MOBY DICK TRA DANTE E AMLETO – Antonio Latella e Giorgio Albertazzi reinterpretano il capolavoro di Herman Melville

22 01 2009

Latella Moby DyckIn questi giorni, Giorgio Albertazzi con la compagnia del regista Antonio Latella presenta al Teatro Sociale di Brescia la rivisitazione teatrale di "Moby Dick" di Herman Melville. Un’opera in cui si respira il senso profondo del misurarsi con la Natura e con il mistero dell’Essere.

La balena li osserva, sotto il pelo dell’acqua, nei loro gesti muti, sempre uguali, sente ogni tanto l’eco frastornato di qualche parola, che si allunga e rimbomba; la balena guarda gli uomini e non li capisce, sa soltanto che vogliono la sua morte, è un animale braccato e solo nel suo mondo muto fatto di gesti e suoni sordi, assorbiti dall’acqua.
Dall’altra parte, sulle lance ci sono gli uomini presi dalla loro forsennata frenesia di correre dietro all’ignoto: non sarebbero uomini se non lo facessero, ma l’ignoto ha un prezzo, ammalarsi di esso, sognare il suo orrore e non potersene più staccare.
Che cosa si cerca in mare? Nell’oceano c’è solo mare e orizzonte, come si può vedere anche dalla terra.
E allora, che cosa si cerca? Il pericolo, la precarietà, la possibilità di misurarsi con forze soverchianti, molto più potenti di noi e con gli abissi, della natura e delle sue leggi, le profondità imperscrutabili di Dio e, soprattutto, di noi stessi e dei nostri demoni.
Antonio Latella ha creato il suo Moby Dick con un’impronta fortemente filosofica e metafisica: l
a scena è evocativa, costituita da uno scheletro in legno che si trasforma, diventando un po’ una nave, un po’ un cimitero, soprattutto un teatro. Al centro di essa si trova una fossa marina, una "fossa fuia" dove chi cade, anche se riemerge, tornando nel mondo dei vivi, non potrà mai più essere come prima.
Si dicono molte parole, per scoprire che la parola è insufficiente ad esprimere il destino umano e così il dantesco "Infin che il mar fu sopra noi richiuso" viene mimato all’unisono dagli attori sulla scena con il linguaggio dei sordomuti. Esso rappresenta l’unico linguaggio che forse la balena potrebbe capire ed anche come essa dalle profondità del mare ci vede: con i gesti sempre uguali dell’uomo in caccia.
Ognuno ha la sua visione della vita sul Pequod ma tutti sono accomunati dallo stesso destino.
Si leggono tutti i libri per gettare via tutti i libri, strappati pagina dopo pagina, perchè fatti di parole che non esauriscono il mistero: non bastano la fede, la Bibbia, la storia di Giona inghiottito dalla balena e restituito alla terra, per esorcizzare l’attrazione e l’orrore; non bastano i filosofi come Kant o Locke, non basta neppure Dante per descrivere il mostro ignoto, anche se di tutti il grande pellegrino dell’oltretomba è quello che più vi si è avvicinato.
Moby Dick è il viaggio dell’uomo nei suoi inferi, l’orrore del Maelstrom già evocato da Edgar Allan Poe e allo stesso tempo è la potenza che attrae e imprigiona, fino a desiderarla spasmodicamente: la propria morte, la propria fine, l’annullamento.
E’ l’orrore dell’Ade, di ciò che rende pazzi una volta guardato come per il personaggio di Elia Pip, nel ricordo del mito di Orfeo, oppure è solo un’ombra un fantasma e Moby Dyck semplicemente non esiste: è soltanto la pelle di una balena scuoiata che galleggia sul mare come una forma vuota, ma che tutti prendono per uno scoglio affiorante, per un insidia nascosta oppure per la mitica balena bianca, il capodoglio inafferabile, che non si cattura mai, ma è ovunque nello stesso momento.
L’ossessione umana del mostruoso Leviatano che tutti inghiottirà è espressa dai molteplici nomi dalle etimologie che fanno sembrare la balena un essere soprannaturale a cui carpire il segreto della vita e con cui misurarsi, bellissima sovrumana, crudele, libera, inafferabile.
La balena è lo spettro delle altre uccise, la vendicatrice solitaria, la forma bianca dell’orrore della coscienza.
Per questo, ad un certo punto, affiora nel testo la presenza di Amleto perché Moby Dick è la coscienza lacerata dell’uomo moderno alla quale non basta il viaggio di Dante, ma può essere espressa solo nella problematicità di Shakespeare, nelle domande che riflettono altre domande, perché niente potrà carpire all’esistenza le sua magnifica e orrifica bellezza, la sua crudele meraviglia che ci sospinge oltre i limiti e ci sfida a superarli, nonostante ciò significhi morte certa.
Noi tutti siamo il capitano Achab a partire dalla figura di Ulisse, cerchiamo nel labirinto marino la risposta dell’essere, ma, di fatto, cerchiamo qualcosa che ci ucciderà prima che lo possiamo comprendere: come nell’Ulisse dantesco e in quello pascoliano, ogni volta il messaggio, la verità, restano indecifrabili e l’uomo anche solo per avvicinarvisi deve accettare la morte inevitabile, e comunque, la risposta non verrà. Perché la realtà è quello che è, muta, come la balena, parla solo attraverso il sangue, i vapori, la pelle, i richiami dai suoni lunghi come sirene.
Il Pequod è la nave della società umana, dove ognuno di fronte alla terribile verità sulla natura del cosmo, della violenza insita in essa e nelle sue leggi, assume un atteggiamento differente: c’è chi, come Ismaele, cioè Melville stesso, scriverà di essa anche senza capirla e sarà l’unico sopravvissuto per poterlo raccontare. Poi ci sono i balenieri di professione, quelli che fanno questo mestiere per soldi o per passione, ma sempre con vere motivazioni che restano sottintese, perché chiunque sulla nave del capitano Achab è stato di fatto coinvolto nel suo giuramento.

albertazzi_achab1

La sua caccia è una ricerca delle ragioni ultime dell’essere e del mondo a prezzo degli affetti, della patria, e della stessa vita. Per Latella, Achab sopravvive allo scontro con Moby Dick, perché diventa lui stesso quella balena per poi scoprire, dopo tante battaglie e tante ricerche che la cosa più difficile è sempre il senso dell’uomo, perché tutto è racchiuso in un semplice occhio umano. "Fammi guardare in un occhio umano", dice ad Ismaele, fissandolo e ordinandogli poi di sopravvivere, di continuare a guardare il bianco dell’orrore per poter raccontare la loro storia, cioè la storia degli uomini.
Due ore di autentico, grande teatro con la compagnia di Antonio Latella, formata da attori veramente notevoli per l’affiatamento nelle scene corali, l’uso del canto e della gestualità, la versatilità nella recitazione, l’attenzione alla parola. Con la loro sola presenza scenica danno vita ad una interpretazione rarefatta ed intensa nella quale si respirano i grandi spazi oceanici, la loro glaciale meraviglia e la fiamma sotterranea della viva potenza.
Giorgio Albertazzi, forte dei suoi 85 anni, interpreta un Achab ai confini del mondo, che incontrando Moby Dick riconosce i suoi stessi demoni e decide di arrendersi ad essi e finire là dove tutti gli uomini temono e desiderano, il mitico, orribile, «maraviglioso» Leviatano.
Un eccezionale Timothy Martin nel ruolo di Quiqueg restituisce efficacemente il personaggio spirituale e profetico del ramponiere, così consapevole della vita perché perennemente unito alla morte e all’aldilà. I suoi canti spirituali, i suoi «mantra», le sue parole profonde e incomprensibili come formule magiche sono volti ad addomesticare l’esistenza e a carpirne i misteri aderendo ad essi.


Actions

Informations

3 responses to “MOBY DICK TRA DANTE E AMLETO – Antonio Latella e Giorgio Albertazzi reinterpretano il capolavoro di Herman Melville”

5 02 2009
anonimo (15:16:55) :

Altarpiece of Holy Sepulcher Discesa agli Inferi

I miei allievi sono rimasti letteralmente stregati da questo spettacolo e mi

hanno sommerso di recensioni, cercherò di pubblicarle tutte; intanto eccovi la

prima:

“Per me si va ne la città dolente,

Per me si va ne l’etterno dolore,

Per me si va tra la perduta gente… 

Lasciate ogne speranza voi ch’intrate.”

L’inferno e il mare, forse la stessa cosa. L’uomo si avventura e scruta

dentro di essi, intraprende un lungo viaggio nell’ignoto, alla ricerca della

propria esistenza. Si avvale di ogni aiuto: Dante, Shakespeare, la Bibbia,

ogni conoscenza per giungere alla meta del proprio pellegrinaggio. Così Achab,

novello Ulisse, si avventura nel mar del Giappone alla ricerca del suo essere:

la balena bianca. Sì perché proprio la balena nel suo mutismo conosce tutte

le risposte; solo quando cacciatore e preda saranno un’unica cosa, solo

allora si giungerà al termine del periglioso cammino.

Lo spettacolo è dominato dalla splendida e magistrale recitazione di Giorgio

Albertazzi, che trasforma i suoi 85 anni, in una tessitura vocale e gestuale

estremamente intensa. L’opera consiste in una trasposizione scenica

dell’omonimo romanzo di Melville, notevolmente re-interpretata e modificata

dalla sapiente e innovativa regia di Antonio Latella.

Ismaele, unico sopravvissuto al naufragio della baleniera Pequod, racconta la

pericolosa e avventurosa caccia intrapresa agli ordini del capitano Achab

(Giorgio Albertazzi), partendo dalle coste degli Stati Uniti, verso sud,

passando per capo Horn, diretti quindi verso il mar del Giappone. Sulla nave

s’intrecciano storie, pensieri e riflessioni sul senso della vita, che

ruotano intorno al perno dell’onnipresente balena bianca.

Proprio l’enorme e misterioso capodoglio senza colore, nella sua

incompatibilità con l’essere umano (vuoi per l’ambiente di vita, vuoi per

la sua natura stessa), diventa il fulcro, attorno a cui ruota l’esistenza. E

come tale, diventa soggetto della speculazione di Achab. Egli, infatti, cerca

la balena sui mari, ma in realtà la trova in se stesso; interrogando Dante e

leggendo del suo viaggio soprannaturale; interpretando Amleto, cercando uno

scopo per cui vivere; intendendo la fede, attraverso la Bibbia. Tutti questi

libri riportano una visione diversa, nessuno porta alla risposta definitiva,

sicchè diventano inutili. E come tali vengono maltratti, squarciati e

gettati. L’uomo alfine si trova solo con se stesso senza più nessuna fonte

a cui appellarsi; comincia così una lunga e oscura riflessione, che lo porterà

nell’unica direzione possibile. Uomo e balena diventano la stessa cosa,

forse non esistette mai né l’uno né l’altra. La fantasia si sovrappone

alla realtà, la follia vince sulla ragione; infine tutto l’equipaggio

s’immedesima in Achab, vivendo per il suo stesso scopo. Inseguono

l’illusione ai confini del mondo; “infin che’l mar fu sovra lor richiuso”.

Luca Squassina

 

 

5 02 2009
anonimo (15:17:32) :

Adesso è la volta di un mio alunno che mi sta dando molte soddisfazioni. Sapete che classe fa? E’ solo in prima Liceo Scientifico, e posso assicurarvi che il suo testo praticamente è così come me lo ha spedito… giudicate voi stessi!

*******

Il «Moby Dick» di Antonio Latella in scena nei giorni scorsi al Teatro Sociale di Brescia è uno spettacolo fortemente filosofico fatto di scene lente ed evocative, ricco di gesti e interrogativi misteriosi.

Cos’è il mare per l’uomo? Che cosa si cerca in mare? Cosa nascondono le profondità abissali?

Su questi grandi quesiti si basa la rivisitazione teatrale del classico di Herman Melville, sottolineandone gli aspetti metaforici e le componenti quasi mistiche. Seguendo le parole del narratore Ismaele, lo spettatore viene piano piano a contatto con il mistero dell’oceano, che

è poi il mistero dell’ignoto, di una piatta e infinita distesa d’acqua, al cui confronto l’uomo è un essere minuscolo, piegato dalle forze incontrastabili della natura.

Sfidare, come fa Achab, queste profondità imperscrutabili è il tentativo dell’essere umano di conoscere un po’ più a fondo se stesso e la sua natura, inseguendo una chimera come la Balena Bianca, simbolo di distruzione e purificazione allo stesso tempo, emblema di una potenza superiore. La caccia diventa, quindi, metafora dell’esistenza e della disperata ricerca di certezze che plachino i nostri dubbi esistenziali.

Sotto forma di Moby Dick sono, però, i nostri stessi demoni a cui diamo l’assalto, senza alcuna speranza – secondo Melville – di uscirne vincitori: il nodo della vita pare, infatti, non sciogliersi mai.

Non c’è soluzione in Moby Dick, perché la balena è la costante inquietudine dell’uomo moderno, incapace di trovare una soluzione plausibile a se stesso. Come recita un brano dell’opera, forse il leggendario capodoglio non è altro che un’ombra fantasma, la pelle di una balena uccisa e temuta dai naviganti: insomma, un puro costrutto mentale, simbolo della morte e contemporaneamente dei turbamenti della vita. Per esprimere tale ipotesi Latella inserisce passi di Dante, il grande esploratore dell’oltretomba e di Shakespeare, il quale nell’«Amleto» ci fornisce la più alta espressione alle domande sulla vita umana che ognuno si pone senza sapersi mai rispondere.

A caratterizzare lo spettacolo sono poi i gesti, che spesso sostituiscono la parola nel tentativo di mettersi in contatto con un qualcosa di ignoto e diverso. Soprattutto il personaggio di Quiqueg

(interpretato da Timothy Martin), con i suoi canti mistici e la sua religiosità profonda, ci restituisce un’atmosfera meditatva e a tratti poco comprensibile, che spesso lascia lo spettatore spiazzato dalle

trovate sceniche del regista.

Tutto, a partire da una scenografia scarna, rivela nell’allestimento una caratterizzazione più marcatamente psicologica che narrativa, evocata anche dall’attore principale: Giorgio Albertazzi, un Achab meno ossessivo rispetto al personaggio di Melville, ma più ascetico e rassegnato.

Sorprende il finale inaspettato: Latella, infatti, non uccide l’anima del suo capitano, ma la accomuna alla sua folle ricerca, rendendola niente più che un terribile demone marino, al pari della giurata nemica Moby Dick.

Lorenzo Sarnataro

7 02 2009
anonimo (09:11:44) :



moby dick


Un’altra mia allieva mi ha inviato una recensione dedicata

a quest’opera ammirevole per le soluzioni registiche e la recitazione: 

Moby Dick,

un viaggio alla ricerca di se stessi

Il Piccolo teatro di Milano in questi giorni sta vivendo un’intensa caccia

alla balena bianca, la famigerata Moby Dick. L’opera, basata sull’omonimo

romanzo di Herman Melville offre numerosi spunti di riflessione sull’uomo e il

suo rapporto con il mondo e la Natura.Una caccia alla balena? Non solo, è un

vero viaggio alla ricerca di se stessi.

Una moltitudine di libri invade il palcoscenico; gli stessi che hanno spinto gli

uomini a salpare verso l’immensa distesa d’acqua e percorrere il viaggio della

conoscenza, la quale nemmeno la letteratura, la religione e la scienza riescono

a esplicare completamente.Perciò i libri vengono strappati e gettati in mare a

testimonianza del fatto che non riescono a soddisfare le numerose domande che

l’uomo si pone.

E’ il caso, per esempio, del giovane Ismaele, colui che parte spinto dalla

visione romantica dei romanzi di avventura, per vivere nuove esperienze e

sensazioni, ma nel momento in cui si trova a dover fronteggiare la cattura di

una balena si rende conto che la vita da lui sognata non rispecchia affatto le

sue aspettative. Ismaele si mette al servizio del capitano Achab, interpretato

con maestria da Giorgio Albertazzi, e salpa con il resto dei marinai, degli

ufficiali e con Quiqueg, un giovane ramponiere indigeno. È proprio

quest’ultimo il solo ad avere compreso che tutto ciò che esiste non è altro

che spirito. La morte non è altro che un aspetto della vita, non esiste alcuna

differenza fra l’una e l’altra. La materia rappresenta ciò che è

contingente mentre lo spirito incarna l’assoluto.Invece di giungere ad una

salda certezza l’uomo viene assalito continuamente da dubbi fino a cadere

nell’illusione di tutto ciò che è relativo.

Uno spettro bianco galleggia sul pelo dell’acqua; ma si tratta veramente di

Moby Dick? O è solo la pelle di una balena scuoiata, uno scoglio o un fantasma

che gli uomini stessi si sono creati?La balena non fornisce risposte; ma

restituisce solo altri quesiti, semplicemente riflettendoli come un’eco.Inutile

cercare lontano: tutto risiede semplicemente in un occhio umano. Questa è la

sede delle molte domande alla quale il capitano Achab rivolge infine i suoi

interrogativi, sperando di potervi contemplare quella risposta definitiva che

neppure la Natura ha saputo fornire.

In questa caccia alla balena ognuno desidera in qualche modo cambiare vita,

vuole riuscire a capire. Ma dalle profondità del mare, intanto, la balena li

osserva, li scruta nei loro gesti muti e talvolta ripetitivi, espressi con

estrema suggestione dal regista Antonio Latella attraverso il linguaggio dei

sordomuti. Moby Dick acquista in un crescendo le fattezze di un’apparizione o di

un essere soprannaturale.

Al termine dell’opera l’unico superstite sarà Ismaele perché possa

raccontare l’avventura degli uomini del «Pequod», i quali, seguendo le orme

dell’Ulisse dantesco, ne condivino infine, l’infausto e inevitabile destino.Il

capitano Achab, invece, si fonde completamente con la sua ossessione, così,

poiché nel romanzo viene trascinato negli abissi dalla furia di Moby Dick, egli

è ormai diventato la balena stessa: ripropone gli insoluti interrogativi

sull’uomo, recitando in una sorta di delirio lucido il celebre monologo di

Amleto.Non c’è nessun senso nell’universo se non quello che l’uomo si

crea. L’essere umano resta così immerso nei suoi perché, facendo

riecheggiare, ancora una volta, la domanda retorica pronunciata da Ismaele

all’inizio dell’opera: «Quale significato in tutto questo?».

Veronica Gianello