LA POTENZA DELLA PAROLA – Meditando sul Sutra del Loto

12 01 2009
L
Allora il Beato si rivolse al bodhisattva Satatasamitabhiyukta, il Sempre Zelante: «Colui che siederà al centro del Loto, che lo scriverà, lo conserverà, lo racconterà, potrà udire ogni suono degli esseri di questo mondo e degli altri mondi, ascolterà i discorsi degli uomini e i canti gentili delle fanciulle, le risa giocose dei bambini; udrà le urla degli inferi e i lamenti dei preta, le meravigliose musiche degli dei e i loro strumenti. Tutto ascolterà, ma nulla lo turberà dei suoni uditi. Grande, immensa sarà la sua consapevolezza di ciò che esiste e ogni cosa saprà ascoltare e sentirà con chiarezza ciò che altri non possono udire.»
E ancora il Beato disse: «Colui che siederà al centro del Loto, che lo scriverà, lo conserverà, lo diffonderà, potrà contemplare la vita degli esseri di questo mondo e degli altri mondi, vedrà la bellezza delle donne e la dolcezza dei fanciulli e il volto fiero dei guerrieri; vedrà il fuoco degli inferi e il buio dei preta, la meravigliosa pioggia di mandarava degli dei e i loro palazzi aerei. Tutto contemplerà, ma nulla lo turberà di quelle visioni. Grande, immensa sarà la sua consapevolezza di ciò che esiste e ogni cosa saprà guardare e vedrà chiaramente ciò che altri non possono scorgere.
Così sarà per tutti gli altri sensi, il gusto, l’olfatto, il tatto, tutti saranno purificati e la mente comprenderà immediatamente e non dimenticherà il Dharma; leggerà nei pensieri degli uomini e di tutti gli esseri riconoscendo le loro segrete intenzioni .
Sappiate, quindi, che colui che siederà al centro del Loto con tutti e sei i sensi apprenderà ogni cosa e nulla sfuggirà alla sua conoscenza, ma, sedendo nella concentrazione, tutto ciò che esiste verrà a lui.»


IL DISCORSO DEL PICCO DELL’AQUILA – Sulla natura di Buddha

5 01 2009
Tempio del Buddha di Smeraldo a Bangkok
«A livello Dharmakaya la sua mente è l’immensa estensione dell’onniscienza, che conosce tutte le cose esattamente come sono. A livello Sambhogakaya, che trascende la nascita e la morte, egli gira ininterrottamente la Ruota del Dharma.» (Dilgo Khyentse Rinpoche)
 
 
«Da quando ho conseguito la Buddhità il numero di kalpa che sono trascorsi è incalcolabile: centinaia, migliaia, miriadi, milioni, miliardi, asamhkya. Io ho predicato costantemente la Legge, istruendo e convertendo milioni di esseri viventi, facendoli entrare nella via del Budda; tutto questo per kalpa innumerevoli.
 Per salvare gli esseri viventi, uso l’espediente di mostrare il mio nirvana ma in verità non mi estinguo. Sono sempre qui a predicare la Legge. Sono sempre qui, ma grazie ai miei poteri sovrannaturali faccio in modo che gli esseri viventi obnubilati non mi vedano, neanche quando sono vicino.
 Quando le moltitudini vedono la mia estinzione, per ogni dove fanno offerte alle mie reliquie. Tutti nutrono pensieri nostalgici e i loro cuori anelano vedermi. Quando gli esseri viventi diventano devoti credenti, dall’animo retto e sincero, e desiderano con tutto il cuore vedere il Buddha anche a costo della vita, allora io e l’assemblea dei monaci appariamo insieme sul sacro picco dell’Aquila.
 Allora io dico loro che sono sempre qui, che non mi estinguo mai, ma che, in virtù del potere degli espedienti, a volte sembra che io sia morto, a volte no; dico anche che se vi sono esseri viventi in altre terre, rispettosi e sinceri nel loro desiderio di credere, allora io predico la Legge suprema anche per loro. Ma voi non avete mai udito queste mie parole, così pensate che io scompaia. Quando osservo gli esseri viventi li vedo annegare in un mare di sofferenze, perciò non mi mostro, facendo scaturire il loro desiderio. Poi, quando i loro cuori bramano la mia venuta, faccio il mio avvento e predico la Legge per loro.
 Questi sono i miei poteri sovrannaturali. Per asamhkya kalpa sono sempre vissuto sul sacro picco dell’Aquila e in diversi altri luoghi. Quando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa e tutto arde in un grande fuoco questa, la mia terra, rimane salva e illesa, costantemente popolata di dei e uomini. Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi sono adornati di gemme di varia natura. Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio. Gli dei suonano tamburi celesti, creando un’incessante sinfonia di suoni. Boccioli di mandarava piovono dal cielo posandosi sul Buddha e sulla moltitudine.
 La mia pura terra non viene distrutta, eppure gli uomini la vedono consumarsi nel fuoco: ansia, paura e altre sofferenze predominano ovunque. Questi esseri viventi con molte colpe, per il karma creato dalle loro azioni malvagie, trascorrono asamhkya senza udire il nome dei tre tesori.
Ma coloro che praticano vie meritorie, che sono gentili, miti, onesti e retti, tutti loro mi vedranno qui, in persona, intento a predicare la Legge. In certe occasioni io spiego a questa moltitudine che la durata della vita del Buddha è incommensurabile, e a coloro che vedono il Buddha solo dopo molto tempo spiego loro quanto sia difficile incontrare il Buddha.
 Tale è il potere della mia saggezza: la mia luce risplende senza limiti. Ho conseguito questa vita che dura da infiniti kalpa come risultato di una lunga pratica. Voi, che siete dotati di saggezza, non dubitate di ciò! Abbandonate ogni dubbio una volta per tutte, poiché le parole del Buddha sono vere, non false.
Egli è come l’abile medico, che usa uno stratagemma per curare i figli usciti di senno. Sebbene sia vivo, diffonde la notizia della sua morte, ma nessuno può accusarlo di menzogna. Io sono il padre di questo mondo che salva coloro che sono afflitti e soffrono.Dato che le persone comuni sono illuse, sebbene io viva, faccio credere di essere estinto. Questo perché, se mi vedessero costantemente, nelle loro menti sorgerebbe arroganza ed egoismo. Liberi da ogni freno, si abbandonerebbero ai cinque desideri e cadrebbero nei cattivi sentieri. Io so che sta praticando la via e chi non lo sta facendo e, in risposta al loro bisogno di salvezza, predico per loro diverse dottrine. Questo è il mio pensiero costante: come posso far sì che gli esseri viventi accedano alla via suprema e acquisiscano rapidamente il corpo di Buddha?»
(Sutra del Loto – Discorso del Picco dell’Aquila)
 
 
«In questo contesto, benché il Buddha sia un personaggio storico, la storicità del Buddha Sakyamuni, sarebbe considerata un’ottima dimostrazione di un’azione compassionevole del Buddha, che si manifesta a partire dallo stato perfetto e atemporale del dharmakaya, o Corpo di Verità. Il Buddha Sakyamuni in quanto personaggio storico è noto come nirmanakaya, che significa Corpo di Emanazione; un’emanazione che si manifesta per adattarsi alle disposizioni mentali e alle esigenze di un certo periodo, un certo luogo un certo contesto. Questa emanazione, procede da un’emanazione precedente, il sambhogakaya, o stato di perfetta pienezza delle risorse, che sorge dall’estensione al di là del tempo del dharmakaya» (Dalai Lama)
 
 


Fa’ un’isola di te stesso, opera celermente, sii saggio – Della felicità e delle passioni

26 12 2008
5 Dicembre 2008
Edvard Munch Sun
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
 Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato…

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Esiste probabilmente un unico modo per evitare che la vita sia questo insensato abisso di dolore descritto così bene dal Leopardi: lasciare quel fascio di tutto ciò che ci «appartiene» e ci pesa addosso, di tutto il nostro «amor proprio» (che non è autentico «amore a sé», cioè al nostro destino di felicità) e fermare la corsa. La corsa dei desideri che ci fanno precipitare e ci lacerano ovunque senza lasciarci pensare davvero a chi siamo e a dove stiamo andando. Fermare la corsa.
«L’antidoto», per usare un’espressione cara al Dalai Lama, è appunto far «girare la ruota del Dharma» cioè andare in senso opposto e, come dice il Beato «uscire dalla foresta» degli attaccamenti e dell’odio e diventare invisibili agli occhi di «Mara». Questo si intende per liberazione a beneficio non solo personale, ma di tutti gli esseri.
Di sicuro quel fascio dobbiamo cercare di lasciarlo e, soprattutto, non dobbiamo crearne un altro con le nostre azioni.
Non è una deduzione razionale tipica soltanto del Buddhismo, ma a questa conclusione sono arrivati anche molti artisti, filosofi o religiosi occidentali.
Per esempio l’Ariosto, con la sua consueta leggerezza ci propone una «allegoria» molto realistica, sui desideri degli uomini e sulla loro fine.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l’astuzie che sono ora,
a piè d’un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non so mostrar, vivea ne la val ima;
che più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;
e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;
chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.
Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d’esser rimasi giù.
Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi.
Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

Insomma, gli uomini tendono sempre a correre dietro le loro illusioni pensando che siano reali, ma più corrono e più non si avvicinano neanche di un passo alla felicità, così come non si può catturare la luna dentro un canestro…

Preziosi consigli su come vivere ci vengono dagli antichi. Seneca, ad esempio, ha meditato a lungo sulla felicità e sulla possibilità dell’uomo di essere felice. In particolare osserva: «I mali che fuggi sono in te», E poiché è conscio dell’impermanenza delle cose arriva a questa conclusione: «Non esiste alcun bene duraturo all’infuori di quello che l’animo trova dentro di sé.».
Dove si trova quindi la possibilità della stabilità dell’animo e quindi, della felicità? A questa domanda Seneca risponde che la felicità sta in ciò che è consono all’uomo cioè alla sua aspirazione al bene vale a dire la virtù ovvero l’abitudine al bene e quindi: « Non si compie un’azione virtuosa in vista di un premio, il premio sta nell’averla compiuta.». Solo così si acquista la libertà che è «l’affrancamento dalle passioni». Così anche altri pensatori antichi, come per esempio Cicerone, hanno affermato a riguardo concetti molto simili. Se ci rivolgiamo ai grandi filosofi greci come Socrate e Platone essi considerano la felicità come frutto della ‘temperanza’ e come libertà dai desideri e dagli impulsi.

Nei Vangeli, poi, Cristo è piuttosto deciso sul fatto di dover rinunciare ai propri attaccamenti se si vuole ottenere un vero progresso spirituale – «la vita» – e consiglia senza mezzi termini: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. »
Dove, come si sa, il fuoco, più che essere un concetto esterno all’uomo è qualcosa che brucia dentro di lui «dannandolo», poiché l’uomo ha alla fine quello che ha cercato e rincorso per tutta la vita, quindi si deve pensare bene a quello che si cerca.
E ancora racconta il Vangelo di Matteo:
«Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: ‘Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti’. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: ‘Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre’.»
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna da Cartesio a Spinoza, da Pascal a Schopenhauer, sulla ricerca della felicità, il perseguimento della virtù e il controllo delle passioni, poiché l’attaccamento eccessivo a ciò che è fuggevole ed impermanente porta fatalmente all’infelicità.
Però mi fermo qui. E permettetemi di raccontarvi una storia… (ma le citazioni dagli antichi testi sono autentiche!)

Un giorno un anziano disse ad un suo giovane discepolo:
«Molti dicono: ‘Cavalchiamo la tigre e dominiamola.’ Ma io ti dico coloro che così faranno presto dovranno fare i conti con i denti della tigre che li divorerà. Può l’uomo ammansire la tigre? Forse con la frusta in mano può farlo e con sbarre di ferro, ma, anche se può, quanti altri dovranno morire perché uno solo riesca? E ha poi così senso sfidarla volontariamente, non è forse un atto di inutile superbia? Quanti divorati dalla tigre saranno in futuro come lei?
E altri dicono ‘Cavalchiamo l’onda’, seguendo, a loro dire, il sentiero di Diamante, ma il Beato stesso disse:
‘Colui che ha una visione errata, le cui trentasei correnti
scorrono impetuose verso il piacere,
i suoi pensieri fondati sull’attaccamento come onde
lo trascinano via’
Shakyamuni affermò e questo ricordalo, se vuoi andare ‘al di là’ del fiume:
‘Avendo ucciso madre, padre e due re di casta guerriera,
avendo distrutto un regno con i suoi sudditi,
il brahmano se ne va senza tremare.
Avendo ucciso madre, padre e due re di casta sacerdotale,
e una tigre come quinto,
il brahmano se ne va senza tremare’
cioè sconfiggendo gli attaccamenti della nascita, del potere, del piacere e del dubbio, allora si fermerà la rinascita.
E disse ancora Shakyamuni:
‘Di ciò che potrebbe fare un odiatore ad un odiatore, un nemico ad un nemico, molto più male fa [all’uomo stesso] il [suo] pensiero falsamente diretto.’
Perché l’uomo che non saprà custodire se stesso sarà il proprio peggiore nemico…
Non credere che si possa accorciare la Via né che basti dire di essere arrivato perché la meta del tuo viaggio compaia davanti a te, ma sii umile. Perciò io ti dico: segui la via certa delle Quattro Nobili Verità e dell’Ottuplice Sentiero e non cercare nelle illusioni risposte che non ti daranno, ma più ti avvolgeranno nelle loro catene. Non fare come colui che avendo tagliato il sottobosco si inoltra di nuovo nella foresta… Medita in cuor tuo sulla radice del dolore e se così farai ti convincerai che è necessario tagliarla così come esorta il Beato. Ma se di questo non ti convincerai da solo non sarà un’imposizione che potrà cambiare la tua mente. E non ti avvolgere nell’ignoranza, ma medita sulle testimonianze e le parole immortali del Beato: in esse è racchiuso il Dharma, l’insegnamento e la natura profonda della realtà. Così apprenderai che non per te da solo puoi andare al di là del fiume, ma per tutti gli esseri senzienti perché solo apparentemente siamo divisi, ma finché non proverai gioia nella pratica del Dharma, non sarai arrivato davvero a comprenderla…
C’è una storia nel Sutra del Loto che voglio raccontarti:
«Supponiamo, figli di nobile schiatta, che vi sia un certo medico, colto, saggio, intelligente, abile nell’eliminare ogni malanno. Costui ha molti figli, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta o cento. Ma un giorno il medico va all’estero e tutti i suoi figli si ammalano per un’intossicazione o avvelenamento e in seguito a ciò sono tormentati da sensazioni dolorose e si rotolano per terra dal bruciore. Il medico, loro padre, ritorna dal viaggio mentre i suoi figli sono tormentati da quelle sensa­zioni dolorose in seguito all’intossicazione o avvelenamento. Alcuni di loro hanno idee sbagliate, altri idee giuste, ma tutti soffrono dello stesso dolore. Vedendo il padre lo salutano con gioia e gli dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato sano e salvo perché devi liberarci da questa calamità, intossicazione o avvelenamento che sia. Caro padre, facci vivere’. Allora il medico, nel vedere i suoi figli in preda al dolore e tormentati dalle sensa­zioni dolorose mentre si rotolano per terra dal bruciore, prepara un potente rimedio dal colore, odore, sapore appropriato, lo pesta col mortaio, e lo dà da bere ai suoi figli con queste parole: ‘Bevete, figli, questo potente ri­medio dal colore, odore, sapore appropriato. Bevendolo sarete subito liberi, l’intossicazione o l’avvelenamento saranno eliminati e vi sentirete bene e in salute’. I figli del medico dalle idee giuste, vedendo il colore, sentendo l’odore e assaggiando il sapore del rimedio, lo prendono in fretta e si sentono subito sollevati. Ma i figli del medico dalle idee sbagliate, dando il benvenuto al padre, dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato in salute e in buona forma perché devi curarci’. Ma costoro, pur par­lando in tal modo, non bevono il rimedio offerto. Per quale ragione? Di idee sbagliate, a costoro non piace il colore del rimedio, non piace il suo odore e, il suo sapore. Allora il medico riflette: ‘Questi figli hanno delle idee sbagliate per via dell’intossicazione o avvelenamento e non bevono il potente rimedio né lo accettano. Pertanto io dovrò indurli a bere questo rimedio con un abile mezzo’. Così il medico desiderando che i figli bevano il rimedio, con un abile mezzo dice loro: ‘Figli d i nobile schiatta, io sono vecchio, avanti negli anni, sono arrivato al termine della mia vita. Ma non dispiacetevene, figli, non sentitevi depressi. Ho preparato questo potente rimedio, se lo desiderate potete berlo’. Ammoniti i figli con questo abile mezzo, egli parte per un altro paese e fa annunciare ai figli esausti la sua morte. In quel momento essi si affliggono e lo piangono moltissimo. ‘Invero costui che èstato nostro padre, guida, genitore amorevole, è morto. Oggi noi siamo rimasti senza protettore.’ Consapevoli di essere senza una protezione e senza un rifugio, si sentono costantemente afflitti dal dolore, ma proprio per questo continuo dolore e afflizione le loro idee sbagliate vengono soppiantate da quelle giuste. Si rendono così conto che il colore, l’odore e il sapore del rimedio è quello appropriato e pertanto prendono subito il rimedio e vengono liberati dall’infermità. Allora il medico, venuto a sapere che i suoi figli sono liberi dal dolore, ritorna.»

Dunque procura di essere tra coloro che hanno pensieri giusti per non perdere inutilmente il tempo, non è necessario che il Buddha scompaia perché tu debba desiderare di cercarlo e vederlo dentro di te…



TUTTO SI PERDE, MA NULLA E’ PERDUTO – Meditando sulla Luce del Loto

26 12 2008

23 Novembre 2008

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E il Beato disse: «Tutto si perde dunque, o Sariputra, di ciò che esiste, ma nulla è perduto di ciò che esiste, che è esistito o esisterà.

Perciò veglia su te stesso e sulle tue azioni perché nulla si cancella. Sii dunque il guardiano di te stesso.»
E disse ancora il Beato Padmaprabha: «Tutto si perde, o Sariputra di ciò che esiste, ma nulla è perduto di ciò che esiste, che è esistito o esisterà. Perciò ognuno degli esseri almeno una volta è stato tua madre, ognuno degli esseri almeno una volta è stato tuo padre. Attendono che tu li riconosca.
Fa’ girare, dunque, la ruota del Dharma, o Sariputra, affinché siano liberati tutti coloro che ti hanno generato.»
Così parlò il Beato Padmaprabha e una pioggia di fiori di mandarava scese sul suo capo e danzando nell’aria li avvolse.


LA PICCOLA PARABOLA DELLA FONTE

26 12 2008

15 Novembre 2008

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Così un giorno il Beato alzò gli occhi e vide una fontana meravigliosa dai mille zampilli che al centro creavano un unico altissimo getto di acqua cristallina e disse: «Così, o Ananda, le voci dei saggi provengono da mondi diversi e da molti kalpa, ma uno solo è il luogo in cui convergono per giungere alla grande fonte del Dharma».
E Ananda stese le mani per raccogliere quell’acqua e bevve e si bagnò a quella fonte meravigliosa.
Poi si sedette immobile nel mormorio delle acque, entrò nella concentrazione, recitando il mantra della compassione ‘Om Mani Padme Hum’ e un loto fiorì nella sua mano.

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