontro con il Commendatore, il convitato di pietra, evocato proprio per dimostrare che i morti non possono tornare e che nulla esiste oltre ciò che vediamo. Un uomo, sembra affermare il protagonista, può permettersi tutto, basta che lo voglia e abbia il coraggio di prenderlo, non importa a quale prezzo.
L’ansia distruttiva e autodistruttiva della sua personalità di collezionista malato di avventure e di vita strappata e fatta a pezzi, non si rivolge solo alle donne possibilmente meno corruttibili e più pure, ma anche a tutto ciò che potrebbe testimoniare il bene o una felicità possibile.
Don Giovanni odia la felicità altrui, la invidia perché l’arida distesa che lo avvolge sulla scena dall’inizio alla fine in realtà alberga nel suo cuore. E’ il deserto di un padre che lo ha condannato inesorabilmente, di una vita senza legami, con un servo che lo segue e diventa suo complice solo per denaro. E’ un tronco spoglio che domina la scena privo di radici. Le scelta registica di non storicizzare l’opera ne fa un personaggio fuori del tempo, portandolo su un piano quasi metafisico, dove la nera figura di donna Elvira assume le sembianze di una Furia infernale che aleggia non vista, cieca come la vendetta, invisibile come la moglie dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello, presentimento inesorabile della fine. Il viaggio di Don Giovanni e Sganarello nel bosco diventa una marcia per un "chissà dove" privo di meta e di scopo, un’attesa di Godot degna di Beckett.
Infine, a Don Giovanni viene concessa un’ultima possibilità: egli potrebbe ancora credere alla favola bella dell’amore, incontrare la donna-farfalla, vestirsi della magica polvere delle sue ali e volare lontano con lei. Ma il suo io è troppo pesante e incapace di guardare il cielo… pesante come i massi che alla fine la Parca gli porrà sul cuore in un inferno fatto di nulla.