Franco Branciaroli e l’invincibile follia del teatro
12 12 2011Categories : Senza categoria
Franco Branciaroli ci ha abituato a interpretazioni originali dei grandi classici del teatro, scelti anche per la loro caratterizzazione simbolica e filosofica che scandaglia le radici stesse della vita umana e del mondo. Il suo Edipo è tragico ed ironico allo stesso tempo: vittima ridicola e megalomane della propria hybris, ma anche condannato a pagare per colpe non sue, incestuoso assassino dei parenti, perché per primo condannato a morte dai suoi stessi genitori.
Libero di camminare, ma in realtà viandante legato al suo destino di identità perduta come indica l'emblema di quei piedi forati mai del tutto guariti. Impotente, dunque, nonostante la sua continua pretesa onnipotenza, evidenziata ironicamente da quell'ossessiva pretesa: "Penso a tutto io". Edipo risolve enigmi, tutti quelli che la ragione può capire, ma poi ci sono quelli che né la ragione né la società possono accettare e proprio sulla realtà che supera qualunque umana previsione che Apollo colpisce a morte Edipo. Il re è finalmente e dolorosamente nudo, come qualunque essere umano di fornte al proprio destino.
Per il Branciaroli fans club di Facebook, ho rispolverato questa recensione di "Finale di Partita" di S. Beckett, scritta nel 2006 quando lo spettacolo è stato presentato dal Teatro degli Incamminati a Brescia.
Ho cercato di spiegare l’approccio di Branciaroli al testo di Beckett e anche le sue diverse possibili interpretazioni. Spero vi piaccia.
Lo scenario è da catastrofe post-atomica: una guerra suicida è scoppiata e il mondo è finito oppure è stato un uomo solo, un folle dittatore a promuovere l’intera distruzione del genere umano. Così Samuel Beckett, maestro del teatro dell’assurdo, immagina la definitiva scomparsa dell’umanità nel suo Finale di partita, presentato il 19 febbraio scorso (2006) al Teatro Sociale di Brescia dalla Compagnia degli Incamminati per la regia di Franco Branciaroli.
Solo il deserto regna intorno ad un bunker in cui gli ultimi sopravvissuti si sono rifugiati. Tutto è grigio, comprese le pareti che li circondano e anche il mare è senza onde, è fatto di piombo, intorno c’è solo sabbia. Anche gli esseri naturali, animali e piante, sono scomparsi.
I quattro sopravvissuti Hamm Clov, Nagg, Nell hanno nomi storpiati e simbolici. A cominciare proprio da Hamm (storpiatura di Hamlet), il re, vecchio, cieco e paralitico, inchiodato sulla sua sedia a rotelle, il quale governa il suo servo Clov stupido, privo di memoria e con una gamba di legno, che fa quel poco che c’è da fare con il poco rimasto. La coscienza dell’uomo moderno, quindi, con le sue domande è paralitica e cieca e può solo comandare al servo che probabilmente rappresenta la tecnica e la macchina.
Inoltre, sembra che sia stato proprio Hamm a decretare la fine del mondo, per odio della vita e per paura degli altri, sentimenti determinati anche dal suo essere un diverso. In realtà, la paralisi di Hamm è soprattutto un immobilismo interiore: è la paura di vivere e la convinzione che non ci sia nulla di buono nell’esistenza, ma, che, una volta nati, si entri inesorabilmente nel cerchio del dolore e della distruzione. La sua paralisi è il nichilismo della filosofia di fine Ottocento, ma le sue radici si trovano nella nuova scienza, soprattutto in Galileo, come sottolinea la presenza del cannocchiale. La scienza ha tolto all’uomo il suo antropocentrismo e ne ha fatto un essere insignificante vittima della natura.
Branciaroli sia nella regia sia nella recitazione aderisce perfettamente al testo di Beckett, valorizzandolo nelle sue molteplici sfaccettature e facendo apprezzare la complessità delle sue tematiche relative alla realtà dell’uomo.
Hamm ha spesso un fazzoletto che gli copre il volto come una salma ancor viva o come una sindone che sudi sangue, visto che il suo viso, come quello di Clov, è incredibilmente rosso. Il rosso allude forse all’esposizione alla radiazione atomica, ma soprattutto, si tratta del sudore di sangue dell’infelicità esistenziale assoluta dell’uomo, disancorato da se stesso: un cieco che brancola nel buio della negazione. Un ridicolo Prometeo che nonostante la sua miserabile condizione, si ostina a considerarsi al centro della terra e del cosmo, in una disperata e fallace affermazione di potere.
In scena da una parte ci sono poi due bidoni della spazzatura, nei quali vegetano Nagg e Nell, il padre e la madre di Hamm, senza gambe, caduti dal tandem sulle Ardenne, a Sedan, battuta di feroce sarcasmo contro la guerra franco prussiana e il primo conflitto mondiale. Essi ricordano i due protagonisti di Giorni felici: vorrebbero amarsi, ma le loro menomazioni li hanno resi egoisti e sciocchi come bambini.
Nel bunker si vivono gli ultimi giorni di tutti, ma forse proprio perché sono gli ultimi, vengono trascorsi come giorni qualsiasi; il padrone litiga con il servo, il servo con il padrone, i genitori con il figlio. Si spera di dormire un po’, anzi, di dormire sempre. Una delle battute ricorrenti di Hamm è appunto la continua richiesta delle «sue medicine», anche se è sempre troppo presto per prenderle.
Sorgono poi conflitti interiori: per esempio il servo non sa se abbandonare il padrone e andarsene oppure restare. Egli rappresenta il popolo sottoposto ad una dittatura, il quale fino alla fine non ha mai il coraggio di contestare il despota anche se quest’ultimo lo sta portando alla totale rovina.
Infine, con la comparsa di un bambino fuori dal bunker, il servo sembra deciso ad andarsene, ma non si muove, altrimenti il padrone lo sentirà e lo convincerà ancora a stare con lui. In questo campo appare anche Dio, nelle fattezze di un cane a tre gambe e con tre occhi, è di pezza, poiché si tratta di una creazione puramente umana e per giunta non è ancora finito. E’ un dio comodo, pregato da chi ha distrutto l’umanità, da chi non l’ha impedito e da chi in lui non crede, ma tutti si stupiscono, poi, di non trovarlo.
Del resto, tutta la realtà è frutto semplicemente di affabulazione ed assume consistenza solo nella narrazione: è l’uomo stesso che la rappresenta per sé, perché, in definitiva, ciò che sappiamo del mondo è un fatto puramente mentale. In verità, la realtà semplicemente non esiste e se guardassimo oltre le apparenze e le maschere troveremmo solo il nulla.
Non soltanto il luogo dove è ambientata l’opera è claustrofobico, ma anche l’atmosfera generale di repressione continua e sistematica della vita. Ad un certo punto, infatti, giunge il momento in cui Hamm deve raccontare la storia, perché ormai la storia si crea raccontandola più che «agendola», proprio perché anch’essa è vuota, non ha consistenza. Hamm racconta la storia del servo che egli avrebbe raccolto dalla strada con la promessa di farlo diventare giardiniere; una menzogna, ovviamente, considerando che poi la natura è stata completamente sterminata. In cambio, però, Clov ha dovuto abbandonare suo figlio, il suo bambino, nonostante abbia scongiurato inutilmente Hamm di non farlo. Scopriamo allora che quest’ultimo ha anche ucciso il dottore, quindi la scienza o la psicanalisi e Mother Pegg «di oscurità» perché non le ha dato olio per la lampada, metafora biblica per indicare, probabilmente, la speranza.
Branciaroli interpreta Hamm in modo molto originale, riproducendo la voce italiana dell’ispettore Clouseau: un investigatore fallito, cioè un investigatore cieco e immobile. Un re Sole in disarmo, un Napoleone a Sant’Elena nell’ultimo giorno, ma stizzoso come una vecchia zitella e sicuro ancora del proprio potere che sfoggia con superomismo ridicolo.
Come un despota antico o moderno (Hitler) egli distrugge in maniera scientifica ogni probabile o improbabile oggetto di resistenza, fosse pure un topo o una pulce. Il re deve sterminare con cura ogni forma di vita creando una «soluzione finale» per tutto il genere umano. La vera malattia, infatti, è la vita stessa e il vero problema è la nascita: Hamm a più riprese insulta duramente suo padre accusandolo di averlo messo al mondo per la sua libidine. A suo avviso, l’unico modo per eliminare l’infelicità del genere umano è la sua distruzione finale, la sua totale scomparsa.
Eppure il protagonista si trova a immaginare la natura, perché essa, pur essendo la fonte di tutte le illusioni, è anche l’elemento che può determinare almeno alcuni attimi di ingannevole felicità nell’uomo. Lo sterminio della natura è quasi peggiore, quindi, della stessa distruzione dell’essere umano.
Si avverano così in quest’opera, tutti i presentimenti dell’uomo moderno e della sua incapacità nichilistica di trovare un senso alla vita: dalla coscienza di Hamlet si passa alla coscienza-prosciutto di Hamm, dal cannocchiale di Galileo e dalla scoperta di molti mondi in movimento, ci si trova al centro soltanto con una coscienza cieca e paralitica, perché i punti di riferimento sono completamente saltati. Sono interessanti anche i rapporti dell’uomo con la donna, la quale, impersonata dalla madre (Nell) essendo in Beckett portatrice di vita, è la prima a perire, ennesima vittima del nichilismo maschile.
Si concretizza ciò che Leopardi e Svevo avevano profetizzato (Beckett, infatti, era un appassionato lettore del poeta dell’Infinito): l’uomo attraverso le sue follie affretterà la sua stessa fine, gli imperi scoppieranno come bolle, e un uomo solo un po’ più folle degli altri si porrà al centro della terra, e con un ordigno di potenza inaudita la libererà da tutti i suoi parassiti… Beckett si spinge oltre e distrugge completamente anche la natura.
Sembra quasi che ipotizzi in quest’opera un finale diverso della seconda guerra mondiale, nel caso in cui Hitler o un altro dittatore come lui avesse vinto e si fosse impossessato di tutto il pianeta. In altre parole, secondo Beckett si sarebbe, di fatto, suicidato distruggendo ogni cosa.
Anche il bambino che viene avvistato non avrà secondo Hamm un destino diverso: alla fine, se esiste, o morirà lì fuori o arriverà a quello stesso bunker; quindi la storia si perpetuerà come ha sempre fatto fino a quel momento, con tutti i suoi orrori e la sua cieca disperazione.
In realtà, il bambino non muore e continua a giocare, perciò Beckett sembra affermare che questa visione del mondo è sbagliata o potrebbe esserlo.
Da questo punto di vista l’opera può essere anche considerata come il suicidio della coscienza umana e del suo scetticismo.
La forza del testo di Beckett viene esaltata dalla recitazione di Branciaroli e di Tommaso Cardarelli, a causa del contrasto tra la gravità tragica di ciò che viene enunciato e il tono ironico, sarcastico e ridicolo della rappresentazione. Lo stridente chiaroscuro tragi-comico, come spesso avviene nei personaggi di Branciaroli, esalta la forza del testo e favorisce la comprensione profonda del sottotesto.
RIFERIMENTI E ULTERIORI INTERPRETAZIONI DELL’OPERA
In quest’opera di Beckett si incrociano e si sovrappongono diversi piani di lettura, per esempio risulta evidente il rapporto con Il signor Puntilla e il suo servo Matti di Brecht, sulla dialettica servo-padrone, ma in questo caso Beckett vuole dimostrare che finché il popolo si sentirà inferiore a qualcuno e bisognoso di essere indirizzato, la sua ignoranza verrà usata dal potere. Non potrà sconfiggere i ricchi, i detentori del potere da troppo tempo, finché si riterrà incapace di pensare e bisognoso di un capo.
Infatti al servo viene dato nome Clov che probabilmente è tratto dall’epiteto usato nell’Ulisse di Joyce «cloved» spaccato, tagliato, per indicare il sesso femminile. Il popolo, come diceva lo stesso Hitler si comporta come una donna: «Chi non comprende il carattere profondamente femminile delle masse non sarà mai un oratore efficace. Rifletti: che cosa si aspetta una donna da un uomo? Chiarezza, decisione, forza ed azione..[.]. »
Hamm invece, sarebbe un Hamlet diventato Ham cioè prosciutto, sempre, quindi, utilizzando il sarcasmo per evidenziare il degrado della coscienza umana, infatti viene sottolineato più volte che nel bunker si sente puzza di cadavere.
Per ideare l’ambientazione della sua opera Beckett ha usato una famosa acquaforte di Albrecht Durer cioè «Melencolia 1», la quale raffigura la conoscenza «saturnina» cioè in qualche modo votata alla distruzione. Come dalle due piccole finestre del bunker, anche qui vediamo sullo sfondo il mare e la terra; troviamo poi la presenza del cane e del bambino, la clessidra che diventerà sveglia, e il campanello che diverrà il fischietto. Infine troviamo un quadrato matematico, una sorta di scacchiera, come allude il titolo dell’opera: il finale di partita è in questo caso uno stallo, nel quale alla fine il re stesso sancisce la propria incapacità di muoversi dopo che quasi tutti i pezzi si sono sacrificati per la sua salvezza (o per il suo interessi?).
Non riesce a muoversi, ma è il pezzo più importante, senza di lui la partita sarebbe persa.
Il servo è la regina, il pezzo più potente, ma di questa potenza sembra essersi accorto solo Hamm, perciò non può ribellarsi. I due individui sono inconciliabili e allo stesso tempo indivisibili. I genitori sono i pedoni, deboli, ma tra i pochi pezzi rimasti, assumono grande importanza e quando il re li perde, prova quasi paura.
Il bunker, però, con le sue due finestre poste molto in alto, potrebbe essere considerato anche come l’interno di un teschio con due globi oculari.
In questo caso Hamm sarebbe l’io che pensa, ma essendo cieco e paralitico, le sue idee sono distorte.Il servo è l’io che agisce, o meglio obbedisce all’io che pensa. I genitori sono il super-io, l’educazione monca e gettata via.
RICORDO DI DUE «MATTATORI»
Gassman e Bene si conoscevano? Erano amici?
Sì si conoscevano ma non erano amiconi, direi piuttosto, «amicani», nel senso che si punzecchiavano spesso e volentieri.
Ricordo uno scontro su uno spettacolo di Carmelo Bene. Il figlio di Vittorio Gassman andò a complimentarsi con lui, ma Bene gli disse che suo padre lo aveva mandato perché non aveva avuto il coraggio di venire personalmente… Allora ad un incontro pubblico successivo, Gassman si presentò di sorpresa e lo mise in difficoltà chiedendogli che cosa fosse un anacoluto. Allora, poiché Bene non seppe rispondere, lo accusò di «coglionare» il pubblico.
Nello spettacolo spesso sembra che, in realtà, Bene e Gassman siano le due facce della stessa medaglia…
In effetti è così, come Sancio e Don Chisciotte, entrambi sono funzionali l’uno a l’altro. Del resto, Bene e Gassman venivano dalla stessa scuola di recitazione, detta dei «fonatori»: uno recitava di più con il diaframma e l’altro più di «maschera», ma entrambi con una sorta di intonazione musicale derivata forse anche dal fatto che inizialmente i testi teatrali venivano tradotti dal francese e mantenevano quella musicalità. Entrambi, perciò, hanno creato una sorta di manierismo, tant’è vero che sono imitabili. Si tratta di una recitazione «filosofica», astratta. Al contrario, ad esempio, della scuola di Salvo Randone che sembrava voler costruire una sorta di «parlato vero».
Com’erano umanamente Gassman e Bene?
Non erano due mostri di simpatia anche perché erano soggetti a continui cambiamenti di umore. Ma sicuramente erano due attori eccezionali. L’interpretazione più incredibile di Gassman è nel film I mostri perché rivela tutte le sue possibilità espressive, anche su registri differenti. Bene interpretava soprattutto se stesso e tendeva a sovrapporsi ai personaggi. Tra il Sorpasso e Profumo di donna, invece, c’è uno sforzo di recitazione, poiché si tratta due personaggi ben differenziati. E pensare che Gassman si vergognava a interpretare questi ruoli al cinema, invece erano geniali! Tra i due Gassman era una personalità forse più instabile, stranamente tormentato, come poi abbiamo visto negli ultimi anni della sua vita. Bene era un bevitore accanito di gin, un fumatore a livello autodistruttivo, con i suoi tre pacchetti di Gitanes al giorno, ma era più stabile nella sua sregolatezza, e al di là del suo «personaggio» come artista, era un vero gentiluomo del Sud. Comunque, i suoi eccessi non li ho mai molto apprezzati. A mio parere un artista finisce il suo apprendistato quando smette di essere un "genio".
Clicca sull’immagine per vedere l’intervista a Franco Branciaroli realizzata da Daria Bignardi per le "Invasioni barbariche" nel 2006
Sono appena tornata dal "Don Chisciotte" e sono ancora emozionata: uno spettacolo magnifico e divertente, da ridere fino alle lacrime e da riflettere… fino alle lacrime! Semplicemente "suo", come solo Franco Branciaroli sa fare, restituendo il teatro alla sciamanica magia del gioco, del travestimento e della profonda verità sull’essere umano.
(seguirà recensione)
Sul gruppo di discussione di Facebook dedicato a Franco Branciaroli (Franco Branciaroli fan club) mi hanno chiesto di parlare di lui come attore. Insomma, ho cominciato a scrivere e scrivere, e avrei potuto continuare ancora parecchio… Ma mi riservo qualcosa per il suo Don Chisciotte che andrà in scena a Brescia a metà di questo mese.
Ecco qui, per ora, il frutto delle mie meditazioni.
Per capire Franco Branciaroli come attore di teatro basta ascoltare l’intervista in due parti su "Finale di partita" inserita qui in fondo… Lì c’è già molto di lui. Innanzi tutto è una personalità istrionica e questo si vede subito. Sa reggere il palcoscenico come pochi, anche quando è in sedia a rotelle e occhiali scuri. Non si sa come, non si sa perché, ma accade sempre che riesca a focalizzare l’attenzione sulla sua presenza fisica in scena. Inoltre, è un tipo di attore che ama il teatro classico, ma non è un tradizionalista a tutti i costi, anzi. Di solito gli piace ricercare e mostrare proprio gli aspetti inconsueti di un’opera o di un personaggio, magari anche dissacrandolo, facendone volutamente la parodia. Insomma, a teatro si deve divertire, perché per lui è un momento di trasformazione, di metamorfosi, e – perché no? – di travestimento.
Credo sia un modo per sfatare l’idea che il teatro sia ormai un rituale stantio nel quale non si dice niente di nuovo, niente che sia, come dice lui, per l’hic et nunc. Queste novità apportate ai suoi personaggi oppure la scelta di opere meno note o molto complesse (come per esempio Caligola, testo molto filosofico) fanno sì che il pubblico resti "spiazzato" e si interroghi sul reale significato di ciò che sta guardando. Branciaroli fa sempre molto riflettere, anche perché di solito ha il coraggio di portare in scena testi molto difficili, che presentano problematiche complesse sulla natura umana. Le sue scelte da questo punto di vista credo rappresentino per lui un’esperienza totalizzante nella quale ogni volta si mette in gioco non solo come professionista, ma soprattutto come uomo.
Spesso afferma, infatti, che le battute delle sue opere continuano a frullargli in testa ben oltre lo spettacolo, come se in qualche modo descrivessero la nostra esperienza umana… Ciò vale in particolare per Beckett e soprattutto per il personaggio di Hamm. Branciaroli ha sempre affermato che uno degli aspetti più appassionanti del suo lavoro è la possibilità di mandare a memoria e di fare propri dei capolavori artistici di valore inestimabile. Come se la sua mente fosse un tesoro dal quale attingere non solo in teatro, ma anche negli altri momenti della sua vita. Uno scrigno dal quale trarre cose nuove e cose antiche, con la possibilità di guardare il mondo attraverso gli occhi di Shakespeare, Camus, Beckett, Marlowe, Brecht, Sofocle… e ora anche con gli occhi di Don Chisciotte.