INVICTUS – La ricetta di Clint Eastwood per guarire la nostra società malata

3 03 2010
invict4Con Invictus Clint Eastwood questa volta supera se stesso e ci parla di uno di quei momenti straordinari della storia nei quali riusciamo a pensare che l’umanità possa andare verso un vero progresso della civiltà e dei diritti. Lo fa con l’essenzialità della narrazione che gli è propria e con la straordinaria ricerca di inquadrature-simbolo che dovranno esprimere l’intera concezione del film in un’unica ripresa: come accade in quella iniziale che unisce in un continuum la squadra di rugby dei ricchi afrikaner bianchi e i ragazzi neri della baraccopoli che giocano a calcio a piedi nudi su un povero sterrato. Li divide una strada trafficata nella quale di lì a poco passerà l’auto che sta riportando finalmente a casa Nelson Mandela dopo trent’anni di carcere duro. Quella strada che ora divide due popoli dovrà invece unirli e questo è l’arduo compito che attende il capo dell’African National Congress.

Eastwood parla della possibilità di ricostruire un tessuto sociale e lo fa prendendo ad esempio una delle peggiori situazioni possibili, quella dell’apartheid. Ma si sa, questo grande attore-regista che ogni volta aspira a superare se stesso, ama raccontare le sfide impossibili e si emoziona ed entusiasma come un ragazzino, alle soglie dei suoi ottant’anni, per questa storia «troppo bella per essere vera» eppure realmente accaduta. Mostra come tutto si sarebbe potuto trasformare in tragedia e come, invece, sia possibile intendersi anche tra personalità e culture molto distanti se si trovano valori comuni per i quali battersi, qualcosa in cui riconoscersi. Mandela comprende che non basta aver preso il potere né avere la maggioranza in parlamento e nella nazione se c’è una spaccatura che divide i due popoli e l’odio e la diffidenza continuano a farla da padroni. Un uomo che è stato segregato in una angusta cella per trent’anni non ha partorito l’odio, non sono stati il rancore o il desiderio di rivalsa a tenerlo in vita, ma la convinzione della forza sconvolgente del perdono. L’idea che non la guerra e lo scontro violento siano i veri motori di un cambiamento, ma la capacità di vedere oltre, di guardare ad un bene comune più alto, all’appartenenza ad una stessa terra: «Il perdono libera l’anima, cancella la paura. Per questo è un’arma tanto potente».invict

La paura si basa sulla non conoscenza per questo Mandela utilizza il simbolo stesso dell’apartheid, gli Springboks, la squadra di rugby dei «signorini» bianchi come emblema della trasformazione che intende attuare. La sfida è difficilissima, ma fondamentale: «Se riuscirò nel mio progetto – sembra dirsi Mandela – sarà la dimostrazione sul campo che non solo la convivenza pacifica, ma la collaborazione tra i nostri due popoli sarà possibile e che sono di più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono» per questo una partita di rugby, sia pure del campionato del mondo, diventa improvvisamente così importante.
Per riuscire nel miracolo, però, Mandela deve smentire il pregiudizio che «Il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da selvaggi; il rugby è uno sport da selvaggi giocato da gentiluomini» e.portare dalla sua parte il capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un Matt Damon a volte un po’ statico; inoltre, come dicevamo, deve sconfiggere la paura con la conoscenza reciproca. Per questo invita gli Springboks ad allenarsi fuori dal loro campo di gioco mandandoli, in mezzo alle baracche dei neri finché, colpiti dalla miseria intorno a loro, questi bianchi vestiti con l’odiata divisa verde-oro, non si mettono ad insegnare il rugby ai bambini poveri delle borgate.
Eastwood attraverso questo film non parla solo del Sudafrica, ovviamente, ma della situazione del mondo attuale e delle terribili tensioni che caratterizzano le nostre società multietniche e i rapporti tra civiltà diverse. Il film è emozionante e veramente intenso, in questa sfida che ha tutto il sapore dell’impossibile. se non sapessimo che questo popolo, almeno in parte, si è ricostituito quasi non ci crederemmo. Morgan Freeman, poi, è un Mandela perfetto, calmo essenziale, un uomo di acciaio con il tocco di velluto, che non ha paura di niente perché nella sua vita ha visto e provato il peggio. E’ serenamente pronto a morire perché la morte gli è stata compagna per trenta lunghi anni e adesso nulla sembra poterlo fermare. La forza del bene che promana dalla sua persona è immediata e potente tanto da non permettere a nessuno di dire no. Eastwood ci parla di Mandela come qualcuno che è riuscito a realizzare un’impresa quasi folle solo per mezzo della sua volontà incrollabile. Come il poeta che il neo presidente del Sudafrica aveva imparato ad amare quando si trovava in carcere: William Ernest Henley autore nel 1875 proprio degli emozionanti versi di Invictus 
«Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l’indomabile anima mia.»
Un uomo che già nella prima adolescenza era stato condannato a morte dalla tubercolosi, ma che era riuscito a lottare con la sua malattia fino a 53 anni. Un miracolo sul quale i medici non avrebbero scommesso un centesimo. Una situazione paragonabile a quella del Sudafrica per il quale ben pochi avrebbero immaginato un epilogo positivo né tanto meno che Mandela sarebbe stato scarcerato.senza colpo ferire, ma soltanto per la forza delle idee. Quando il regista cita il poeta sembra che parli di se stesso perché ormai vede le prospettive accorciarsi davanti a sé, ma proprio per questo in ogni film sembra volerci lasciare una sua eredità spirituale
Eastwood ci parla con la saggezza della sua età e non con la disperazione, perché quell’anima indomita è prima di tutto la sua. Un epilogo che dall’ispettore Callaghan non ci saremmo mai aspettati, ma la giustizia, infine, non può prevalere sull’umanità.
Uno di quei film che meritano di essere visti una seconda volta anche solo per apprezzare tutte brillanti soluzioni tecniche ed espressive del suo cinema elegante, essenziale e potente, come per esempio, la partita di rugby finale girata in mezzo al campo alla stessa altezza dei giocatori.
Un film che per la lotta disperata ed eroica ricorda Lettere da Iwo Jima, ma con una conclusione inaspettatamente positiva nel trionfo di valori condivisi: il simbolo della riconciliazione è il nuovo inno nazionale scritto nella lingua dei neri, ma cantato anche dai bianchi. Un’opera commovente e grandiosa come solo i più alti ideali sanno essere per testimoniare che qualunque mattone può servire per ricostruire, anche quello di chi consideriamo il nostro nemico, se si ha il coraggio di utilizzarlo.

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