QUALI COLOMBE DAL DISIO CHIAMATE… – pensando a quelle anime offense…

29 04 2009

Salve Regina coelorum (Burning the past) by Harry Gregson-Williams

«O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».

 
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.

«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.



DIALOGO CON FRANCO BRANCIAROLI – Uno dei grandi mattatori del teatro italiano parla di sé e del suo Don Chisciotte

14 02 2009
11-02-09_1814Mercoledì scorso al Mondadori Multicenter di Piazza del Duomo a Milano, Franco Branciaroli ha presentato il suo spettacolo Don Chisciotte – in scena in questi giorni al Teatro Strehler- nel corso di un incontro condotto da Antonio Calibi, Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano. In quest’occasione, attraverso le domande del conduttore e del pubblico, Branciaroli ha ripercorso le varie fasi di ideazione del suo spettacolo, chiarendo il rapporto con i due mattatori del teatro italiano, Vittorio Gassman e Carmelo Bene ai quali si ispira per dare voce a Don Chisciotte.e Sancio Panza. Vi proponiamo il suo intervento così come lo abbiamo raccolto, sotto forma di un dialogo – intervista con l’attore.
 
L’IDEAZIONE DEL «DON CHISCIOTTE»
Come ha concepito l’idea di mettere in scena il cavaliere della Mancia in modo così originale?
Questo strano Don Chisciotte nasce da una sfida: non c’è attore che non sogni di interpretarlo, ma già mettere in scena i romanzi è un controsenso perché i romanzi sono fatti di personaggi, caratteri, mentre nel teatro si affrontano miti e i miti antichi sono funzioni e rappresentazioni. I personaggi moderni come Don Giovanni, Faust e Don Chisciotte sono, invece, caratteri: si sa troppo di loro, sono eccessivamente concreti. Si sa cosa mangiano e come sono, non sono funzioni astratte come Edipo per questo «funzionano» meglio se interpretati con il canto o la parodia.
Sta dicendo, quindi, che rappresentare Don Chisciotte sul palcoscenico è impossibile?
Proprio così, i fallimenti che si sono susseguiti nel tentativo di mettere in scena questo personaggio lo dimostrano. Pabst è l’unico regista che è riuscito a tradurre il Don Chisciotte in un film, ma le sue parti erano cantate altrimenti sulla scena non sarebbe stato efficace. Un attore non regge per più di 5 minuti con un bacile sulla testa, a meno che non sia tutto trasfigurato attraverso una visione più onirica ed artificiale. E’ la sfida che già Shakespeare aveva capito: mettere in scena un personaggio attraverso la sua assenza, perché, altrimenti, sarebbe risultato troppo debole, come accade, per esempio, nel Giulio Cesare: quello che dovrebbe essere il protagonista, sta in scena al massimo per un quarto d’ora in tutto, per pochi minuti ogni volta.
C’è un perfetto parallelismo nello spettacolo perché Cervantes e Shakespeare sono morti lo stesso giorno (23 aprile 1616), mentre Bene e Gassman erano nati lo stesso giorno, il primo settembre.
Una bella sfida insomma… come ha pensato di risolverla?
Ho pensato di concentrarmi su che cosa fa Don Chisciotte, anziché su chi sia. In realtà, egli è fondamentalmente un imitatore e il romanzo di cui è protagonista è una sorta di trattato sull’imitazione. In genere, è considerato un personaggio positivo, ma questo giudizio sarebbe in parte da rivedere, perché non è autonomo, imita personalità anacronistiche, si uniforma in tutto e per tutto ad Amadigi di Gaula, che per lui resta un modello inarrivabile.
Allora ho pensato che, se volevo portare in scena Don Chisciotte, anziché imitare i cavalieri erranti, dovevo imitare «i cavalieri della scena» che si cimentano nella sfida impossibile di «rappresentare» il Don Chisciotte.
Insomma lei nei confronti di Bene e Gassman si comporta come Don Chisciotte, di fatto compie la medesima operazione…
Esatto, io sono come Don Chisciotte: io imito Bene e Gassman che interpretano il personaggio di Cervantes. Un percorso metateatrale degno di Borges: essi escono sconfitti dall’impossibilità di mettere in scena il Don Chisciotte, mentre io lo «faccio», cioè divento l’imitatore dei miti del teatro italiano ed esco vincente dalla sfida. Il vero Chisciotte sono io: infatti la mia vera voce non si sente mai, perché il «Don» è solo imitazione.
L’altra idea comica è stata quella di creare una coppia che reggesse la scena come Totò e Peppino o Stanlio e Ollio. Inoltre, lo spettacolo è organizzato per episodi anche slegati perché così è simile alla trama del libro: si possono estrapolare passi diversi anche senza rispettare un ordine narrativo dal momento che è costruito per giustapposizione.
 
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IL ROMANZO DELL’ILLUSIONE BAROCCA
Insomma sembra di capire che il Don Chisciotte sia un romanzo «allo specchio», secondo il procedimento dell’illusione barocca. Specchio che, infatti, appare in scena, quando viene aperto il libro di Cervantes…
Nel romanzo c’è un plagio: Don Chisciotte diventa lettore di se stesso in diretta, e la conclusione del duello con Biscaino, infatti, viene letta sull’altro libro quello ritrovato per caso a Toledo, opera di uno scrittore moro. E’ come se il protagonista ritrovasse il suo libro dove si raccontano le sue gesta, anche quelle che non ha ancora compiuto. Ciò può accadere solo perché è un essere del tutto virtuale. Il plagio fornisce una scusa a Cervantes per scrivere il secondo volume che non sarebbe frutto d’imitazione. Lo spettacolo ha la stessa funzione: provocare nello spettatore l’idea dell’impossibilità dell’illusione scenica del teatro. Nell’era di un programma come il «Grande Fratello» che scimmiotta la vita vera «facendo la vita vera», il teatro, che è finzione volta al vero, quale funzione può assumere? Per questo Don Chisciotte è l’eroe di un’epoca di crisi: se c’è un romanzo uguale al romanzo che racconta la vostra vita, allora anche voi potreste essere finti. Si potrebbe arrivare a mostrare in televisione me seduto sul divano che guardo la televisione (dove ovviamente sullo schermo ci sono io).
Mi pare che lei abbia voluto restituire al teatro il suo senso proprio attraverso la funzione di quel sipario barocco che non cala mai, ma si apre su una vertigine.
Sì, il sipario barocco disvela un antro che è una vertigine, perché al centro c’è la porta dell’inferno e ai lati il bancone di un bar ingombro di superalcolici.
Lo specchio, infatti, determina il meccanismo barocco: non deve essere un doppio sterile, ma attraverso l’oggettivazione esterna in un altro elemento, mostrerà la verità a chi guarda. Questa è la funzione del romanzo barocco ovvero del Don Chisciotte.
Lo spettacolo però è anche molto comico… Non è solo un’operazione intellettuale
Questo spettacolo è basato sul cabaret: due morti vi invitano sul loro palcoscenico nell’aldilà dove si vive una sorta di atmosfera allucinatoria. Trascinati dall’alcool che era la droga degli anni ’50, i due «mattatori» introducono a freddo i pezzi di Cervantes come se fossero alticci, in preda ad una sorta di veggenza o di delirio. Gassman, per esempio, beve «il biondo amico della notte» (whisky) e poi vede i mulini a vento. Quando scambia i mulini per giganti, però, Don Chisciotte non prende semplicemente "Roma per toma" perché la sua visione fa parte del concetto di maraviglioso dell’epoca nel quale si affermava l’identità di giganti e torri. Insomma, tra torri e mulini, poi, non c’è tutta questa differenza: è un mondo che egli non riconosce più e non vuole consapevolmente riconoscere (cioè il mondo della tecnica ndr).
 
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L’IMMORTALITA’ DI DON CHISCIOTTE E’ IL TEATRO
Come mai nell’opera si allude al fatto che ogni sera cambierebbero gli episodi narrati?
Ho voluto dare la sensazione di un’opera in fieri che viene costantemente ripetuta dai due attori, in uno spettacolo infinito, ma sempre con un testo diverso. Si presume, infatti, che Bene e Gassman reciteranno per sempre. Il palcoscenico del teatro si trova al Purgatorio: è lì che vogliono eternamente vivere, sebbene essi siano stati mandati in Paradiso, a dispetto di tutti i loro eccessi, mentre Dante è all’inferno, secondo un tipico meccanismo di inversione carnevalesca.
Per questo il suo Don Chisciotte non muore?
Il «Don» sul mio palcoscenico non muore mai. Inganna anche Cervantes: non muore perché sta al Purgatorio cioè, come dicevo, nel teatro (perché il Purgatorio è il luogo «ove ragion ne fruga» come spiega Dante nel III canto, ndr) luogo sospeso tra terra e cielo, tra Paradiso e Inferno. Questa soluzione viene anticipata da Miguel de Unamuno il quale ha scritto una Vita di Don Chisciotte e di Sancio dove attacca Cervantes perché a suo parere non avrebbe capito realmente il valore del suo personaggio. Secondo de Unamuno il fondamentale delitto di Cervantes è che interrompe il romanzo facendo rinsavire il protagonista e facendogli rinnegare la cavalleria errante. Il romanzo infatti, è costruito come una sfida e una lotta tra Cervantes, che non può più credere alla cavalleria e il suo personaggio che tenta di seguirla in tutto e per tutto.
A volte sembra che il suo Don Chisciotte sia nato improvvisando e che anche in scena lei stesso talvolta improvvisi…
E’ vero, è nato improvvisando e anche in scena c’è questo rapporto diretto con il pubblico al quale ci si rivolge e che rompe la finzione, anche introducendo gli applausi di un altro pubblico virtuale.
Inoltre, questo mio progetto ha preso corpo durante la tournee del Galileo di Brecht: durante le pause perseguitavo gli attori della compagnia di fronte a quali improvvisavo delle scene del Don Chisciotte con le voci di Bene e Gassman per vedere se «funzionavano» se avrebbero riso.
Ad un certo punto dello spettacolo si parla di identità, verità e amore, le tre domande che Don Chisciotte si pone, perché?
Che cos’è l’amore, l’identità, la verità: tutte e tre queste componenti sono messe in discussione dalla nuova visione del mondo dell’uomo moderno. Come Shakespeare lo fa con Amleto in modo tragico, Cervantes mostra attraverso il suo personaggio la precarietà di questi tre concetti che prima sembravano indiscutibili: Don Chisciotte non ha un’identità sua, ma è frutto di pura imitazione, la «sua» verità è un fatto del tutto soggettivo, e nel suo romanzo anche la realtà sembra sempre ingannevole; infine, come si fa ad amare una donna che non si conosce? Quindi tutte le certezze risultano volutamente sovvertite. E’ il mistero del falso che affascina più del vero e che da sempre fa parte del gioco del teatro e della letteratura.
Perché augura buon viaggio agli spettatori alla fine dello spettacolo?
Perché si immagina che anche gli spettatori siano entrati in questo luogo dell’aldilà privo di tempo, dove la loro stessa corporeità si sia frantumata, allora alla fine dello spettacolo sarebbe come dire «ricomponete i vostri elettroni e tornate a recitare nella vita».
Perché il personaggio di Don Chisciotte non è solo comico, ma anche ferisce?
Ferisce perché nell’opera c’è lo humour che rende ambiguo tutto. Lo humour è un’invenzione del Don Chisciotte: prima c’era la comicità, poi l’ironia ariostesca che già ci si avvicina, ma lo humour dilacera, perché pirandellianamente mette a nudo la verità. Non nasconde, ma esalta l’elemento patetico che viene svelato al di là dell’apparenza.

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RICORDO DI DUE «MATTATORI»
Gassman e Bene si conoscevano? Erano amici?
Sì si conoscevano ma non erano amiconi, direi piuttosto, «amicani», nel senso che si punzecchiavano spesso e volentieri.
Ricordo uno scontro su uno spettacolo di Carmelo Bene. Il figlio di Vittorio Gassman andò a complimentarsi con lui, ma Bene gli disse che suo padre lo aveva mandato perché non aveva avuto il coraggio di venire personalmente… Allora ad un incontro pubblico successivo, Gassman si presentò di sorpresa e lo mise in difficoltà chiedendogli che cosa fosse un anacoluto. Allora, poiché Bene non seppe rispondere, lo accusò di «coglionare» il pubblico.
Nello spettacolo spesso sembra che, in realtà, Bene e Gassman siano le due facce della stessa medaglia…
In effetti è così, come Sancio e Don Chisciotte, entrambi sono funzionali l’uno a l’altro. Del resto, Bene e Gassman venivano dalla stessa scuola di recitazione, detta dei «fonatori»: uno recitava di più con il diaframma e l’altro più di «maschera», ma entrambi con una sorta di intonazione musicale derivata forse anche dal fatto che inizialmente i testi teatrali venivano tradotti dal francese e mantenevano quella musicalità. Entrambi, perciò, hanno creato una sorta di manierismo, tant’è vero che sono imitabili. Si tratta di una recitazione «filosofica», astratta. Al contrario, ad esempio, della scuola di Salvo Randone che sembrava voler costruire una sorta di «parlato vero».
Com’erano umanamente Gassman e Bene?
Non erano due mostri di simpatia anche perché erano soggetti a continui cambiamenti di umore. Ma sicuramente erano due attori eccezionali. L’interpretazione più incredibile di Gassman è nel film I mostri perché rivela tutte le sue possibilità espressive, anche su registri differenti. Bene interpretava soprattutto se stesso e tendeva a sovrapporsi ai personaggi. Tra il Sorpasso e Profumo di donna, invece, c’è uno sforzo di recitazione, poiché si tratta due personaggi ben differenziati. E pensare che Gassman si vergognava a interpretare questi ruoli al cinema, invece erano geniali! Tra i due Gassman era una personalità forse più instabile, stranamente tormentato, come poi abbiamo visto negli ultimi anni della sua vita. Bene era un bevitore accanito di gin, un fumatore a livello autodistruttivo, con i suoi tre pacchetti di Gitanes al giorno, ma era più stabile nella sua sregolatezza, e al di là del suo «personaggio» come artista, era un vero gentiluomo del Sud. Comunque, i suoi eccessi non li ho mai molto apprezzati. A mio parere un artista finisce il suo apprendistato quando smette di essere un "genio".

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LE TAPPE DI UNA «VITA INIMITABILE»
Quali sono state le personalità artistiche che hanno segnato la sua carriera?
Ci sono tre grandi personaggi dai quali ho appreso molto: Aldo Trionfo, con il quale io e Carmelo abbiamo interpretato il Faust-Marlowe-Burlesque, regista geniale e quasi sconosciuto perché facendo il teatro solo per passione e non per vivere (visto che era di famiglia molto ricca) non pubblicizzava neppure i suoi spettacoli e non invitava i critici. Con lui Carmelo Bene ha interpretato il suo primo Caligola. E poi mi ricordo ancora un suo famoso Sandokan… A lui piaceva fare un tipo di teatro «di rivista».
Un altro regista importante per me è stato Luca Ronconi con il quale ho interpretato Medea: lui mi ha insegnato che il teatro può essere vissuto come esperienza e conoscenza filosofica.
E infine, Giovanni Testori perché creava i suoi testi modellandoli direttamente sull’attore e la compagnia che li avrebbe recitati, quindi è stata un’esperienza irripetibile. E’ stato fondamentale per me anche per il suo aspetto visionario, calato, però, profondamente nel reale, come quando rappresentammo In exitu su una scalinata della Stazione Centrale di Milano, usando una lingua lombarda tutta sua.
C’è uno spettacolo o un personaggio a cui è particolarmente legato?
In genere non è affatto vero che per interpretare un personaggio si deve sentire profondamente quello che prova, anzi, una volta conclusa una tournee spesso viene dimanticato, ma ce n’è uno che mi è rimasto veramente impresso: Hamm di Finale di partita di Beckett. Non lo so perché, ma le sue battute continuavano a riecheggiarmi nella mente, questo personaggio mi mancava, anche finite le repliche. Anche Medea, quando ero in scena vestito come Anna Magnani, per me è stato il massimo… E poi mi ha segnato molto, come dicevo, il protagonista di In exitu, ma ricordo anche con grande piacere lo spettacolo Nerone è morto, di Aldo Trionfo nel quale recitava anche Wanda Osiris.
Com’è il suo rapporto con il cinema e la televisione?
Con la televisione, non ho praticamente rapporti, semplicemente non mi interessa. Il cinema, invece, non è mai stato veramente il mio mondo: ho fatto cinque film con Tinto Brass perché è un amco e con lui sul set ci si divertiva. Per il resto, ogni tanto accetto qualche ruolo altrimenti – accenna un sorrisetto beffardo – il mio agente cinematografico resta disoccupato… Il cinema, insomma non è proprio il mio ambito, resta per me un altro mondo, un altro paese.
Come dovrebbe essere secondo lei il nuovo teatro?
Oggi si tende a descrivere quello che si vede e basta e chi lo fa rischia anche di essere definito un genio…. In realtà non sta proponendo altro che quello che vede. Il vero artista, invece, dovrebbe ricercare in ciò che osserva la verità sull’uomo. Occuparsi della gente che vive e chiedersi come può crescere, descrivere non basta; ci vorrebbe un teatro propositivo. Forrest Wallace è un grande autore contemporaneo proprio per questo perché non si limita a descrivere «l’orrenda società americana», ma si spinge oltre. Mostrare il nulla non basta: la difficoltà è far vivere nel teatro che cos’è l’uomo.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm


CRISTO E IL DEMONE INTELLIGENTE – L’inutilità del sapere fine a se stesso

1 02 2009
Cristo scaccia il demone«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga [a Cafàrnao] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: "Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!". E Gesù gli ordinò severamente: "Taci! Esci da lui!". E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: "Che è mai questo? Un insegnaménto nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!". La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.»
 
Cristo scaccia i demoni

Questo episodio del Vangelo secondo Marco (1, 26-38), illustra il curioso rapporto tra Cristo e i demoni nei Vangeli. E’ particolarmente significativo, infatti, che il demone sappia chi sia Cristo e lo riconosca chiaramente, però, invece di adorarlo, cerchi di evitarlo, come se non sapesse barattare il proprio ego con la grandezza che si trova di fronte.
Cristo viene percepito come un concorrente sgradito, eppure il demone sa che esiste il bene, ma non vi aderisce, non vuole ammettere che ci sia qualcosa di più alto oltre il proprio io, sa tutto, ma non ha il coraggio di rinnegare se stesso.
La lotta si scatena perché Cristo insegna con autorità e quindi sta diffondendo una nuova dottrina. «Sei venuto per rovinarci» afferma il demone, perché d’ora in avanti l’uomo non potrà più pensare di essere indegno di Dio e lontano da Lui, visto che Dio si è fatto uomo.
«Rovinarci» perché viene affermata la divinità dell’uomo e la sua possibilità di essere perfetto, così i demoni del dubbio, dello scetticismo e della disperazione non potranno più insinuarsi in lui. Egli si sentirà forte e capace di giungere al bene poiché è consapevole di portarlo in se stesso. Inoltre Cristo con il suo estremo sacrificio, con l’atto di più alta compassione nei confronti del genere umano batterà la morte stessa, incluso il demonio. Viene sconfitto il demone del dubbio sulla bontà della natura umana e dello scetticismo sul valore dell’esistenza: infatti il credente, in genere, è un uomo che in qualche modo crede in se stesso e nella vita, magari inizialmente anche come avversario di Dio (come, per esempio, San Paolo), ma ci crede.
Ecco cosa significa «Sei venuto a rovinarci», perché Cristo è la testimonianza diretta che esiste una via alla verità: la verità nuova sull’uomo fa scattare il demone.
E’ lo scontro tra colui che ha appena ricevuto lo Spirito Santo durante il battesimo impartitogli da Giovanni il Battista – e che ha rifiutato Satana tre volte nel deserto – e l’angelo caduto che cerca il male attaccato alle illusioni della carne (tanto che strazia l’uomo andandosene), raggomitolato e chiuso in un sé-centrismo che non gli fa vedere altro che il proprio lamento e la rabbia. Un essere che non sa rinunciare a se stesso e alla propria miseria, pur vedendo la grandezza di Dio.
Lo comprende con l’intelletto, ma non aderisce con la volontà; situazione incredibile per una «sostanza separata»: un essere che sarebbe una diretta emanazione di Dio stesso (costituito da puro intelletto, secondo San Tommaso) non sa poi aderire alla divinità che pure egli vede con maggiore chiarezza di qualsiasi uomo…
La novità del messaggio, però, lo colpisce: nulla sarà più come prima perché Cristo è venuto a testimoniare la divinità della natura umana.
Come sottolinea Dante nel XXXIII canto del Paradiso:
 
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

All’interno dei tre cerchi che rappresentano la natura stessa di Dio egli scorge l’effigie dell’uomo nella sua più autentica e profonda realtà…
 
 
 

 



VIDE COR MEUM – L’amorosa passione di Dante

28 01 2009

Questa sera  vi dedico una canzone di Patrick Cassidy ancora ispirata a Dante, in veste di giovane poeta acceso dall’amorosa passione. In particolare fa riferimento al sonetto "A ciascun’alma presa" nel capitolo III della Vita Nuova, quando egli vede in sogno Amore che porge il suo cuore a Beatrice perché se ne cibi…

Le voci: Danielle de Niese e Bruno Lazzaretti.
Esecuzione: Lyndhurst Orchestra, diretta da Gavin Greenaway.

Coro: E pensando di lei
Mi sopragiunse uno soave sonno

Ego dominus tuus
Vide cor tuum
E d’esto core ardendo
Cor tuum
(Coro: Lei paventosa)
Umilmente pascea.
Appreso gir lo ne vedea piangendo.

La letizia si convertia
In amarissimo pianto

Io sono in pace
Cor meum
Io sono in pace
Vide cor meum

"E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus». Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggermente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole:«Vide cor tuum». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato…

E cominciai allora questo sonetto:

A ciascun’alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescriva in su’ parvente,
salute in lor segnor, ciò è Amore.

Già eran quasi che atterzate l’ore
del tempo che onne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.

Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le bracci’ avea
madonna, involta ’n un drappo dormendo;

poi la svegliava, d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo."

 (Vita Nuova III)

 

 



ANCORA DANTE – Dante’s Prayer by Loreena McKennitt

24 01 2009

Visto che in questi giorni a teatro tutti fanno riferimento a Dante, ecco come Loreena McKennitt interpreta il viaggio del più famoso pellegrino dell’aldilà…
Un brano di vera poesia.

La preghiera di Dante

Quando la selva oscura piombò dinanzi a me
e tutti i sentieri furono smarriti,
quando i preti dell’orgoglio dicono che non c’è altra via
ho solcato dolori di pietra.

Io non avevo credevo perché non potevo vedere,
sebbene tu fossi venuto da me nella notte:
quando l’alba sembrava perduta per sempre,
mi mostrasti il tuo amore nella luce delle stelle.

Stendi i tuoi occhi sull’oceano
stendi la tua anima sul mare,
quando la notte oscura sembra senza fine
ti prego, ricordati di me.

Quindi la montagna si innalzò davanti a me
attraverso il profondo pozzo del desiderio
dalla fontana del perdono
oltre il ghiaccio e il fuoco.

Stendi i tuoi occhi sull’oceano
stendi la tua anima sul mare,
quando la notte oscura sembra senza fine
ti prego, ricordati di me.

Per quanto condividiamo questo umile sentiero, siamo soli
che fragilità è nel cuore,
oh dai a questi piedi di argilla ali per volare,
per toccare il volto delle stelle.

Instilla vita in questo debole cuore,
solleva questo mortale velo di paura
prendi queste speranze sbriciolate, impresse di lacrime
ci innalzeremo oltre queste preoccupazioni mortali.

Stendi i tuoi occhi sull’oceano
stendi la tua anima sul mare,
quando la notte oscura sembra senza fine
ti prego, ricordati di me,
ti prego ricordati di me…

 

When the dark wood fell before me
And all the paths were overgrown
When the priests of pride say there is no other way
I tilled the sorrows of stone

I did not believe because I could not see
Though you came to me in the night
When the dawn seemed forever lost
You showed me your love in the light of the stars

Chorus:
Cast your eyes on the ocean
Cast your soul to the sea
When the dark night seems endless
Please remember me

Then the mountain rose before me
By the deep well of desire
From the fountain of forgiveness
Beyond the ice and the fire

Chorus
Cast your eyes on the ocean
Cast your soul to the sea
When the dark night seems endless
Please remember me

Though we share this humble path, alone
How fragile is the heart
Oh give these clay feet wings to fly
To touch the face of the stars

Breathe life into this feeble heart
Lift this mortal veil of fear
Take these crumbled hopes, etched with tears
We’ll rise above these earthly cares

Chorus

Please remember me
Please remember me…