Recensione: LA RESA DEI CONTI DI DUE GENERAZIONI – The Reader – A voce alta dal romanzo bestseller di Bernhard Schlink

23 02 2009
the reader
Conoscere per caso una donna e innamorarsi di lei pur avendo meno della metà dei suoi anni, per vederla poi scomparire inspiegabilmente all’improvviso: così il primo amore diventa una condanna, un dolore, un trauma che segnerà tutta la vita. Questo, però, non è ancora nulla rispetto al segreto che Hanna nasconde. A distanza di anni Michael, il protagonista, durante un seminario della facoltà di Giurisprudenza a cui si è iscritto, scoprirà nel modo più traumatico – durante il processo – che la donna tanto amata è stata una sorvegliante ad Auschwitz, un’addetta alle selezioni, un’assassina.
Ancora peggio è scoprire, poi, che non aveva provato quasi nulla, almeno a parole, nel lasciar morire arse vive trecento persone. In realtà, quella di Hanna è una personalità bloccata completamente, al punto da non saper, non solo esprimere, ma neppure riconoscere, i propri sentimenti. Per Michael, però, le rivelazioni scioccanti si susseguono: scopre, infatti, che, come era capitato a lui durante la loro breve relazione, anche alle detenute del campo quella donna chiedeva di leggere ad alta voce dei libri per poi, abbandonarle al loro destino, ovvero alla morte.
Lo choc del protagonista è quasi il medesimo dello spettatore, ed è forse lo stesso di molti tedeschi delle passate generazioni, quando scoprivano che l’insospettabile vicino di casa, il mite vecchietto inoffensivo della porta accanto a suo tempo era stato uno spietato nazista.
Il regista Stephen Daldry ci ha abituato allo studio di psicologie complesse, talvolta criptiche, come in The Hours e anche qui la giovane sorvegliante dei campi di sterminio è una personalità complessa e dissociata.
Hanna è una donna capace di improvvise commozioni e traumatici flashback, ma, nel complesso, sembra non rendersi conto di ciò che ha fatto, tanto che si autoaccusa perché è incapace di comprendere la gravità dei suoi atti, perciò li racconta come se fossero scontati e ovvi: «Dovevamo sceglierle, non potevamo tenerle tutte, ne arrivavano in continuazione». Ad interpretarla un’enigmatica e poliedrica Kate Winslet (premio Oscar come migliore attrice protagonista) affiancata da un Ralph Fiennes (Michael da adulto) il quale esprime efficacemente le chiusure e i sensi di colpa di una personalità a sua volta «bloccata».
E’ una donna a cui il sadismo del regime ha risucchiato completamente la coscienza morale, lasciandola con i suoi «dovevo farlo, ero la sorvegliante, la responsabilità era mia».

kate-winslet-e-david-kross- the-reader
Una personalità fortemente condizionata che fa paura perché, in realtà, rappresenta quella parte esistente in ciascuno di noi davvero condizionabile, come ben ha messo in evidenza, tra gli altri, Erich Fromm nel suo Anatomia della distruttività umana, un libro ormai datato, ma sempre attuale, per la sua analisi sul nazismo e, più in generale, sul rapporto con il potere assoluto. Questo film traduce in una vicenda concreta ciò che è illustrato con dovizia di esempi ed esperienze nello studio di Fromm.

Al di là del banco degli imputati, tra il pubblico che assiste, si consuma il dramma di una o più generazioni di tedeschi: tentare di negare l’evidenza che molti, moltissimi erano colpevoli e fare invece in modo che qualcuno paghi, magari anche più del dovuto, per lavare un generale senso di colpa. Così farà il protagonista, così faranno le due sopravvissute ebree che la accusano. Esse si sono salvate probabilmente perché stavano leggendo per lei, ma su questo punto tacciono entrambe. Il protagonista, invece, sa che Hanna non sa leggere e quindi neppure scrivere. Questo la scagionerebbe in parte dall’accusa più grave, ma Michael viene preso da una smania di vederla punita più delle altre. La vuole condannata come la più colpevole di tutte, perché si sente tradito e quasi suo complice.
Di fronte ad una strage, assistiamo allo spettacolo di una generazione contro l’altra, di un muro contro muro senza alcuna comunicazione tra le due realtà; al punto che Hanna, per ascoltare la sentenza che la condannerà al carcere a vita, si presenta vestita in divisa come se fosse ancora una sorvegliante nazista. Sembra che Hanna voglia sfidare tutti o lo faccia solo per riflesso condizionato, senza neanche rendersene conto.
Una donna indecifrabile, soprattutto per se stessa, la quale sembra vivere solo il presente e ciò che «va» fatto, ma probabilmente perché non è in grado di riconoscere quello che ha dentro come è incapace di leggere e scrivere. Non si tratta, però, di un problema di «cultura», come qualche critico ha erroneamente sostenuto, tale incapacità è simbolo, piuttosto, di una sorta di analfabetismo interiore.
Quando Hanna imparerà finalmente a scrivere, attraverso la voce di Michael che continua a leggerle – registrandole e inviandole in carcere – le storie che tanto avevano amato quando stavano insieme, sarà troppo tardi per apprendere davvero qualcosa su se stessa: dalla prigione non si impara niente come non si è imparato nulla dai campi di sterminio né per l’aguzzina né per la sopravvissuta.
Alla fine la memoria si chiude solo col dolore. Non c’è nulla da imparare senza coscienza (come nel caso di Hanna) o senza perdono (come per Ilana Mather, sopravvissuta ad Auschwitz) solo la durezza di cuore e la morte. Questo è infatti l’ultimo dolore che Hanna infligge a Michael, lasciandogli l’ennesimo e inutile senso di colpa.
Un film difficile, talvolta forse volutamente irrisolto, nell’intento di ricordarci quanto siano ancora aperte certe domande sia nella mente dei sopravvissuti sia in quella dei tedeschi. Domande irrisolte, certo, ma prive della tendenza assolutoria nei confronti del Nazismo che qualcuno erroneamente ha voluto riconoscervi. Un’opera che a tratti nella figura di Hanna sembra quasi ricordare i film storici sul terrorismo come Anni di piombo, Maledetti vi amerò o il più recente Buongiorno, notte nei quali spesso si sottolineava la distanza tra vita privata e dimensione pubblica, evidenziando la freddezza con la quale un uomo all’apparenza comune potesse diventare un feroce assassino.


REVOLUTIONARY ROAD LA “RIVOLUZIONE” IMPOSSIBILE – L’impietoso diario di una coppia in crisi dal romanzo di Richard Yates

10 02 2009
revolutionary road1
«No, non sarà così per noi, noi siamo diversi, non annegheremo nella ruotine e nelle frustrazioni di tutti i giorni.»
La ricostituita coppia Kate Winslet – Leonardo di Caprio, diretta da Sam Mendes, questa volta ci parla ancora di sogni, ma sogni amari, inseriti in una quotidianità vera e angusta, quella dell’America anni ’50.
Così, dopo qualche anno di matrimonio, ecco affiorare l’insoddisfazione e lo scontro, la moglie April, che aveva cullato il suo desiderio di diventare attrice, è costretta ad ammettere di essere rimasta solo «una promessa» del teatro e nulla più; resta senza lavoro e finisce per interpretare il ruolo della "desperate housewife" a tempo pieno. Frank, il marito, che sognava un non meglio definito "lavoro creativo" ed eccitante, si abbruttisce dalla mattina alla sera nella stessa azienda dove aveva lavorato suo padre, quella nella quale aveva giurato che non avrebbe mai messo piede. Magari è più in su di un grandino, ma, in fondo, fa solo l’addetto alle vendite, un anonimo impiegato di cui nessuno si ricorderà.
Tutti, amici e conoscenti, stanno in una via residenziale periferica, Revolutianary Road, e il nome del luogo è l’unica cosa davvero rivoluzionaria di questa vita, nella quale ogni cosa appare immobile, finché April (per la quale Kate Wislet ha ricevuto il Golden Globe), non convince Frank a lasciare tutto e trasferirsi a Parigi, cambiare vita, insomma.
Tutti, amici e conoscenti, restano scioccati: perché si dovrebbe cambiare vita? Che follia è mai questa? Eppure c’è anche qualcuno che li invidia e qualcun altro, invece, che li capisce.
Peccato che l’unico a comprenderli sul serio – e non solo come atto di compatimento per la stravaganza di una giovane coppia con la testa fra le nuvole – sia «il matto del villaggio» con un dottorato in matematica, certo, ma anche 34 elettrochoc alle spalle.
April, però, appare convintissima e determinata: «In fondo – sostiene – tutti riconoscono la verità, anche quelli che la nascondono. Col tempo imparano soltanto a mentire meglio.»
Ma la società appare avvolgente prima come una chioccia e poi come un boa costrictor che abbraccia e stritola nelle sue spire, risucchia i due protagonisti: prima Frank accetta un avanzamento di carriera; poi April deve ammettere di essere incinta, anche se non vuole il bambino. Il viaggio a Parigi doveva essere anche un modo per sfuggire alla prospettiva di un altro figlio.
La reazione della donna è vissuta dal marito come un affronto, un’insensata fuga.
Frank parla e parla, ma per ascoltare solo se stesso. Meglio pensare che l’insoddisfazione di Kate nasconda qualcosa di patologico, da cura psichiatrica, perché così non dovrà fare i conti con la propria interiorità.
La conclusione è quasi inevitabile: di coloro che hanno cercato di cambiare quel mondo immobile, nessuno, alla fine, si ricorderà, se non come un’evanescente nostalgia irrealizzabile, come il sogno estivo di vivere a Parigi.


REVOLUTIONARY ROAD LA “RIVOLUZIONE” IMPOSSIBILE – L’impietoso diario di una coppia in crisi dal romanzo di Richard Yates

10 02 2009
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«No, non sarà così per noi, noi siamo diversi, non annegheremo nella ruotine e nelle frustrazioni di tutti i giorni.»
La ricostituita coppia Kate Winslet – Leonardo di Caprio, diretta da Sam Mendes, questa volta ci parla ancora di sogni, ma sogni amari, inseriti in una quotidianità vera e angusta, quella dell’America anni ’50.
Così, dopo qualche anno di matrimonio, ecco affiorare l’insoddisfazione e lo scontro, la moglie April, che aveva cullato il suo desiderio di diventare attrice, è costretta ad ammettere di essere rimasta solo «una promessa» del teatro e nulla più; resta senza lavoro e finisce per interpretare il ruolo della "desperate housewife" a tempo pieno. Frank, il marito, che sognava un non meglio definito "lavoro creativo" ed eccitante, si abbruttisce dalla mattina alla sera nella stessa azienda dove aveva lavorato suo padre, quella nella quale aveva giurato che non avrebbe mai messo piede. Magari è più in su di un grandino, ma, in fondo, fa solo l’addetto alle vendite, un anonimo impiegato di cui nessuno si ricorderà.
Tutti, amici e conoscenti, stanno in una via residenziale periferica, Revolutianary Road, e il nome del luogo è l’unica cosa davvero rivoluzionaria di questa vita, nella quale ogni cosa appare immobile, finché April (per la quale Kate Wislet ha ricevuto il Golden Globe), non convince Frank a lasciare tutto e trasferirsi a Parigi, cambiare vita, insomma.
Tutti, amici e conoscenti, restano scioccati: perché si dovrebbe cambiare vita? Che follia è mai questa? Eppure c’è anche qualcuno che li invidia e qualcun altro, invece, che li capisce.
Peccato che l’unico a comprenderli sul serio – e non solo come atto di compatimento per la stravaganza di una giovane coppia con la testa fra le nuvole – sia «il matto del villaggio» con un dottorato in matematica, certo, ma anche 34 elettrochoc alle spalle.
April, però, appare convintissima e determinata: «In fondo – sostiene – tutti riconoscono la verità, anche quelli che la nascondono. Col tempo imparano soltanto a mentire meglio.»
Ma la società appare avvolgente prima come una chioccia e poi come un boa costrictor che abbraccia e stritola nelle sue spire, risucchia i due protagonisti: prima Frank accetta un avanzamento di carriera; poi April deve ammettere di essere incinta, anche se non vuole il bambino. Il viaggio a Parigi doveva essere anche un modo per sfuggire alla prospettiva di un altro figlio.
La reazione della donna è vissuta dal marito come un affronto, un’insensata fuga.
Frank parla e parla, ma per ascoltare solo se stesso. Meglio pensare che l’insoddisfazione di Kate nasconda qualcosa di patologico, da cura psichiatrica, perché così non dovrà fare i conti con la propria interiorità.
La conclusione è quasi inevitabile: di coloro che hanno cercato di cambiare quel mondo immobile, nessuno, alla fine, si ricorderà, se non come un’evanescente nostalgia irrealizzabile, come il sogno estivo di vivere a Parigi.