Franco Branciaroli e l’invincibile follia del teatro

12 12 2011
Parte dal Sociale di Brescia la lunga tournée di “Servo di scena” di R. Harwood con Tommaso Cardarelli
Siamo nei primi anni ’40, Londra è sotto i bombardamenti tedeschi che si susseguono martellanti, ma un gruppo di attori continua a recitare in un teatro di periferia dall’aria scalcinata. Tutti sono lì perché dall’altra parte del sipario il pubblico non molla e li segue imperterrito anche rischiando la pelle sotto le bombe insieme a loro. Il teatro è il loro modo per resistere, per riaffermare il diritto di pensare e di sognare o, semplicemente, di divertirsi e dimenticare, almeno per un momento, la guerra. L’autore più richiesto, infatti, è sempre Shakespeare, per gli inglesi un simbolo dell’unità nazionale e dei suoi valori.
Ma la guerra può davvero distruggere qualcosa di fondamentale anche per l’arte e il primo attore e capocomico della compagnia, Sir Ronald, forse di fronte alla distruzione, sotto le ennesime bombe di Hitler, del teatro in cui aveva debuttato molti anni prima, ha una crisi psico-fisica e in un momento di follia si immedesima completamente nel ruolo di re Lear che dovrà recitare di lì a poco. Tutta la città è ferita mortalmente, ma forse per la prima volta Sir Ronald si accorge che la sua arte non è affatto immune dalla morte e dalla devastazione.
In preda al delirio e ad un pianto dirotto, viene portato all’ospedale, ma non vi rimane per molto; dopo un po’ lo vedono tornare in teatro, malfermo sulle gambe, esausto, ma deciso: quello è il suo posto, perché sulla porta del suo camerino, c’è scritto il suo nome ed è lì che deve stare. Ad aiutarlo nell’impresa improba di renderlo presentabile per lo spettacolo interviene Norman, il servo di scena che ha immolato la propria vita al suo servizio, identificandosi nello smisurato ego di Sir Ronald e idolatrandolo in modo ossessivo. Intorno al capocomico comincia il balletto degli altri membri della compagnia propensi a sospendere lo spettacolo e a non farlo recitare, ma il servo insiste e si prodiga, perché la sua unica ragion d’essere sta nel suo idolo amato e odiato allo stesso tempo, visto che attraverso di lui può vivere quella vita che non è riuscito a realizzare, come se la sua celebrità e il suo talento lo illuminassero di luce riflessa. “Avevo un amico che…” è l’esordio ricorrente delle sue storielle sugli attori, ma “l’amico” sarà forse lui stesso, muto testimone dei propri fallimenti?
Franco Branciaroli nel doppio ruolo di attore e regista, mette in scena questo testo del drammaturgo inglese Ronald Harwood, giocando sull’ironia in un contrasto efficace tra dramma e commedia, leggerezza e senso della fine, comicità e disperazione. Fondamentale l’apporto della scenografia di Margherita Palli evidentemente metateatrale, “a sipario aperto”, che da sola chiarisce e determina le scelte registiche. Il pubblico che applaude Sir Ronald al di là del palcoscenico è, infatti, lo stesso che si trova al di qua, in platea. Non si aspetta forse che il primo attore “porti a casa” egregiamente l’opera? Franco Branciaroli lo interpreta come un uomo sfinito forse più emotivamente che fisicamente, uno che ha dato tutto al teatro e che ora vorrebbe solo ritornare se stesso e andarsene a casa, ma ciò non è possibile, perché senza pubblico non è nessuno. Il servo di scena dell’ottimo Tommaso Cardarelli non è certo simile ad un compassato maggiordomo inglese, ma è piuttosto mobilissimo, isterico, geloso di Sir Ronald come un amante e totalmente votato al suo idolo, incapace di esistere al di fuori di quel mondo e dello spettacolo da mettere in scena. Il resto del cast, costituito da Lisa Galantini, Melania Giglio, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Valentina Violo ha accompagnato con efficacia lo svolgersi del dramma tra il capocomico e il servo di scena, mantenendo un certo distacco emotivo che fa da chiaroscuro all’azione.
Harwood non ci parla del teatro in modo edulcorato: anzi lo descrive come un luogo spietato perché il grande attore è un narcisista e, come tale, sempre solo, così come lo sono coloro che gli hanno dedicato la vita perché tutti tesi al soddisfacimento del loro idolo-vittima sacrificale. Il primo attore è oppresso dalla solitudine, schiacciato dalla resa dei conti con il pubblico che lo vuole per sempre personaggio immortale e dalle responsabilità di tirare avanti da solo tutto lo spettacolo; d’altra parte, però, nessuno deve rubargli il proscenio, malato com’è dello sguardo del pubblico su di sé, dell’applauso, dei riflettori, dell’essere ammirato e osannato.
Il teatro per Harwood, il quale effettivamente avuto modo di lavorare come servo di scena, è una realtà vorace che risucchia ogni cosa, soprattutto la vita dei protagonisti. Sir Ronald, consapevole di essere giunto ormai alla fine della sua esistenza, cerca di lasciare ai suoi compagni di avventura qualcosa di sé, ma non sono sentimenti, perché quelli sono tutti vissuti più sulla scena che nella vita, piuttosto è il testimone del teatro stesso: l’anello del grande attore shakespeariano Kean che egli consegna alla direttrice di scena la quale l’aveva sempre amato senza alcuna speranza per vent’anni. L’unica vera grandezza che Sir Ronald poteva regalare a qualcuno, lo stesso anello con il quale affronta consapevolmente la sua ultima recita di Re Lear. Il suo testamento spirituale è un capolavoro di narcisismo e mancanza di sensibilità, poiché tutti i suoi più stretti collaboratori non vengono ricordati se non genericamente, ultimo segno appunto che, a volte, il teatro è quasi un vizio o una malattia, qualcosa che può uccidere anche solo con le parole. Eppure il messaggio finale è proprio quello della direttrice di scena Madge. Sir le chiede alla fine: “Sei stata felice? Ne è valsa la pena?” E lei risponde: “No, non sono stata felice, ma ne è valsa la pena”.
La propria vita può essere anche come una città bombardata e intorno si può scatenare anche la peggiore delle tempeste, ma la forza del teatro è invincibile perché è una pura energia della mente: rituale collettivo, catartico e liberatorio o magari droga e malattia da cui non si vuole guarire, perché a volte è più facile essere personaggi che uomini…
Rossana Cerretti


L’EDIPO RE DI FRANCO BRANCIAROLI – Gloria e disfatta di un uomo che credeva di conoscere se stesso

28 04 2010

Franco Branciaroli ci ha abituato a interpretazioni originali dei grandi classici del teatro, scelti anche per la loro caratterizzazione simbolica e filosofica che scandaglia le radici stesse  della vita umana e del mondo. Il suo Edipo è tragico ed ironico allo stesso tempo: vittima ridicola e megalomane della propria hybris, ma anche condannato a pagare per colpe non sue, incestuoso assassino dei parenti, perché per primo condannato a morte dai suoi stessi genitori.

 

Libero di camminare, ma in realtà viandante legato al suo destino di identità perduta come indica l'emblema di quei piedi forati mai del tutto guariti.  Impotente, dunque, nonostante la sua continua pretesa onnipotenza, evidenziata ironicamente da quell'ossessiva pretesa: "Penso a tutto io". Edipo risolve enigmi, tutti quelli che la ragione può capire, ma poi ci sono quelli che né la ragione né la società possono accettare e proprio sulla realtà che supera qualunque umana previsione che Apollo colpisce a morte Edipo. Il re è finalmente e dolorosamente nudo, come qualunque essere umano di fornte al proprio destino.

 


 


 



Recensione: SCACCO AL RE – Il suicidio della coscienza moderna in “Finale di partita” di S. Beckett

28 02 2009

Per il Branciaroli fans club di Facebook, ho rispolverato questa recensione di  "Finale di Partita" di S. Beckett, scritta nel 2006 quando lo spettacolo è stato presentato dal Teatro degli Incamminati a Brescia.

Ho cercato di spiegare l’approccio di Branciaroli al testo di Beckett e anche le sue diverse possibili interpretazioni. Spero vi piaccia.

Lo scenario è da catastrofe post-atomica: una guerra suicida è scoppiata e il mondo è finito oppure è stato un uomo solo, un folle dittatore a promuovere l’intera distruzione del genere umano. Così Samuel Beckett, maestro del teatro dell’assurdo, immagina la definitiva scomparsa dell’umanità nel suo Finale di partita, presentato il 19 febbraio scorso (2006) al Teatro Sociale di Brescia dalla Compagnia degli Incamminati per la regia di Franco Branciaroli.
Solo il deserto regna intorno ad un bunker in cui gli ultimi sopravvissuti si sono rifugiati. Tutto è grigio, comprese le pareti che li circondano e anche il mare è senza onde, è fatto di piombo, intorno c’è solo sabbia. Anche gli esseri naturali, animali e piante, sono scomparsi.
I quattro sopravvissuti Hamm Clov, Nagg, Nell hanno nomi storpiati e simbolici. A cominciare proprio da Hamm (storpiatura di Hamlet), il re, vecchio, cieco e paralitico, inchiodato sulla sua sedia a rotelle, il quale governa il suo servo Clov stupido, privo di memoria e con una gamba di legno, che fa quel poco che c’è da fare con il poco rimasto. La coscienza dell’uomo moderno, quindi, con le sue domande è paralitica e cieca e può solo comandare al servo che probabilmente rappresenta la tecnica e la macchina.
Inoltre, sembra che sia stato proprio Hamm a decretare la fine del mondo, per odio della vita e per paura degli altri, sentimenti determinati anche dal suo essere un diverso. In realtà, la paralisi di Hamm è soprattutto un immobilismo interiore: è la paura di vivere e la convinzione che non ci sia nulla di buono nell’esistenza, ma, che, una volta nati, si entri inesorabilmente nel cerchio del dolore e della distruzione. La sua paralisi è il nichilismo della filosofia di fine Ottocento, ma le sue radici si trovano nella nuova scienza, soprattutto in Galileo, come sottolinea la presenza del cannocchiale. La scienza ha tolto all’uomo il suo antropocentrismo e ne ha fatto un essere insignificante vittima della natura.
Branciaroli sia nella regia sia nella recitazione aderisce perfettamente al testo di Beckett, valorizzandolo nelle sue molteplici sfaccettature e facendo apprezzare la complessità delle sue tematiche relative alla realtà dell’uomo.
Hamm ha spesso un fazzoletto che gli copre il volto come una salma ancor viva o come una sindone che sudi sangue, visto che il suo viso, come quello di Clov, è incredibilmente rosso. Il rosso allude forse all’esposizione alla radiazione atomica, ma soprattutto, si tratta del sudore di sangue dell’infelicità esistenziale assoluta dell’uomo, disancorato da se stesso: un cieco che brancola nel buio della negazione. Un ridicolo Prometeo che nonostante la sua miserabile condizione, si ostina a considerarsi al centro della terra e del cosmo, in una disperata e fallace affermazione di potere.
In scena da una parte ci sono poi due bidoni della spazzatura, nei quali vegetano Nagg e Nell, il padre e la madre di Hamm, senza gambe, caduti dal tandem sulle Ardenne, a Sedan, battuta di feroce sarcasmo contro la guerra franco prussiana e il primo conflitto mondiale. Essi ricordano i due protagonisti di Giorni felici: vorrebbero amarsi, ma le loro menomazioni li hanno resi egoisti e sciocchi come bambini.
Nel bunker si vivono gli ultimi giorni di tutti, ma forse proprio perché sono gli ultimi, vengono trascorsi come giorni qualsiasi; il padrone litiga con il servo, il servo con il padrone, i genitori con il figlio. Si spera di dormire un po’, anzi, di dormire sempre. Una delle battute ricorrenti di Hamm è appunto la continua richiesta delle «sue medicine», anche se è sempre troppo presto per prenderle.
Sorgono poi conflitti interiori: per esempio il servo non sa se abbandonare il padrone e andarsene oppure restare. Egli rappresenta il popolo sottoposto ad una dittatura, il quale fino alla fine non ha mai il coraggio di contestare il despota anche se quest’ultimo lo sta portando alla totale rovina.
Infine, con la comparsa di un bambino fuori dal bunker, il servo sembra deciso ad andarsene, ma non si muove, altrimenti il padrone lo sentirà e lo convincerà ancora a stare con lui. In questo campo appare anche Dio, nelle fattezze di un cane a tre gambe e con tre occhi, è di pezza, poiché si tratta di una creazione puramente umana e per giunta non è ancora finito. E’ un dio comodo, pregato da chi ha distrutto l’umanità, da chi non l’ha impedito e da chi in lui non crede, ma tutti si stupiscono, poi, di non trovarlo.
Del resto, tutta la realtà è frutto semplicemente di affabulazione ed assume consistenza solo nella narrazione: è l’uomo stesso che la rappresenta per sé, perché, in definitiva, ciò che sappiamo del mondo è un fatto puramente mentale. In verità, la realtà semplicemente non esiste e se guardassimo oltre le apparenze e le maschere troveremmo solo il nulla.
Non soltanto il luogo dove è ambientata l’opera è claustrofobico, ma anche l’atmosfera generale di repressione continua e sistematica della vita. Ad un certo punto, infatti, giunge il momento in cui Hamm deve raccontare la storia, perché ormai la storia si crea raccontandola più che «agendola», proprio perché anch’essa è vuota, non ha consistenza. Hamm racconta la storia del servo che egli avrebbe raccolto dalla strada con la promessa di farlo diventare giardiniere; una menzogna, ovviamente, considerando che poi la natura è stata completamente sterminata. In cambio, però, Clov ha dovuto abbandonare suo figlio, il suo bambino, nonostante abbia scongiurato inutilmente Hamm di non farlo. Scopriamo allora che quest’ultimo ha anche ucciso il dottore, quindi la scienza o la psicanalisi e Mother Pegg «di oscurità» perché non le ha dato olio per la lampada, metafora biblica per indicare, probabilmente, la speranza.
Branciaroli interpreta Hamm in modo molto originale, riproducendo la voce italiana dell’ispettore Clouseau: un investigatore fallito, cioè un investigatore cieco e immobile. Un re Sole in disarmo, un Napoleone a Sant’Elena nell’ultimo giorno, ma stizzoso come una vecchia zitella e sicuro ancora del proprio potere che sfoggia con superomismo ridicolo.
Come un despota antico o moderno (Hitler) egli distrugge in maniera scientifica ogni probabile o improbabile oggetto di resistenza, fosse pure un topo o una pulce. Il re deve sterminare con cura ogni forma di vita creando una «soluzione finale» per tutto il genere umano. La vera malattia, infatti, è la vita stessa e il vero problema è la nascita: Hamm a più riprese insulta duramente suo padre accusandolo di averlo messo al mondo per la sua libidine. A suo avviso, l’unico modo per eliminare l’infelicità del genere umano è la sua distruzione finale, la sua totale scomparsa.
Eppure il protagonista si trova a immaginare la natura, perché essa, pur essendo la fonte di tutte le illusioni, è anche l’elemento che può determinare almeno alcuni attimi di ingannevole felicità nell’uomo. Lo sterminio della natura è quasi peggiore, quindi, della stessa distruzione dell’essere umano.
Si avverano così in quest’opera, tutti i presentimenti dell’uomo moderno e della sua incapacità nichilistica di trovare un senso alla vita: dalla coscienza di Hamlet si passa alla coscienza-prosciutto di Hamm, dal cannocchiale di Galileo e dalla scoperta di molti mondi in movimento, ci si trova al centro soltanto con una coscienza cieca e paralitica, perché i punti di riferimento sono completamente saltati. Sono interessanti anche i rapporti dell’uomo con la donna, la quale, impersonata dalla madre (Nell) essendo in Beckett portatrice di vita, è la prima a perire, ennesima vittima del nichilismo maschile.
Si concretizza ciò che Leopardi e Svevo avevano profetizzato (Beckett, infatti, era un appassionato lettore del poeta dell’Infinito): l’uomo attraverso le sue follie affretterà la sua stessa fine, gli imperi scoppieranno come bolle, e un uomo solo un po’ più folle degli altri si porrà al centro della terra, e con un ordigno di potenza inaudita la libererà da tutti i suoi parassiti… Beckett si spinge oltre e distrugge completamente anche la natura.
Sembra quasi che ipotizzi in quest’opera un finale diverso della seconda guerra mondiale, nel caso in cui Hitler o un altro dittatore come lui avesse vinto e si fosse impossessato di tutto il pianeta. In altre parole, secondo Beckett si sarebbe, di fatto, suicidato distruggendo ogni cosa.
Anche il bambino che viene avvistato non avrà secondo Hamm un destino diverso: alla fine, se esiste, o morirà lì fuori o arriverà a quello stesso bunker; quindi la storia si perpetuerà come ha sempre fatto fino a quel momento, con tutti i suoi orrori e la sua cieca disperazione.
In realtà, il bambino non muore e continua a giocare, perciò Beckett sembra affermare che questa visione del mondo è sbagliata o potrebbe esserlo.
Da questo punto di vista l’opera può essere anche considerata come il suicidio della coscienza umana e del suo scetticismo.
La forza del testo di Beckett viene esaltata dalla recitazione di Branciaroli e di Tommaso Cardarelli, a causa del contrasto tra la gravità tragica di ciò che viene enunciato e il tono ironico, sarcastico e ridicolo della rappresentazione. Lo stridente chiaroscuro tragi-comico, come spesso avviene nei personaggi di Branciaroli, esalta la forza del testo e favorisce la comprensione profonda del sottotesto.

RIFERIMENTI E ULTERIORI INTERPRETAZIONI DELL’OPERA

In quest’opera di Beckett si incrociano e si sovrappongono diversi piani di lettura, per esempio risulta evidente il rapporto con Il signor Puntilla e il suo servo Matti di Brecht, sulla dialettica servo-padrone, ma in questo caso Beckett vuole dimostrare che finché il popolo si sentirà inferiore a qualcuno e bisognoso di essere indirizzato, la sua ignoranza verrà usata dal potere. Non potrà sconfiggere i ricchi, i detentori del potere da troppo tempo, finché si riterrà incapace di pensare e bisognoso di un capo.
Infatti al servo viene dato nome Clov che probabilmente è tratto dall’epiteto usato nell’Ulisse di Joyce «cloved» spaccato, tagliato, per indicare il sesso femminile. Il popolo, come diceva lo stesso Hitler si comporta come una donna: «Chi non comprende il carattere profondamente femminile delle masse non sarà mai un oratore efficace. Rifletti: che cosa si aspetta una donna da un uomo? Chiarezza, decisione, forza ed azione..[.]. »
Hamm invece, sarebbe un Hamlet diventato Ham cioè prosciutto, sempre, quindi, utilizzando il sarcasmo per evidenziare il degrado della coscienza umana, infatti viene sottolineato più volte che nel bunker si sente puzza di cadavere.
Per ideare l’ambientazione della sua opera Beckett ha usato una famosa acquaforte di Albrecht Durer cioè «Melencolia 1», la quale raffigura la conoscenza «saturnina» cioè in qualche modo votata alla distruzione. Come dalle due piccole finestre del bunker, anche qui vediamo sullo sfondo il mare e la terra; troviamo poi la presenza del cane e del bambino, la clessidra che diventerà sveglia, e il campanello che diverrà il fischietto. Infine troviamo un quadrato matematico, una sorta di scacchiera, come allude il titolo dell’opera: il finale di partita è in questo caso uno stallo, nel quale alla fine il re stesso sancisce la propria incapacità di muoversi dopo che quasi tutti i pezzi si sono sacrificati per la sua salvezza (o per il suo interessi?).
Non riesce a muoversi, ma è il pezzo più importante, senza di lui la partita sarebbe persa.
Il servo è la regina, il pezzo più potente, ma di questa potenza sembra essersi accorto solo Hamm, perciò non può ribellarsi. I due individui sono inconciliabili e allo stesso tempo indivisibili. I genitori sono i pedoni, deboli, ma tra i pochi pezzi rimasti, assumono grande importanza e quando il re li perde, prova quasi paura.
Il bunker, però, con le sue due finestre poste molto in alto, potrebbe essere considerato anche come l’interno di un teschio con due globi oculari.
In questo caso Hamm sarebbe l’io che pensa, ma essendo cieco e paralitico, le sue idee sono distorte.Il servo è l’io che agisce, o meglio obbedisce all’io che pensa. I genitori sono il super-io, l’educazione monca e gettata via.



DIALOGO CON FRANCO BRANCIAROLI – Uno dei grandi mattatori del teatro italiano parla di sé e del suo Don Chisciotte

14 02 2009
11-02-09_1814Mercoledì scorso al Mondadori Multicenter di Piazza del Duomo a Milano, Franco Branciaroli ha presentato il suo spettacolo Don Chisciotte – in scena in questi giorni al Teatro Strehler- nel corso di un incontro condotto da Antonio Calibi, Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano. In quest’occasione, attraverso le domande del conduttore e del pubblico, Branciaroli ha ripercorso le varie fasi di ideazione del suo spettacolo, chiarendo il rapporto con i due mattatori del teatro italiano, Vittorio Gassman e Carmelo Bene ai quali si ispira per dare voce a Don Chisciotte.e Sancio Panza. Vi proponiamo il suo intervento così come lo abbiamo raccolto, sotto forma di un dialogo – intervista con l’attore.
 
L’IDEAZIONE DEL «DON CHISCIOTTE»
Come ha concepito l’idea di mettere in scena il cavaliere della Mancia in modo così originale?
Questo strano Don Chisciotte nasce da una sfida: non c’è attore che non sogni di interpretarlo, ma già mettere in scena i romanzi è un controsenso perché i romanzi sono fatti di personaggi, caratteri, mentre nel teatro si affrontano miti e i miti antichi sono funzioni e rappresentazioni. I personaggi moderni come Don Giovanni, Faust e Don Chisciotte sono, invece, caratteri: si sa troppo di loro, sono eccessivamente concreti. Si sa cosa mangiano e come sono, non sono funzioni astratte come Edipo per questo «funzionano» meglio se interpretati con il canto o la parodia.
Sta dicendo, quindi, che rappresentare Don Chisciotte sul palcoscenico è impossibile?
Proprio così, i fallimenti che si sono susseguiti nel tentativo di mettere in scena questo personaggio lo dimostrano. Pabst è l’unico regista che è riuscito a tradurre il Don Chisciotte in un film, ma le sue parti erano cantate altrimenti sulla scena non sarebbe stato efficace. Un attore non regge per più di 5 minuti con un bacile sulla testa, a meno che non sia tutto trasfigurato attraverso una visione più onirica ed artificiale. E’ la sfida che già Shakespeare aveva capito: mettere in scena un personaggio attraverso la sua assenza, perché, altrimenti, sarebbe risultato troppo debole, come accade, per esempio, nel Giulio Cesare: quello che dovrebbe essere il protagonista, sta in scena al massimo per un quarto d’ora in tutto, per pochi minuti ogni volta.
C’è un perfetto parallelismo nello spettacolo perché Cervantes e Shakespeare sono morti lo stesso giorno (23 aprile 1616), mentre Bene e Gassman erano nati lo stesso giorno, il primo settembre.
Una bella sfida insomma… come ha pensato di risolverla?
Ho pensato di concentrarmi su che cosa fa Don Chisciotte, anziché su chi sia. In realtà, egli è fondamentalmente un imitatore e il romanzo di cui è protagonista è una sorta di trattato sull’imitazione. In genere, è considerato un personaggio positivo, ma questo giudizio sarebbe in parte da rivedere, perché non è autonomo, imita personalità anacronistiche, si uniforma in tutto e per tutto ad Amadigi di Gaula, che per lui resta un modello inarrivabile.
Allora ho pensato che, se volevo portare in scena Don Chisciotte, anziché imitare i cavalieri erranti, dovevo imitare «i cavalieri della scena» che si cimentano nella sfida impossibile di «rappresentare» il Don Chisciotte.
Insomma lei nei confronti di Bene e Gassman si comporta come Don Chisciotte, di fatto compie la medesima operazione…
Esatto, io sono come Don Chisciotte: io imito Bene e Gassman che interpretano il personaggio di Cervantes. Un percorso metateatrale degno di Borges: essi escono sconfitti dall’impossibilità di mettere in scena il Don Chisciotte, mentre io lo «faccio», cioè divento l’imitatore dei miti del teatro italiano ed esco vincente dalla sfida. Il vero Chisciotte sono io: infatti la mia vera voce non si sente mai, perché il «Don» è solo imitazione.
L’altra idea comica è stata quella di creare una coppia che reggesse la scena come Totò e Peppino o Stanlio e Ollio. Inoltre, lo spettacolo è organizzato per episodi anche slegati perché così è simile alla trama del libro: si possono estrapolare passi diversi anche senza rispettare un ordine narrativo dal momento che è costruito per giustapposizione.
 
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IL ROMANZO DELL’ILLUSIONE BAROCCA
Insomma sembra di capire che il Don Chisciotte sia un romanzo «allo specchio», secondo il procedimento dell’illusione barocca. Specchio che, infatti, appare in scena, quando viene aperto il libro di Cervantes…
Nel romanzo c’è un plagio: Don Chisciotte diventa lettore di se stesso in diretta, e la conclusione del duello con Biscaino, infatti, viene letta sull’altro libro quello ritrovato per caso a Toledo, opera di uno scrittore moro. E’ come se il protagonista ritrovasse il suo libro dove si raccontano le sue gesta, anche quelle che non ha ancora compiuto. Ciò può accadere solo perché è un essere del tutto virtuale. Il plagio fornisce una scusa a Cervantes per scrivere il secondo volume che non sarebbe frutto d’imitazione. Lo spettacolo ha la stessa funzione: provocare nello spettatore l’idea dell’impossibilità dell’illusione scenica del teatro. Nell’era di un programma come il «Grande Fratello» che scimmiotta la vita vera «facendo la vita vera», il teatro, che è finzione volta al vero, quale funzione può assumere? Per questo Don Chisciotte è l’eroe di un’epoca di crisi: se c’è un romanzo uguale al romanzo che racconta la vostra vita, allora anche voi potreste essere finti. Si potrebbe arrivare a mostrare in televisione me seduto sul divano che guardo la televisione (dove ovviamente sullo schermo ci sono io).
Mi pare che lei abbia voluto restituire al teatro il suo senso proprio attraverso la funzione di quel sipario barocco che non cala mai, ma si apre su una vertigine.
Sì, il sipario barocco disvela un antro che è una vertigine, perché al centro c’è la porta dell’inferno e ai lati il bancone di un bar ingombro di superalcolici.
Lo specchio, infatti, determina il meccanismo barocco: non deve essere un doppio sterile, ma attraverso l’oggettivazione esterna in un altro elemento, mostrerà la verità a chi guarda. Questa è la funzione del romanzo barocco ovvero del Don Chisciotte.
Lo spettacolo però è anche molto comico… Non è solo un’operazione intellettuale
Questo spettacolo è basato sul cabaret: due morti vi invitano sul loro palcoscenico nell’aldilà dove si vive una sorta di atmosfera allucinatoria. Trascinati dall’alcool che era la droga degli anni ’50, i due «mattatori» introducono a freddo i pezzi di Cervantes come se fossero alticci, in preda ad una sorta di veggenza o di delirio. Gassman, per esempio, beve «il biondo amico della notte» (whisky) e poi vede i mulini a vento. Quando scambia i mulini per giganti, però, Don Chisciotte non prende semplicemente "Roma per toma" perché la sua visione fa parte del concetto di maraviglioso dell’epoca nel quale si affermava l’identità di giganti e torri. Insomma, tra torri e mulini, poi, non c’è tutta questa differenza: è un mondo che egli non riconosce più e non vuole consapevolmente riconoscere (cioè il mondo della tecnica ndr).
 
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L’IMMORTALITA’ DI DON CHISCIOTTE E’ IL TEATRO
Come mai nell’opera si allude al fatto che ogni sera cambierebbero gli episodi narrati?
Ho voluto dare la sensazione di un’opera in fieri che viene costantemente ripetuta dai due attori, in uno spettacolo infinito, ma sempre con un testo diverso. Si presume, infatti, che Bene e Gassman reciteranno per sempre. Il palcoscenico del teatro si trova al Purgatorio: è lì che vogliono eternamente vivere, sebbene essi siano stati mandati in Paradiso, a dispetto di tutti i loro eccessi, mentre Dante è all’inferno, secondo un tipico meccanismo di inversione carnevalesca.
Per questo il suo Don Chisciotte non muore?
Il «Don» sul mio palcoscenico non muore mai. Inganna anche Cervantes: non muore perché sta al Purgatorio cioè, come dicevo, nel teatro (perché il Purgatorio è il luogo «ove ragion ne fruga» come spiega Dante nel III canto, ndr) luogo sospeso tra terra e cielo, tra Paradiso e Inferno. Questa soluzione viene anticipata da Miguel de Unamuno il quale ha scritto una Vita di Don Chisciotte e di Sancio dove attacca Cervantes perché a suo parere non avrebbe capito realmente il valore del suo personaggio. Secondo de Unamuno il fondamentale delitto di Cervantes è che interrompe il romanzo facendo rinsavire il protagonista e facendogli rinnegare la cavalleria errante. Il romanzo infatti, è costruito come una sfida e una lotta tra Cervantes, che non può più credere alla cavalleria e il suo personaggio che tenta di seguirla in tutto e per tutto.
A volte sembra che il suo Don Chisciotte sia nato improvvisando e che anche in scena lei stesso talvolta improvvisi…
E’ vero, è nato improvvisando e anche in scena c’è questo rapporto diretto con il pubblico al quale ci si rivolge e che rompe la finzione, anche introducendo gli applausi di un altro pubblico virtuale.
Inoltre, questo mio progetto ha preso corpo durante la tournee del Galileo di Brecht: durante le pause perseguitavo gli attori della compagnia di fronte a quali improvvisavo delle scene del Don Chisciotte con le voci di Bene e Gassman per vedere se «funzionavano» se avrebbero riso.
Ad un certo punto dello spettacolo si parla di identità, verità e amore, le tre domande che Don Chisciotte si pone, perché?
Che cos’è l’amore, l’identità, la verità: tutte e tre queste componenti sono messe in discussione dalla nuova visione del mondo dell’uomo moderno. Come Shakespeare lo fa con Amleto in modo tragico, Cervantes mostra attraverso il suo personaggio la precarietà di questi tre concetti che prima sembravano indiscutibili: Don Chisciotte non ha un’identità sua, ma è frutto di pura imitazione, la «sua» verità è un fatto del tutto soggettivo, e nel suo romanzo anche la realtà sembra sempre ingannevole; infine, come si fa ad amare una donna che non si conosce? Quindi tutte le certezze risultano volutamente sovvertite. E’ il mistero del falso che affascina più del vero e che da sempre fa parte del gioco del teatro e della letteratura.
Perché augura buon viaggio agli spettatori alla fine dello spettacolo?
Perché si immagina che anche gli spettatori siano entrati in questo luogo dell’aldilà privo di tempo, dove la loro stessa corporeità si sia frantumata, allora alla fine dello spettacolo sarebbe come dire «ricomponete i vostri elettroni e tornate a recitare nella vita».
Perché il personaggio di Don Chisciotte non è solo comico, ma anche ferisce?
Ferisce perché nell’opera c’è lo humour che rende ambiguo tutto. Lo humour è un’invenzione del Don Chisciotte: prima c’era la comicità, poi l’ironia ariostesca che già ci si avvicina, ma lo humour dilacera, perché pirandellianamente mette a nudo la verità. Non nasconde, ma esalta l’elemento patetico che viene svelato al di là dell’apparenza.

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RICORDO DI DUE «MATTATORI»
Gassman e Bene si conoscevano? Erano amici?
Sì si conoscevano ma non erano amiconi, direi piuttosto, «amicani», nel senso che si punzecchiavano spesso e volentieri.
Ricordo uno scontro su uno spettacolo di Carmelo Bene. Il figlio di Vittorio Gassman andò a complimentarsi con lui, ma Bene gli disse che suo padre lo aveva mandato perché non aveva avuto il coraggio di venire personalmente… Allora ad un incontro pubblico successivo, Gassman si presentò di sorpresa e lo mise in difficoltà chiedendogli che cosa fosse un anacoluto. Allora, poiché Bene non seppe rispondere, lo accusò di «coglionare» il pubblico.
Nello spettacolo spesso sembra che, in realtà, Bene e Gassman siano le due facce della stessa medaglia…
In effetti è così, come Sancio e Don Chisciotte, entrambi sono funzionali l’uno a l’altro. Del resto, Bene e Gassman venivano dalla stessa scuola di recitazione, detta dei «fonatori»: uno recitava di più con il diaframma e l’altro più di «maschera», ma entrambi con una sorta di intonazione musicale derivata forse anche dal fatto che inizialmente i testi teatrali venivano tradotti dal francese e mantenevano quella musicalità. Entrambi, perciò, hanno creato una sorta di manierismo, tant’è vero che sono imitabili. Si tratta di una recitazione «filosofica», astratta. Al contrario, ad esempio, della scuola di Salvo Randone che sembrava voler costruire una sorta di «parlato vero».
Com’erano umanamente Gassman e Bene?
Non erano due mostri di simpatia anche perché erano soggetti a continui cambiamenti di umore. Ma sicuramente erano due attori eccezionali. L’interpretazione più incredibile di Gassman è nel film I mostri perché rivela tutte le sue possibilità espressive, anche su registri differenti. Bene interpretava soprattutto se stesso e tendeva a sovrapporsi ai personaggi. Tra il Sorpasso e Profumo di donna, invece, c’è uno sforzo di recitazione, poiché si tratta due personaggi ben differenziati. E pensare che Gassman si vergognava a interpretare questi ruoli al cinema, invece erano geniali! Tra i due Gassman era una personalità forse più instabile, stranamente tormentato, come poi abbiamo visto negli ultimi anni della sua vita. Bene era un bevitore accanito di gin, un fumatore a livello autodistruttivo, con i suoi tre pacchetti di Gitanes al giorno, ma era più stabile nella sua sregolatezza, e al di là del suo «personaggio» come artista, era un vero gentiluomo del Sud. Comunque, i suoi eccessi non li ho mai molto apprezzati. A mio parere un artista finisce il suo apprendistato quando smette di essere un "genio".

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LE TAPPE DI UNA «VITA INIMITABILE»
Quali sono state le personalità artistiche che hanno segnato la sua carriera?
Ci sono tre grandi personaggi dai quali ho appreso molto: Aldo Trionfo, con il quale io e Carmelo abbiamo interpretato il Faust-Marlowe-Burlesque, regista geniale e quasi sconosciuto perché facendo il teatro solo per passione e non per vivere (visto che era di famiglia molto ricca) non pubblicizzava neppure i suoi spettacoli e non invitava i critici. Con lui Carmelo Bene ha interpretato il suo primo Caligola. E poi mi ricordo ancora un suo famoso Sandokan… A lui piaceva fare un tipo di teatro «di rivista».
Un altro regista importante per me è stato Luca Ronconi con il quale ho interpretato Medea: lui mi ha insegnato che il teatro può essere vissuto come esperienza e conoscenza filosofica.
E infine, Giovanni Testori perché creava i suoi testi modellandoli direttamente sull’attore e la compagnia che li avrebbe recitati, quindi è stata un’esperienza irripetibile. E’ stato fondamentale per me anche per il suo aspetto visionario, calato, però, profondamente nel reale, come quando rappresentammo In exitu su una scalinata della Stazione Centrale di Milano, usando una lingua lombarda tutta sua.
C’è uno spettacolo o un personaggio a cui è particolarmente legato?
In genere non è affatto vero che per interpretare un personaggio si deve sentire profondamente quello che prova, anzi, una volta conclusa una tournee spesso viene dimanticato, ma ce n’è uno che mi è rimasto veramente impresso: Hamm di Finale di partita di Beckett. Non lo so perché, ma le sue battute continuavano a riecheggiarmi nella mente, questo personaggio mi mancava, anche finite le repliche. Anche Medea, quando ero in scena vestito come Anna Magnani, per me è stato il massimo… E poi mi ha segnato molto, come dicevo, il protagonista di In exitu, ma ricordo anche con grande piacere lo spettacolo Nerone è morto, di Aldo Trionfo nel quale recitava anche Wanda Osiris.
Com’è il suo rapporto con il cinema e la televisione?
Con la televisione, non ho praticamente rapporti, semplicemente non mi interessa. Il cinema, invece, non è mai stato veramente il mio mondo: ho fatto cinque film con Tinto Brass perché è un amco e con lui sul set ci si divertiva. Per il resto, ogni tanto accetto qualche ruolo altrimenti – accenna un sorrisetto beffardo – il mio agente cinematografico resta disoccupato… Il cinema, insomma non è proprio il mio ambito, resta per me un altro mondo, un altro paese.
Come dovrebbe essere secondo lei il nuovo teatro?
Oggi si tende a descrivere quello che si vede e basta e chi lo fa rischia anche di essere definito un genio…. In realtà non sta proponendo altro che quello che vede. Il vero artista, invece, dovrebbe ricercare in ciò che osserva la verità sull’uomo. Occuparsi della gente che vive e chiedersi come può crescere, descrivere non basta; ci vorrebbe un teatro propositivo. Forrest Wallace è un grande autore contemporaneo proprio per questo perché non si limita a descrivere «l’orrenda società americana», ma si spinge oltre. Mostrare il nulla non basta: la difficoltà è far vivere nel teatro che cos’è l’uomo.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm


FRANCO BRANCIAROLI E’ DON CHISCIOTTE – La performance del teatro tra Carmelo Bene e Gassman

17 01 2009
  
E adesso che il palco della vita si chiuda!
No, aspettate, permettetemi di raccontarvi ancora un’ultima storia…
 
Alla domanda a proposito del perché fa teatro Branciaroli ha risposto: «Mi verrebbe da dire "Per me stesso": a volte come un sado-masochista salgo sulla scena garantendo professionalità e qualità anche quando ci sono solo venti persone…»
In realtà, almeno da «Finale di partita» in poi, i suoi spettacoli fanno registrare il tutto esaurito, ma la sua risposta investe ugualmente il significato ultimo del suo essere attore ovvero uomo…

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 Una scena del Don Chisciotte

Il progetto di una vita di Franco Branciaroli è finalmente diventato realtà: per una stagione essere Don Chisciotte e Sancho Panza, ovvero la finzione stessa del teatro e la sua verità, essere la sintesi e l’immagine scanzonata di due mostri sacri della prosa italiana della seconda metà del Novecento, Vittorio Gassman e Carmelo Bene. I due mattatori della scena sono interpretati attraverso l’amore tipico di Branciaroli per i profondi significati del teatro classico reinventato con la fantasia, il travestimento e il puro divertimento della recitazione. Dietro un sipario barocco sempre semiaperto, campeggia il bancone di un bar ingombro di bottiglie di superalcolici, forse un’ironia sull’unico spirito dionisiaco rimasto oggi al teatro contemporaneo? Probabilmente sì, ma anche il ricordo delle debolezze dei due grandi miti del nostro teatro. Alcool e sigarette in quantità ad indicare i due poli opposti sui quali si muove spesso il genio, tra altezze e cadute. 
Il gioco della vita si svela sul palcoscenico nella sua complessa e meravigliosa vacuità che rende sempre uniche le opere, rivisitate e interpretate. dall’attore prediletto da Giovanni Testori.
Ieri sera Branciaroli è stato solo il teatro, il suo teatro, la sua carriera e gli spettacoli degli ultimi anni, riassunti sulla scena, con le loro domande sulla verità, l’identità e l’amore, con la forza che solo lui, come essere umano interrogante e pericolosamente in bilico sul nulla, può esprimere.
Uomo tipicamente moderno, drammaticamente affacciato sul labirinto, eppure pensante, in costante ricerca delle ragioni dell’essere e del non essere, dell’atto costitutivo dell’umanità. Ciò è possibile sul palcoscenico quando l’atto della suprema finzione incontra la contraffazione letteraria ovvero Don Chisciotte: il folle della piccola nobiltà, ormai cinquantenne in disarmo che cerca nei libri le risposte alla sua stessa esistenza. Cerca, don Chisciada, di diventare Don Chisciotte della Mancia, cerca uno specchio in cui riconoscersi, qualcuno da imitare per diventare eroico in un mondo di piccoli savi mediocri.
Tra Cartesio e Cervantes Branciaroli non ha dubbi e sceglie Cervantes cioè l’uomo nel labirinto della propria umanità, della propria natura onirica: «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», afferma il contemporaneo Shakespeare che morì lo stesso giorno del grande scrittore spagnolo.
Così il personaggio di Don Chisciotte per Branciaroli è colui che ha voluto provare la «verità» della letteratura.
Un viaggiatore della coscienza, dove con l’immaginazione si può costruire un mondo nobile anche in una realtà ignobile. Ora la letteratura guida gli uomini, creando il libro nel libro: cioè una vita di imitazione che è sua volta scritta e narrata, ancora prima che essa si realizzi. Da questo momento non sarà solo la natura a decidere il fato umano, ma anche il romanzo a raccontarne il destino prima ancora della sua conclusione.
Ora sarà la letteratura ad attribuire scopi ed identità. L’identità che viene dal passato: Don Chisciotte si propone di essere un nuovo Amadigi che egli imita come può, alla meglio, come in tutte le epoche di crisi.
Così Branciaroli imita i due grandi ed eterni mattatori del passato, Gassman e Bene, facendo loro il verso, ma allo scopo di celebrare la grandezza del teatro in tutte le sue forme. I due opposti, si rivelano, in realtà, le facce della stessa medaglia, si affrontano in singolar tenzone nella lettura del V canto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca, per intenderci, creando momenti di intensa e spassosissima performance.
La novità del romanzo di Cervantes è uno spazio vuoto, lo spazio vuoto e labirintico della coscienza moderna, la contraffazione della contraffazione. Che cosa è vero e cosa falso nella realtà tra pubblico e narratore tra personaggio ed autore? E’ una lotta tra la follia e la realtà, dove l’unica verità umana che vale è la prima a discapito della seconda.
Le eterne questioni sull’uomo dal Caligola di Camus al Beckett della dureriana Melanconia di Finale di partita, al Galileo di Brecht, riemergono tutte qui, come la domanda diretta sulla quale Branciaroli ha costruito un intero spettacolo scritto da lui stesso: «Cos’è l’amore?». L’amore vagheggiato per ciò che non si conosce come Madonna Dulcinea, che non si sa, come la «cara beltà» del Leopardi in un famoso idillio. Qualcuno che si vagheggia e si sogna, qualcuno che è ben più alto di qualsiasi donna comune e di cui ci si può innamorare perdutamente perché ci si innamora, nel senso più nobile, dell’amore stesso e del significato profondo di essere uomini.
Franco Branciaroli è riuscito a celebrare l’essenza del teatro: l’imitazione e il richiamo al passato uniti al reinventarsi continuamente nel presente. Nella sua istrionica interpretazione il gusto per l’imitazione vocale, la ricerca di rendere una forma assolutamente contraffatta e a sua volta manieristica come quella di Bene o di Gassman, fa sì che la meditazione e il messaggio risultino ancora più evidenti e forti.
I contenuti risaltano nitidi e intatti, rigenerati dall’invenzione e dalla sua stessa forza e contraffazione astratta.
La mancanza di naturalismo nella recitazione, tipica già del suo rapporto con Testori, diviene qui veicolo privilegiato della riflessione filosofica che non si attua in termini seri e paludati, ma attraverso il travestimento, l’ambivalenza carnevalesca, la finzione-verità.
Il suo teatro parla di noi così come il Don Chisciotte del quale non si può portare in scena la morte, né la negazione della cavalleria, perché egli è l’attore e l’attore starà sempre sul palcoscenico.
Il mito del teatro non può mettere in scena l’anticipazione della propria scomparsa, perché è già archetipo, basato sulla lucida follia di rintracciare nella finzione la verità, nell’indagine letteraria i semi della realtà e della coscienza esemplare.
Per questo il sipario non scende mai del tutto, neppure alla fine.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm


RIDERE E PIANGERE CON IL DON CHISCIOTTE DI FRANCO BRANCIAROLI

16 01 2009

donchisciotte1 Clicca sull’immagine per vedere l’intervista a Franco Branciaroli realizzata da Daria Bignardi per le "Invasioni barbariche" nel 2006

 

Sono appena tornata dal "Don Chisciotte" e sono ancora emozionata: uno spettacolo magnifico e divertente, da ridere fino alle lacrime e da riflettere… fino alle lacrime! Semplicemente "suo", come solo Franco Branciaroli sa fare, restituendo il teatro alla sciamanica magia del gioco, del travestimento e della profonda verità sull’essere umano.

 

 (seguirà recensione)

 



FRANCO BRANCIAROLI E IL TEATRO

7 01 2009

Sul gruppo di discussione di Facebook dedicato a Franco Branciaroli (Franco Branciaroli fan club) mi hanno chiesto di parlare di lui come attore. Insomma, ho cominciato a scrivere e  scrivere, e avrei potuto continuare ancora parecchio…  Ma mi riservo qualcosa per il suo Don Chisciotte che andrà in scena a Brescia a metà di questo mese.
Ecco qui, per ora, il frutto delle mie meditazioni.

  Franco Branciaroli in Vita di Galileo di B. Brecht

Per capire Franco Branciaroli come attore di teatro basta ascoltare l’intervista in due parti su "Finale di partita" inserita qui in fondo… Lì c’è già molto di lui. Innanzi tutto è una personalità istrionica e questo si vede subito. Sa reggere il palcoscenico come pochi, anche quando è in sedia a rotelle e occhiali scuri. Non si sa come, non si sa perché, ma accade sempre che riesca a focalizzare l’attenzione sulla sua presenza fisica in scena. Inoltre, è un tipo di attore che ama il teatro classico, ma non è un tradizionalista a tutti i costi, anzi. Di solito gli piace ricercare e mostrare proprio gli aspetti inconsueti di un’opera o di un personaggio, magari anche dissacrandolo, facendone volutamente la parodia. Insomma, a teatro si deve divertire, perché per lui è un momento di trasformazione, di metamorfosi, e – perché no? – di travestimento.
Credo sia un modo per sfatare l’idea che il teatro sia ormai un rituale stantio nel quale non si dice niente di nuovo, niente che sia, come dice lui, per l’hic et nunc. Queste novità apportate ai suoi personaggi oppure la scelta di opere meno note o molto complesse (come per esempio Caligola, testo molto filosofico) fanno sì che il pubblico resti "spiazzato" e si interroghi sul reale significato di ciò che sta guardando. Branciaroli fa sempre molto riflettere, anche perché di solito ha il coraggio di portare in scena testi molto difficili, che presentano problematiche complesse sulla natura umana. Le sue scelte da questo punto di vista credo rappresentino per lui un’esperienza totalizzante nella quale ogni volta si mette in gioco non solo come professionista, ma soprattutto come uomo.
Spesso afferma, infatti, che le battute delle sue opere continuano a frullargli in testa ben oltre lo spettacolo, come se in qualche modo descrivessero la nostra esperienza umana… Ciò vale in particolare per Beckett e soprattutto per il personaggio di Hamm. Branciaroli ha sempre affermato che uno degli aspetti più appassionanti del suo lavoro è la possibilità di mandare a memoria e di fare propri dei capolavori artistici di valore inestimabile.  Come se la sua mente fosse un tesoro dal quale attingere non solo in teatro, ma anche negli altri momenti della sua vita. Uno scrigno dal quale trarre cose nuove e cose antiche, con la possibilità di guardare il mondo attraverso gli occhi di Shakespeare, Camus, Beckett, Marlowe, Brecht, Sofocle… e ora anche con gli occhi di Don Chisciotte.