«Sono nata il 21 a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta»

2 11 2009

Si è spenta a Milano, all’età di 78 anni, Alda Merini una delle voci più ispirate ed autentiche della nostra poesia contemporanea

 

 

 

TERRA SANTA

Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da agenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello di Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.

 

Alda se n’è andata, forse dove aveva sempre voluto: diceva, infatti, di non aver paura della morte, perché in essa era contenuto il senso ultimo dell’esistenza, come «una riviera musicale, il seno curvo della donna amata». Nata il 21 marzo 1931, il primo giorno di primavera, come spesso amava sottolineare, non ebbe certo una vita facile, segnata dall’incomprensione della scuola e della famiglia e da frequenti internamenti in ospedale psichiatrico dei quali il più lungo tra il 1961 e il ’72. Nonostante tutto, con il carattere coraggioso e appassionato che sempre la contraddistinse, la Merini visse intensamente dal punto di vista sentimentale, avendo anche quattro figli, che però spesso le venivano sottratti a causa delle sue condizioni di salute. La sua attività poetica fu decisamente precoce: infatti, cominciò a scrivere a 16 anni e venne in contatto con gli ambienti letterari del dopoguerra, intrattenendo rapporti di collaborazione e amicizia, tra gli altri, con Salvatore Quasimodo.

 

 

Tra le sue opere più importanti ricordiamo «La Terra Santa» (1984), dedicato alla sua esperienza in manicomio e «L’altra verità. Diario di una diversa» (1985). Nel ’91 scrisse poi «Le parole di Alda Merini» per giungere agli «Aforismi» e al volume «Reato di vita, autobiografia e poesia» del 1994. Tra le ultime opere ricordiamo «La clinica dell’abbandono» pubblicata nel 2004. Le sue poesie hanno ispirato anche diversi musicisti e cantanti come Giovanni Nuti, Roberto Vecchioni, Milva. Negli ultimi anni il suo valore poetico è stato riconosciuto anche attraverso numerosi premi e onorificenze, come il Librex-Guggenheim "Eugenio Montale" per la Poesia che nel ’92 l’ha consacrata tra i grandi letterati italiani, la nomina a Commendatore della Repubblica nel 2002 e la laurea honoris causa in Scienze della Formazione all’Università di Messina (2007).

Forse la poesia confina sempre con la follia. Così è stato per il grande poeta tedesco Holderlin, che, per la cocente delusione dell’unico amore della sua vita, si fece rinchiudere volontariamente in una torre e ne uscì solo dopo la morte. Il nostro geniale Dino Campana non resistette agli incubi della sua mente e finì i suoi giorni in manicomio; né sapeva sopportare l’esistenza Torquato Tasso, il quale – a detta dei suoi contemporanei – intratteneva lunghi dialoghi con un suo «genio familiare» che soltanto lui vedeva. Il latino Lucrezio morì suicida perché – si diceva – impazzito dopo aver bevuto un filtro d’amore. In realtà, forse, l’unico vero filtro amoroso del poeta è la poesia stessa, perché «i poeti non si redimono, vanno lasciati volare tra gli alberi come usignoli pronti a morire» scrisse Alda Merini. Così è stato certamente per lei che alla vita ha dato tutta se stessa, senza remore, senza riserve, in un’apertura «nuda» che effettivamente soltanto un puro folle alla Parsifal avrebbe potuto concepire, perché «l’anima e soprattutto la follia vanno oltre le cose reali, immaginano una verità vera non contraffatta dal caso». Come l’antico mistico cavaliere del Graal anche lei fu costretta a passare lunghi anni nella «terra desolata», mentre il genio poetico le scavava dentro le parole che neppure il suo stesso io conosceva. «Oh bambina che sei dentro di me senza una casa. Bambina che vedi crescere una donna senza un amore», scrisse di se stessa. La sua terra desolata fu il manicomio, perché non c’è nulla di più dirompente della verità al di là delle apparenze, al di là della vita convenzionale. 

 

 

Alda Merini fu una vittima delle leggi che rifiutavano qualunque tipo di diversità psichica, e, sebbene il suo genio poetico fosse stato precocemente riconosciuto, ciò non valse a salvarla dall’orrore. Eppure quelle sofferenze furono per lei il «vestito incandescente» che creò la parola poetica, quello che cambia la percezione della realtà, per giungere alla «limpida meraviglia di un delirante fermento», come scrisse un poeta a lei molto vicino, Giuseppe Ungaretti. Anche la Merini, infatti, concepiva la sua poesia come un atto di illuminazione, qualcosa che sorge dalle profondità dell’essere proprio nel momento in cui si crede di toccare il fondo dell’umana sofferenza e disperazione. «Il poeta non è mai solo – amava dire – è sempre accompagnato dalla meraviglia del suo pensiero» Uno stupore che le permetteva di trasformare quella realtà di miseria e di dolore in un itinerario verso la profonda comprensione del mondo e dell’uomo. Un cammino mistico e dionisiaco insieme in cui la poetessa era quasi incosciente e le parole sgorgavano dalle profondità dello spirito in un impulso nativo, in un attimo di vita iniziale, venuto da chissà dove, come una divina Sibilla. E proprio alla divinità spesso si rivolgevano le sue poesie, al profondo senso del divino che la animava e alla sua consapevolezza intuitiva di esserne quasi la voce, per quel suo dono speciale di cui ignorava l’origine. Il suo Cristo era quello degli ultimi, degli emarginati; la sua fede, vissuta nella carne ancor prima che nella coscienza, con l’adesione e l’abbandono di chi vede nella figura del crocifisso l’immagine della condivisione delle sue stesse sofferenze e il fulcro, il senso profondo della realtà e del suo svelarsi.  

 

 

Alda Merini era sempre innamorata, e non poteva essere che così, abbandonata totalmente al suo spirito appassionato che la spingeva dove gli altri non avevano il coraggio di giungere, portatrice di quell’amore che confinava con la follia, ma metteva in contatto profondo con se stessi e con la realtà. La follia – diceva Alda – era un modo, l’unico forse, di vedere chiaramente. Era una forza dirompente e rivoluzionaria. «Le più belle poesie Si scrivono sopra le pietre Coi ginocchi piagati», prostrati a terra, eppure innamorati di quello strazio meraviglioso, di un «tu» che forse superava anche l’interlocutore di quel momento e l’uomo a cui la poetessa si riferiva. Il «tu» svelato dalla percezione stessa del mondo, nella visione di una superiore bellezza vagheggiata come la «cara beltà» del Leopardi.

 

Per Alda Merini la poesia fu una discesa agli inferi per risorgere dopo aver incontrato i propri demoni e aver strappato loro, incurante delle ferite, l’illuminazione delle verità dell’anima. Così oggi che non è più nelle apparenze, ma solo nella grande testimonianza delle sue parole, potrà finalmente abitare solo con gli angeli.

 


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