Fidelio: un messaggio agli uomini di ogni tempo

8 01 2012

La grande musica di Beethoven ci parla di diritti umani, libertà e fratellanza come basi autentiche della convivenza civile

«Di tutte le mie creature, il “Fidelio” è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte».


A conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, il Teatro Regio di Torino ha aperto la stagione 2012 riproponendo, con un nuovo allestimento, il Fidelio di Ludwig van Beethoven. Un’opera ancora modernissima, che va oltre le epoche storiche restando sempre attuale, ed è forse questa la ragione per la quale ai tempi in cui fu composta, tra il 1803 e il 1814, non fu compresa, ma restò un unicum nel panorama della lirica ottocentesca e per giunta sempre gravata dallo spettro dell’insuccesso. “Fidelio” è paragonabile alle opere di Mazzini, Rousseau o Beccaria, troppo avanzate per la loro epoca e ancora oggi capaci di porre fondamentali domande sul rapporto Stato- società civile, sull’applicazione dei diritti umani in generale, e, tema oggi di stretta attualità, sui diritti anche di coloro che sono colpiti da provvedimenti giudiziari e privati della libertà personale. In altre parole, sulla condizione nelle carceri. Al centro della vicenda c’è, infatti, la drammatica situazione di un prigioniero, Florestan, incarcerato ingiustamente, per aver denunciato i crimini di un funzionario del regime. Gettato in una cella di isolamento senza processo, la sua storia ricorda i tanti casi di desaparecidos delle dittature dei nostri giorni. L’opera, però, mette in discussione anche la condizione del sistema carcerario nel suo complesso, l’orribile sensazione del buio da cui sono oppressi i prigionieri e che ci ha ricordato per il senso di claustrofobia, un celebre dipinto di van Gogh, (attualmente a Brera nell’ambito della mostra dedicata al Museo Puškin di Mosca), dove in un pozzo profondissimo e stretto si vedono girare in tondo i carcerati nell’”ora d’aria”. Tornano alla mente le orribili visioni del disumano carcere di Guantanamo (tuttora aperto, nonostante le promesse del presidente Obama e le censure della Corte Suprema) dove sono segregati senza processo e senza diritti i presunti terroristi islamici di al-Qaida. Senza andare molto lontano, poi, possiamo ricordare anche ciò che sta succedendo oggi nelle carceri italiane, soprattutto per le problematiche irrisolte del sovraffollamento.


Se l’opera del grande compositore tedesco rappresentasse anche soltanto una denuncia sociale, già assumerebbe di per sé una valenza universale di grande portata storica, ma essa si spinge ben oltre, al di là del fatto contingente, evidenziando valori filosofici elevati e nobili su cui basare autenticamente la convivenza civile e lo Stato. Beethoven riprende a suo modo dalla Rivoluzione francese il concetto di fratellanza che, dal suo punto di vista, non può essere disgiunta dalla libertà e dalla verità. L’opera propone una profonda meditazione sui limiti della possibilità coercitiva dello Stato nei riguardi del cittadino, sul valore della pena a cui i condannati sono sottoposti, ma anche sul rapporto tra vita e moralità pubblica e privata. L’altro elemento fondamentale del Fidelio è, infatti, il profondo legame tra umanità e amore coniugale, tra fratellanza tra gli uomini e fedeltà di coppia in un’identità tra etica pubblica e privata che stupisce per la nettezza e l’incisività con cui viene affermata. Non possiamo dimenticare che ancora oggi questa posizione così chiara, legata alla trasparenza dei comportamenti è contraddetta e mascherata dietro ipocrisie e doppie vite difese ad oltranza in nome della privacy. In realtà, sarà anche una dura presa di posizione, ma per Beethoven ciò che avviene nella vita privata trova una sua continuità anche nell’ambito pubblico. Chi agisce bene nel poco agirà bene nel molto e, al contrario, chi tradirà nel poco lo farà a maggior ragione anche nelle questioni più importanti.


Altro elemento di assoluta novità e volutamente rivoluzionario è far assumere il ruolo di eroina e salvatrice ad una donna, come vedremo poi anche nell’Attila di Verdi, sebbene in un contesto del tutto diverso. Se per Verdi il ricorso ad una donna come vendicatrice dell’onore della patria mira a sottolineare la viltà di coloro che dovrebbero combattere contro l’invasore, per Beethoven la figura di Leonore, la protagonista, rappresenta il trionfo della verità con le sole armi del coraggio, del sacrificio e dell’amore puro che diventa compassione. L’uso del travestimento di Leonore, che per tutta l’opera si nasconde sotto le mentite spoglie del giovane carceriere Fidelio, al di là delle apparenze, non ha nulla a che vedere con la commedia, ma mette in luce piuttosto la drammaticità dell’esistenza in una società violenta, tirannica e prevaricatrice, che non consente a nessuno di essere se stesso e che trasforma una donna in una combattente disposta a tutto pur di salvare la vita del marito, e, in qualche modo, anche degli altri prigionieri. Per questo il personaggio di Leonore è simile a quello dell’”Efigenia in Tauride” di Goethe, dove la giovane, accompagnata dal fratello Oreste e contro il parere dell’amico Pilade, decide di informare della loro partenza il re dei Tauri e di accettare il rischio della condanna. Ella intraprende la strada più difficile: quella di veder trionfare la verità oppure morire, contraddicendo, sotto questo aspetto, in modo sostanziale il finale scritto da Euripide. La verità sostenuta dalla coscienza morale (“l’interno impulso” così ben sottolineato in una celebre aria della protagonista) è dunque il concetto centrale dell’opera unito al senso del dovere che essa impone. Questi due aspetti fondamentali animano entrambi i protagonisti Leonore e Florestan, così che tale unità di intenti costituisce il vero punto di forza della coppia. La verità contro la tirannide è quella che Florestan ha affermato fino al punto di rischiare la vita, la stessa che Leonore sostiene come un vessillo invincibile dell’umanità nuova. Verità che si traduce nell’opera nella presenza luce, e nella sensazione indescrivibile dei carcerati quando finalmente riescono a rivedere il cielo dopo anni in cui ciò era stato impossibile. Il loro inno alla luce e alla libertà appare in qualche modo complementare a quello della nona sinfonia. Quest’ultimo, infatti, inizialmente doveva essere dedicato alla libertà, ma poi fu modificato per questioni di censura. E’ significativo, comunque, che le due parole in tedesco risultino molto simili. Del resto, sempre per motivi di censura la trama del Fidelio nel corso delle diverse stesure fu via via “addolcita” perché considerata troppo libertaria e così si spiega anche l’esaltazione della giustizia del sovrano (rappresentata dall’arrivo del ministro Don Fernando) alla fine dell’opera, esaltazione che, comunque, non può prescindere dal diritto.

L’affermazione dei diritti civili contro la segregazione passa per Beethoven anche attraverso il riconoscimento dell’umanità e della pietà, anche nel caso in cui il carcerato sia veramente colpevole. Leonore, infatti, vuole salvare il prigioniero dalla morte indipendentemente che si tratti o meno di suo marito, per puro sentimento di compassione e fratellanza. Questo messaggio universale si estende però idealmente a tutti gli esseri umani, alla loro condizione, in cui solo la fratellanza e la solidarietà possono concorrere al raggiungimento della felicità. Basta un solo uomo per spingere gli altri verso il bene, purché essi manifestino un minimo di apertura verso l’altro, come nell’opera è dimostrato dal vecchio capocarceriere Rocco, che si lascia impietosire dalle richieste di Fidelio in favore dei prigionieri. Una società che non sia basata su questi presupposti, per Beethoven non ha vere speranze. Molto interessante in questo senso anche l’interpretazione del personaggio di Jaquino, che resta sordo ad ogni richiamo di sensibilità umana, come invece richiederebbe il continuo bussare alla porta del carcere nella prima scena. Con questa immagine l’autore ha voluto simboleggiare da un lato le ragioni dell’umanità che bussano continuamente alla porta di ogni uomo e dall’altro anche il rifiuto di chi intende la vita solo come possesso e personale interesse. Marzelline, infatti, si innamora di Leonora- Fidelio, per le sue qualità morali, le stesse che Jaquino non possiede.
La musica esprime in maniera mirabile i sentimenti e le idealità dei personaggi con i magistrali chiaroscuri, i momenti lirici, l’esaltazione della luce e del bene, nonostante la drammaticità della condizione umana, aprendo una visione quasi mistica sull’idea di libertà che accomuna tutti gli esseri umani, sebbene all’epoca la società fosse ancora autoritaria e rigidamente divisa in caste chiuse.

Come anticipavamo, altro elemento interessante, che distingue Beethoven da Verdi, è la fiducia tutta illuminista del primo nella possibilità di avere un monarca che sapesse governare con giustizia; questo nelle opere di Verdi non può più verificarsi perché i governi assoluti descritti dal compositore di Busseto sono figli della Restaurazione e non certo della Ragione, animati da cupidigia, corruzione, sopruso, al punto tale da aver diseducato il popolo, mosso solo dall’incoscienza e dalla paura; così anche il sovrano clemente non viene rispettato, ma eliminato. In questo senso nelle opere di Verdi domina una sostanziale sfiducia nel governo e/o nel suo rapporto con il popolo; pessimismo che non troviamo in Beethoven, segno che purtroppo i tempi erano cambiati e c’era stata una sostanziale regressione rispetto agli alti ideali della Rivoluzione francese al punto che tutto sembrava perduto.
Nel “Fidelio”, invece, il positivo epilogo finale è dovuto alla provvidenza e al diritto, poiché si ritiene che Dio non possa abbandonare l’uomo, ma anche che possano trionfare le ragioni della civiltà contro la barbarie. In questo senso l’opera di Beethoven è un miracolo, l’alba di un nuovo giorno dell’uomo che ancora oggi possiamo in gran parte solo immaginare.
Non c’è da stupirsi che un’opera così moderna e all’avanguardia fosse poi trascurata a lungo nell’Ottocento, e che sia stata riscoperta solo piuttosto di recente, pur avendo ispirato anche grandi compositori come Wagner e Mahler. Ciò spiega anche la condizione di Beethoven, che sempre si sentì isolato, esiliato nella propria epoca, amato dai contemporanei, ma, come un secondo Michelangelo, mai fino in fondo compreso, per l’universalità e l’idealità sovrumana delle sue visioni.
Il nuovo allestimento del Regio di Torino, in coproduzione con Opera Royal de Wallonie, per la regia di Mario Martone (autore del bel film sul Risorgimento italiano “Noi credevamo”) ha valorizzato in modo significativo le tematiche dell’opera sia nella scenografia di Sergio Tramonti, sia per la scelta di smorzare i possibili toni da commedia del primo atto e di esaltare, invece, l’elemento drammatico e le parti corali dove maggiormente si dispiega il messaggio universale dell’autore. La scelta di inaugurare con quest’opera la nuova stagione del Regio si inquadra perfettamente nelle celebrazioni conclusive dei 150 perché ricorda non solo gli ideali risorgimentali e ciò che è stato realizzato, ma anche quanto resta da fare, ciò che ancora di quegli ideali resta incompiuto o tradito.
Ci è capitato di sentire tra il pubblico anche qualcuno che ancora oggi non sa comprendere la bellezza del Fidelio definendolo “la solita opera tedesca, pesante”. Questo, sia detto senza mezzi termini, significa non capire la musica e forse neppure la funzione della lirica e del teatro e limitarsi alle storielle sentimentali che a prima vista il melodramma racconta. Fortunatamente ad assistere alla rappresentazione c’era anche un pubblico colto e attento che ha partecipato con calore e si è sinceramente commosso.
Per quanto riguarda gli interpreti dello spettacolo del giorno 11 dicembre, il soprano Ricarda Merbeth è stata molto applaudita dal pubblico per le qualità vocali e per la grande espressività con la quale ha dato vita ad un efficacissimo personaggio di Leonore; notevoli i mezzi vocali di Lucio Gallo che ha interpretato magistralmente il “cattivo” della storia, cioè Don Pizzarro; ottimo il soprano Talia Or (Marzelline) che ha tratteggiato il proprio personaggio con intelligenza e profondità, senza cedere a tentazioni macchiettistiche; buone anche le interpretazioni del basso Franz Hawlata nei panni del capocarceriere Rocco, di Robert Holzer (Don Fernando e del tenore Alexander Kaimbacher che impersonava il portinaio Jaquino. Unico caso in controtendenza il tenore Ian Storey che è apparso in grave difficoltà nella parte di Florestan: la voce è risultata poco timbrata, con acuti compromessi e problemi di intonazione.
Il direttore Gianandrea Noseda, che già in altre occasioni ci ha entusiasmato per le sue doti interpretative, su questa straordinaria partitura di Beethoven ha, se è possibile, superato se stesso, esprimendo lo spirito romantico del grande compositore tedesco, la sua filantropia illuministica, la luce della speranza, l’elegia dolcissima dell’amore come l’ira e la disperazione, lo sforzo titanico per affermare la verità contro tutti, il grande sogno della salvezza dell’umanità e della civiltà; tutto questo attraverso le innumerevoli sfumature dell’interpretazione musicale che con sapienza sono state raccolte e comunicate in un’unica grande e complessa unità concettuale e stilistica.

Rossana Cerretti



Sapientia ad cognoscendam veritatem

6 01 2012

La festa dei Magi è sempre un momento di meditazione per me.
Il primo aspetto che mi ha colpito oggi è il valore dello studio: questi saggi solo attraverso l’esercizio della scienza, l’approfondimento della meditazione e la ricerca della verità, hanno conosciuto Dio e l’hanno amato al punto da partire dai loro palazzi per affrontare un lunghissimo viaggio di cui

certamente non conoscevano fino in fondo il destino finale. Forse non venivano neppure tutti e tre dallo stesso luogo, quindi avevano intuito la grandezza dell’evento anche partendo da presupposti e da componenti culturali forse diversi. Il sapere è fondamentale, la via del sapere rende fedeli e non fa disperare della meta, rende saldi i presupposti dell’azione e del cammino, la certezza del viaggio.

Il sapere fa conoscere il destino buono di ogni cosa, e sconfigge la disperazione, anche di fronte alla drammaticità del presente. E’ straordinario ciò che essi riconobbero in quel bambino nato da poco: i doni che gli portarono testimoniano che, pur non avendo alcun indizio esteriore essi giunsero a tutte le giuste conclusioni, furono i primi teologi di Cristo: coloro che riconobbero la regalità, la sacralità e il sacrificio fino al martirio, ma anche l’immortalità del corpo stesso di Gesù, poiché la mirra era usata per imbalsamare i corpi. Videro tutto. Lo videro con gli occhi della mente e con la certezza straordinaria che il cielo, il macrocosmo, era rispecchiato nel microcosmo, come un’unica entità universale che chiedeva solo di essere adorata e compresa.

I magi sapevano guardare il destino all’interno del grande Disegno dell’universo, sapendo che ogni passo, ogni particolare, ogni minuscolo essere concorre alla grande meravigliosa unità nella mente divina. Perciò le stelle narrano la gloria di Dio, le opere sue proclama il firmamento. Lo capirono solo guardando i segni della creazione, studiandoli, amandoli, facendoli propri, traducendoli in cammino e traccia. Miracolo della rivelazione. Non si deve disperare del tempo, il tempo è solo l’opera misteriosa della sua manifestazione.
Tutto è già dentro di noi, ma la nostra mente non deve mai smettere di cercare e osservare. Amare il cammino, questa è la vera sapienza.

Dedicato ai saggi di ogni cultura e ogni tempo



IFIGENIA E LA POTENZA DELLA VERITA’ – L’etica e la coscienza, la società e il potere nel mito rivisitato da W. Goethe

29 11 2009
 
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E’ andata in scena in questi giorni al teatro Sociale di Brescia per la regia di Cesare Lievi la tragedia «Ifigenia in Tauride» di W. Goethe, realizzata in coproduzione con il Teatro Biondo Stabile di Palermo e interpretata con efficacia e partecipazione da un affiatato gruppo di giovani attori coadiuvati da una personalità di maggiore esperienza come Gigi Angelillo (Toante).
 
Chissà perché Cesare Lievi avrà scelto un’opera di Goethe così apparentemente lontana dalla realtà attuale? E’ probabile che, ad una prima impressione superficiale sia stata questa la domanda ricorrente nel pubblico di Ifigenia. Indagando, però, appena sotto la superficie della riproposizione del mito antico, ci si accorge della modernità e della complessità psicologica ed etica dei temi trattati dal grande scrittore tedesco. E si capisce anche perché l’autore combatté strenuamente con i suoi impegni di Stato pur di rielaborare l’opera completamente in una nuova edizione in versi.
Al suo interno, infatti, si agitano molte tematiche di carattere etico-filosofico che si spingono ben oltre il caso in sé e che superano anche il precedente della tragedia di Euripide. Inoltre, la traduzione moderna, curata dallo stesso Cesare Lievi valorizza appieno la portata universale del messaggio e sottolinea l’attualità delle tematiche trattate. Per quanto riguarda l’interpretazione degli attori, Lorenzo Gleijeses si è rivelato un Oreste che sa trasmettere la sua disperata energia al pubblico, avvalendosi anche dell’efficace contrasto offerto dall’amico Pilade (Fabrizio Amicucci). La recitazione di Maria Alberta Navello (Ifigenia) è apparsa talvolta troppo ansiosa e in contraddizione con il carattere misurato della protagonista secondo Goethe; al contrario, Arcade (Sergio Mascherpa), che probabilmente dovrebbe rappresentare il pensiero del popolo della Tauride, è apparso forse fin troppo equilibrato, sebbene giustamente perentorio.
 
Ifigenia come Lucia?
Nell’opera di Goethe Ifigenia assume le caratteristiche di una creatura salvifica, una sorta di manzoniana Lucia ante litteram: la sua sola presenza ha l’effetto di cancellare i costumi barbarici e sanguinari degli abitanti della Tauride, dove ella è approdata per il volere stesso della dea Diana; ma anche il fratello Oreste viene miracolosamente risanato dal suo intervento, e liberato dalla furia distruttrice delle Erinni che lo perseguitano. Infine, la giovane sacerdotessa di Artemide non vorrà mentire al re Toante, ma partirà con il fratello e con l’inseparabile amico di lui, Pilade, ottenendo la libertà con la sola forza della verità e dell’umanità. Anche Ifigenia stessa, però, alla conclusione della vicenda, avrà compiuto una sua positiva evoluzione, come sottolinea la scenografia, voluta dal regista in forma di tempio dalle alte mura che vengono via via smantellate nel corso della rappresentazione. Il santuario di Artemide, infatti, la protegge dalle brutture del mondo esterno, nonché dalla memoria delle vicende personali e della sua famiglia, ma è anche una sorta di dorata prigione, nella quale si trova in completo isolamento. Ifigenia, insomma, pur di non macchiarsi dei delitti dei suoi avi sembra quasi aver rinunciato a vivere. La salvezza di suo fratello Oreste, però, determinerà anche la sua liberazione, segno che per Goethe la libertà non è mai un fatto individuale o di pura trasgressione, ma piuttosto un evento collettivo, di adesione meditata e responsabile alle leggi della coscienza e del cuore e quindi della divinità.
Questa interpretazione della protagonista è un’originale invenzione dello scrittore tedesco che lo distingue nettamente dalla precedente versione di Euripide, nella quale la giovane, giunta in quella terra lontana, aveva continuato a compiere sacrifici umani in onore di Diana, secondo l’antico costume dei Tauri. Inoltre, anche nella parte finale, Goethe adotterà una significativa variazione rispetto al precedente greco, perché Ifigenia deciderà consapevolmente di non seguire l’inganno di Pilade per non tradire la verità della propria coscienza.
 
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La coscienza al di sopra di tutto
Come viene spiegato all’inizio dell’opera, l’autore, infatti, ha scelto una donna proprio per dimostrare che le vere armi capaci di cambiare in meglio la storia, portando la civiltà contro la barbarie, non sono quelle maschili della guerra, del potere e dell’astuzia, ma quelle della coscienza, della compassione e della purezza della verità. Le ragioni di umanità e verità si difendono da sole, senza armi, per evidenza, al punto che esse trovano posto anche presso i cosiddetti barbari. Anzi, in questo senso, si rivela apertamente la modernità di Goethe che sottolinea come non basti una condizione di progresso o ricchezza per fare di un popolo un esempio di civiltà, ma solo sul piano dell’umanità e dell’ascolto della voce del cuore e della ragione, contro quella del desiderio smodato, del possesso egoistico individuale e della violenza, si può dimostrare la vera superiorità di un mondo su un altro. Se i Greci, infatti, per favorire la loro guerra contro Ilio erano stati disposti a cuor leggero a sacrificare la pura e quasi angelica Ifigenia, non riconoscendone il valore sacrale, i Tauri, da loro disprezzati come esseri quasi bestiali, hanno interrotto la cruenta pratica dei sacrifici umani degli stranieri appena Ifigenia è giunta alle loro rive, riconoscendone immediatamente la valenza salvifica e respingendo così l’antica violenza. Hanno saputo vedere, cioè, quella grazia che il suo stesso popolo non era stato in grado di riconoscere in lei. Lo straniero, dunque, solo per l’umanità e la civiltà deve essere giudicato.
 
La forza del perdono sconfigge il karma degli antenati
A questo tema se ne intreccia un altro, volto, anche qui a sfatare il pregiudizio, dimostrando che le responsabilità sono individuali e che, nonostante tutti i precedenti negativi, un essere umano risponde soltanto di se stesso e del proprio valore. Stiamo parlando della maledizione che grava sulla famiglia dei discendenti di Tantalo, cioè gli Atridi, i quali sono perseguitati dai loro continui efferati delitti tra consanguinei. L’arrivo di Oreste che le rivela la tragica fine di Agamennone e la traumatica vendetta che egli stesso ha dovuto compiere, fanno sprofondare Ifigenia quasi nella disperazione, tanto più che sua madre ha ucciso il marito proprio perché ella lo riteneva reo di aver sacrificato la sua primogenita alla dea Artemide. Anche il suo sacrificio mancato, quindi, è rientrato a pieno titolo nella catena di delitti che sembra inarrestabile, e che rischia di continuare anche in Tauride, visto che il re Toante ha deciso di ripristinare i sacrifici umani degli stranieri per la dea proprio quando Oreste è arrivato nella sua terra insieme all’inseparabile Pilade. Toante, infatti si è invaghito di Ifigenia e vuole a tutti i costi sposarla, ma la ragazza, con il suo rifiuto, ha scatenato l’ira del re il quale ha pronunciato allora il terribile decreto.
Dal canto suo, Oreste, con un procedimento tipico dell’antichità, non vuole credere di avere di fronte sua sorella, non vuole credere che l’unica donna pura della sua casa, l’unica erede onorata della sua famiglia dovrà macchiarsi a sua volta di un fratricidio, ritornando così nel circolo vizioso di quelle orribili nefandezze che lo hanno fatto piombare nella disperazione. Ma l’arma usata da Ifigenia nei confronti del misero fratello – il quale invoca la morte dalla sorella stessa pur di liberarsi dalla follia del rimorso che lo attanaglia – è quella, davvero miracolosa, del perdono: ella, pur avendo appreso che egli è l’uccisore di sua madre, non lo chiama assassino, ma «infelice», mostrando prima di tutto la compassione e la solidarietà verso lo sventurato in preda a terribili sofferenze. La compassione vincerà, infine su tutto: dopo l’abbraccio di Ifigenia, infatti, Oreste in una simbolica discesa agli inferi sarà capace di scorgere tutti i suoi avi pacificati, completamente dimentichi degli orrori commessi e dell’odio, di quella incapacità di perdono degli uni verso gli altri che li ha spinti a perpetuare l’infinita catena di delitti. Solo Tantalo è ancora nel Tartaro a sopportare pene orribili, perché il dolore delle scelte di sangue è insopprimibile nella natura umana e, alla fine, bisogna accettarlo con rassegnata fermezza.

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La vittoria finale della verità sul potere e il pregiudizio

La purezza di Ifigenia salva il fratello, ma come potrà preservarlo dall’arroganza del potere?
Quest’opera di Goethe, tra l’altro, individua in modo emblematico i diversi atteggiamenti umani nei confronti della vita e del potere: se Ifigenia, infatti, segue prima di tutto le ragioni della coscienza comune a tutti gli essere umani in quanto tali, Pilade sembra incarnare la visione illuminista della preminenza del necessario e dell’utile, mentre Oreste fa ancora riferimento all’etica degli antichi eroi omerici, dettata dal valore e dal coraggio. Toante, invece, mostra come il potere assoluto, anche esercitato da un uomo giusto, susciti sempre la tentazione di essere usato per il soddisfacimento delle proprie passioni; Arcade, infine, il messaggero, rappresenta la voce popolare, spesso esprimendo un attaccamento quasi irrazionale alle antiche tradizioni.
In questa complessa situazione, Ifigenia dopo aver inizialmente seguito i consigli di Pilade che ha ordito un ingegnoso inganno «per necessità», visto che Toante non vuol sentire ragioni, decide, comunque, di dire al re la verità e lasciare la terra dei Tauri in pace con tutti. Incredibilmente, il re Toante, colpito ancora una volta dalla purezza e dalla coraggiosa sincerità della ragazza li lascerà andare perché, come afferma la giovane in un significativo passo dell’opera, l’umanità e il vero «li sente ognuno, sotto il cielo, se dentro il petto fluisce tersa e libera la sorgente della vita». La voce dell’umanità parla sempre agli uomini, ma è una brezza leggera che non deve essere sovrastata dalla tempesta dei desideri e delle passioni egoistiche. Questo perciò è il messaggio finale che Goethe lascia a tutti gli uomini: per ascoltare, la vera voce del cuore, quella che ci accomuna agli altri esseri umani, se si vuole arrivare al centro del nostro essere, si devono far tacere le passioni. Solo allora si potrà scorgere anche un barlume di felicità.
Il giovane poeta, che nel Werther aveva ipotizzato il suicidio per amore di una donna, trova qui ragioni più alte per continuare a vivere, ascoltando il messaggio universale dell’umanità e della coscienza e battendosi per la compassione e la fratellanza tra tutti gli esseri umani senza distinzione.
 




EPITAFFIO

14 03 2009

Non aspettarti

che dalla mia bocca

esca una sola parola

contro di te

maschera

Sarà

il tuo stesso cuore

a pronunciarsi

anche per me

 



FRANCO BRANCIAROLI E’ DON CHISCIOTTE – La performance del teatro tra Carmelo Bene e Gassman

17 01 2009
  
E adesso che il palco della vita si chiuda!
No, aspettate, permettetemi di raccontarvi ancora un’ultima storia…
 
Alla domanda a proposito del perché fa teatro Branciaroli ha risposto: «Mi verrebbe da dire "Per me stesso": a volte come un sado-masochista salgo sulla scena garantendo professionalità e qualità anche quando ci sono solo venti persone…»
In realtà, almeno da «Finale di partita» in poi, i suoi spettacoli fanno registrare il tutto esaurito, ma la sua risposta investe ugualmente il significato ultimo del suo essere attore ovvero uomo…

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 Una scena del Don Chisciotte

Il progetto di una vita di Franco Branciaroli è finalmente diventato realtà: per una stagione essere Don Chisciotte e Sancho Panza, ovvero la finzione stessa del teatro e la sua verità, essere la sintesi e l’immagine scanzonata di due mostri sacri della prosa italiana della seconda metà del Novecento, Vittorio Gassman e Carmelo Bene. I due mattatori della scena sono interpretati attraverso l’amore tipico di Branciaroli per i profondi significati del teatro classico reinventato con la fantasia, il travestimento e il puro divertimento della recitazione. Dietro un sipario barocco sempre semiaperto, campeggia il bancone di un bar ingombro di bottiglie di superalcolici, forse un’ironia sull’unico spirito dionisiaco rimasto oggi al teatro contemporaneo? Probabilmente sì, ma anche il ricordo delle debolezze dei due grandi miti del nostro teatro. Alcool e sigarette in quantità ad indicare i due poli opposti sui quali si muove spesso il genio, tra altezze e cadute. 
Il gioco della vita si svela sul palcoscenico nella sua complessa e meravigliosa vacuità che rende sempre uniche le opere, rivisitate e interpretate. dall’attore prediletto da Giovanni Testori.
Ieri sera Branciaroli è stato solo il teatro, il suo teatro, la sua carriera e gli spettacoli degli ultimi anni, riassunti sulla scena, con le loro domande sulla verità, l’identità e l’amore, con la forza che solo lui, come essere umano interrogante e pericolosamente in bilico sul nulla, può esprimere.
Uomo tipicamente moderno, drammaticamente affacciato sul labirinto, eppure pensante, in costante ricerca delle ragioni dell’essere e del non essere, dell’atto costitutivo dell’umanità. Ciò è possibile sul palcoscenico quando l’atto della suprema finzione incontra la contraffazione letteraria ovvero Don Chisciotte: il folle della piccola nobiltà, ormai cinquantenne in disarmo che cerca nei libri le risposte alla sua stessa esistenza. Cerca, don Chisciada, di diventare Don Chisciotte della Mancia, cerca uno specchio in cui riconoscersi, qualcuno da imitare per diventare eroico in un mondo di piccoli savi mediocri.
Tra Cartesio e Cervantes Branciaroli non ha dubbi e sceglie Cervantes cioè l’uomo nel labirinto della propria umanità, della propria natura onirica: «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», afferma il contemporaneo Shakespeare che morì lo stesso giorno del grande scrittore spagnolo.
Così il personaggio di Don Chisciotte per Branciaroli è colui che ha voluto provare la «verità» della letteratura.
Un viaggiatore della coscienza, dove con l’immaginazione si può costruire un mondo nobile anche in una realtà ignobile. Ora la letteratura guida gli uomini, creando il libro nel libro: cioè una vita di imitazione che è sua volta scritta e narrata, ancora prima che essa si realizzi. Da questo momento non sarà solo la natura a decidere il fato umano, ma anche il romanzo a raccontarne il destino prima ancora della sua conclusione.
Ora sarà la letteratura ad attribuire scopi ed identità. L’identità che viene dal passato: Don Chisciotte si propone di essere un nuovo Amadigi che egli imita come può, alla meglio, come in tutte le epoche di crisi.
Così Branciaroli imita i due grandi ed eterni mattatori del passato, Gassman e Bene, facendo loro il verso, ma allo scopo di celebrare la grandezza del teatro in tutte le sue forme. I due opposti, si rivelano, in realtà, le facce della stessa medaglia, si affrontano in singolar tenzone nella lettura del V canto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca, per intenderci, creando momenti di intensa e spassosissima performance.
La novità del romanzo di Cervantes è uno spazio vuoto, lo spazio vuoto e labirintico della coscienza moderna, la contraffazione della contraffazione. Che cosa è vero e cosa falso nella realtà tra pubblico e narratore tra personaggio ed autore? E’ una lotta tra la follia e la realtà, dove l’unica verità umana che vale è la prima a discapito della seconda.
Le eterne questioni sull’uomo dal Caligola di Camus al Beckett della dureriana Melanconia di Finale di partita, al Galileo di Brecht, riemergono tutte qui, come la domanda diretta sulla quale Branciaroli ha costruito un intero spettacolo scritto da lui stesso: «Cos’è l’amore?». L’amore vagheggiato per ciò che non si conosce come Madonna Dulcinea, che non si sa, come la «cara beltà» del Leopardi in un famoso idillio. Qualcuno che si vagheggia e si sogna, qualcuno che è ben più alto di qualsiasi donna comune e di cui ci si può innamorare perdutamente perché ci si innamora, nel senso più nobile, dell’amore stesso e del significato profondo di essere uomini.
Franco Branciaroli è riuscito a celebrare l’essenza del teatro: l’imitazione e il richiamo al passato uniti al reinventarsi continuamente nel presente. Nella sua istrionica interpretazione il gusto per l’imitazione vocale, la ricerca di rendere una forma assolutamente contraffatta e a sua volta manieristica come quella di Bene o di Gassman, fa sì che la meditazione e il messaggio risultino ancora più evidenti e forti.
I contenuti risaltano nitidi e intatti, rigenerati dall’invenzione e dalla sua stessa forza e contraffazione astratta.
La mancanza di naturalismo nella recitazione, tipica già del suo rapporto con Testori, diviene qui veicolo privilegiato della riflessione filosofica che non si attua in termini seri e paludati, ma attraverso il travestimento, l’ambivalenza carnevalesca, la finzione-verità.
Il suo teatro parla di noi così come il Don Chisciotte del quale non si può portare in scena la morte, né la negazione della cavalleria, perché egli è l’attore e l’attore starà sempre sul palcoscenico.
Il mito del teatro non può mettere in scena l’anticipazione della propria scomparsa, perché è già archetipo, basato sulla lucida follia di rintracciare nella finzione la verità, nell’indagine letteraria i semi della realtà e della coscienza esemplare.
Per questo il sipario non scende mai del tutto, neppure alla fine.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm


IL GOSSIP DI “COSì E’ SE VI PARE” – Il dramma dell’io e la fiera delle vanità secondo Massimo Castri

9 01 2009
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Va in scena in questi giorni al Teatro Sociale di Brescia un classico del teatro italiano: Così è se vi pare di Luigi Pirandello rivisitato per la terza volta in 28 anni dal regista Massimo Castri, autorevole e sensibile interprete dello scrittore siciliano,  in un’inedita e graffiante messa in scena.

LA MASCHERA, LA STORIA E LA FINZIONE
Uno spettacolo dai ritmi veloci, con grandi scene corali, dirette magistralmente, dove il «pubblico giudicante» sul palcoscenico è formato da maschere grottesche (di carattere infantile da personaggi dei cartoon) immerse in una festa carnevalesca senza fine, da paese dei balocchi.
Senza maschera si presentano, invece, i tre protagonisti, così come accade nei Sei personaggi in cerca d’autore, loro sì autentici, ma vittime delle proprie insanabili contraddizioni, segnati da traumi così profondi da aver bisogno di raccontarsi una verità contraddittoria e assolutamente antitetica per poter in qualche modo restare insieme. La loro unione si basa in fondo, su un assurdo logico, perché l’uomo quello vero, è un nodo che non si scioglie, definito da una narrazione di sé e degli altri segnata dall’incomunicabilità e dalla solitudine.
Ognuno ha bisogno di raccontare se stesso e elaborare le vicende degli altri per costruire un’interpretazione plausibile, una soluzione che consenta almeno in parte di accettare il reale, di far «quadrare» i conti.
Ma è una battaglia persa perché come sempre nella vita – almeno secondo Pirandello – i conti non tornano mai. Lo svelamento di questa visione relativistica e scettica, del non senso insito nella realtà, stordisce i componenti di questa «giuria» da baraccone, formata da alcuni esponenti della buona borghesia di provincia. Li sconvolge perché non possono accettare che non ci sia un bandolo della matassa e quindi una verità certa. Non si tratta, infatti, solo di un episodio, ma di una vicenda esemplare: ognuno vi percepisce la precarietà del nostro vivere quotidiano, travolto insieme alle nostre «infallibili» certezze. Ma sconvolge altrettanto, se non di più, gli astanti la scoperta che dentro questa famiglia esiste un trauma celato e inconfessabile che deve rimanere tale affinché il nucleo di affetti possa comunque sopravvivere.
E’ l’implicita ammissione che il modello di famiglia borghese è destinato di per sé al fallimento, perché vi si respira un’estraneità incolmabile di fondo: forse ci si ama, ma non ci si capisce affatto e si è comunque isolati seppure insieme nell’impossibilità di vivere davvero uniti.
Qui sta tutta la modernità dell’interpretazione di Massimo Castri il quale ha coinvolto in questo elaborato e difficile progetto registico un gruppo di brillanti giovani attori.

LE COSTANTI NELL’OPERA
All’interno del testo si possono rintracciare alcune costanti dell’arte e della poetica pirandelliana, rese ancor più evidenti dall’allestimento odierno. Per esempio, il ricorso palese alla maschera richiama, un’altra opera «in costume» cioè l’Enrico IV: in essa, infatti, oltre al fallimento del matrimonio, troviamo anche la presenza di due donne una più giovane ed una più vecchia che non dovrebbero mai stare insieme alla presenza del protagonista, perché il loro incontro è foriero di sventura.
In quel caso si tratta di madre e figlia e anche qui il personaggio principale, se nutre un affetto legato al passato per Matilde, in Frida si riconosce psicologicamente.
Anche in Così è se vi pare come in Enrico IV tutto resta «tranquillo» finché qualcuno, in questo caso Enrico stesso, accetta di essere considerato pazzo, ma solo per celare il vero trauma iniziale, cioè la scoperta da parte del protagonista di un tentato omicidio ai suoi danni e la successiva presa di coscienza che il suo assassino, se da un lato ha fallito, dall’altro gli ha davvero sottratto la vita.
I muri che il signor Ponza impone alle due donne della sua famiglia e a se stesso sono, in realtà, i recinti di un sé inconsistente che per esistere deve autoimporsi dei limiti e creare una «storia» accettabile che gli fornisca delle radici in cui riconoscersi.
Qualcosa che non è verità, è solo una forma di sé la quale nel momento in cui viene pensata e indossata va già stretta e mostra tutti i suoi limiti e le sue aporie.
castri01gIntorno maschere dai tratti animaleschi, ispirate alle caricature che lo stesso Pirandello spesso fornisce dei suoi personaggi: infatti, nelle sue novelle soprattutto, è facile riconoscere tratti somatici enfatizzati e vagamente ferini. Così Castri ribalta la situazione: l’uomo vero è colui che è privo di soluzione, gli altri sono le maschere, gli attori, concetto già espresso nei Sei personaggi.
E’ un’edizione di Così è se vi pare degna dell’epoca del gossip di cui facciamo parte, dove la gente mostra il suo morboso desiderio di sapere, di violare la privacy, di conoscere e scavare nelle pieghe della vita privata altrui… ma non c’è soluzione, non c’è verità e chi vive sulla propria pelle un dramma lo sa bene.
Quante interpretazioni si possono dare di un solo fatto traumatico della nostra esistenza – su motivazioni e reazioni, sentimenti e azioni – anche solo per esorcizzarlo! Ma chi è maschera, chi davvero recita solo una parte vuota di significato, ma piena solo del proprio ruolo sociale, vuole sapere, si ciba delle vite degli altri.

IPOTESI AUTOBIOGRAFICHE
Ci si domanda allora quale «trauma» possa nascondersi dietro la vicenda della signora Frola e del signor Ponza.
La risposta, forse ci viene dalle altre opere dell’autore e dalle testimonianze sulla sua vita privata, alcune, a quanto pare, scottanti, visto che risultano ancora oggi inedite per volontà degli eredi.
Nei testi pirandelliani la figura maschile spesso è violenta e tende a segregare o opprimere le donne presenti nell’opera; è il caso, ad esempio, de L’uomo la bestia e la virtù, ma anche nel Berretto a sonagli la giovane moglie viene schiacciata dal meccanismo che lei stessa ha messo in moto, per via del tradimento del marito. Anche nel Gioco delle parti alla fine, la pretesa libertà della protagonista si rivela fallimentare e porterà all’uccisione del suo amante, con notevole soddisfazione del marito di lei.
Nei Sei personaggi in cerca d’autore, poi, tutta la vicenda è determinata dall’insensata gelosia del padre il quale abbandona la madre credendola innamorata di un suo collega di lavoro.
pirandello1Emerge, quindi, anche la tematica della gelosia e della pretesa tutta pirandelliana di esaurire in un abbraccio mortale tutta la vita della moglie o compagna, disegnando così un profilo psicologico di carattere sado-masochistico latente.
Una visione ossessiva dell’amore che appare ben svelata dalla sua relazione con Marta Abba che l’autore quasi perseguitava con l’assiduità delle sue lettere e le sue profferte amorose.
Inoltre la vicenda narrata in Così è se vi pare apre molti dubbi sull’effettiva identità della signora Ponza, perché appunto, ella potrebbe essere sì la figlia della signora Frola, ma sicuramente quest’ultima non è la suocera di lui. Piuttosto, da come entrambi si comportano, potrebbe essere la madre del signor Ponza, se non addirittura la sua prima moglie. Nel primo caso si tratterebbe, quindi, di un incesto tra fratello e sorella, nel secondo, invece, tra padre e figlia. In effetti è noto dai documenti che Antonietta, moglie di Pirandello, nutriva una forte avversione, dettata dalla gelosia, per sua figlia Lietta, al punto da sostenere che quel rapporto privilegiato padre-figlia fosse tutt’altro che innocente. Così è se vi pare potrebbe far riferimento, quindi ad una vicenda almeno parzialmente autobiografica. Ipotesi da non sottovalutare visto che anche nell’Enrico IV e nei Sei personaggi si nota la presenza di tematiche simili dal momento che nel primo caso il protagonista si invaghisce della figlia della donna amata in passato, mentre nel secondo, rischia di avere un rapporto sessuale con lei.
 
La «verità», insomma, aveva portato probabilmente la famiglia dell’autore alla distruzione e per questo nella sua opera troviamo l’elogio delle «pietose bugie» dette, ripetute affabulate pur di rimanere insieme, bugie alle quali molto probabilmente lo stesso Pirandello si era abituato…
 


IL DISCORSO DEL PICCO DELL’AQUILA – Sulla natura di Buddha

5 01 2009
Tempio del Buddha di Smeraldo a Bangkok
«A livello Dharmakaya la sua mente è l’immensa estensione dell’onniscienza, che conosce tutte le cose esattamente come sono. A livello Sambhogakaya, che trascende la nascita e la morte, egli gira ininterrottamente la Ruota del Dharma.» (Dilgo Khyentse Rinpoche)
 
 
«Da quando ho conseguito la Buddhità il numero di kalpa che sono trascorsi è incalcolabile: centinaia, migliaia, miriadi, milioni, miliardi, asamhkya. Io ho predicato costantemente la Legge, istruendo e convertendo milioni di esseri viventi, facendoli entrare nella via del Budda; tutto questo per kalpa innumerevoli.
 Per salvare gli esseri viventi, uso l’espediente di mostrare il mio nirvana ma in verità non mi estinguo. Sono sempre qui a predicare la Legge. Sono sempre qui, ma grazie ai miei poteri sovrannaturali faccio in modo che gli esseri viventi obnubilati non mi vedano, neanche quando sono vicino.
 Quando le moltitudini vedono la mia estinzione, per ogni dove fanno offerte alle mie reliquie. Tutti nutrono pensieri nostalgici e i loro cuori anelano vedermi. Quando gli esseri viventi diventano devoti credenti, dall’animo retto e sincero, e desiderano con tutto il cuore vedere il Buddha anche a costo della vita, allora io e l’assemblea dei monaci appariamo insieme sul sacro picco dell’Aquila.
 Allora io dico loro che sono sempre qui, che non mi estinguo mai, ma che, in virtù del potere degli espedienti, a volte sembra che io sia morto, a volte no; dico anche che se vi sono esseri viventi in altre terre, rispettosi e sinceri nel loro desiderio di credere, allora io predico la Legge suprema anche per loro. Ma voi non avete mai udito queste mie parole, così pensate che io scompaia. Quando osservo gli esseri viventi li vedo annegare in un mare di sofferenze, perciò non mi mostro, facendo scaturire il loro desiderio. Poi, quando i loro cuori bramano la mia venuta, faccio il mio avvento e predico la Legge per loro.
 Questi sono i miei poteri sovrannaturali. Per asamhkya kalpa sono sempre vissuto sul sacro picco dell’Aquila e in diversi altri luoghi. Quando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa e tutto arde in un grande fuoco questa, la mia terra, rimane salva e illesa, costantemente popolata di dei e uomini. Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi sono adornati di gemme di varia natura. Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio. Gli dei suonano tamburi celesti, creando un’incessante sinfonia di suoni. Boccioli di mandarava piovono dal cielo posandosi sul Buddha e sulla moltitudine.
 La mia pura terra non viene distrutta, eppure gli uomini la vedono consumarsi nel fuoco: ansia, paura e altre sofferenze predominano ovunque. Questi esseri viventi con molte colpe, per il karma creato dalle loro azioni malvagie, trascorrono asamhkya senza udire il nome dei tre tesori.
Ma coloro che praticano vie meritorie, che sono gentili, miti, onesti e retti, tutti loro mi vedranno qui, in persona, intento a predicare la Legge. In certe occasioni io spiego a questa moltitudine che la durata della vita del Buddha è incommensurabile, e a coloro che vedono il Buddha solo dopo molto tempo spiego loro quanto sia difficile incontrare il Buddha.
 Tale è il potere della mia saggezza: la mia luce risplende senza limiti. Ho conseguito questa vita che dura da infiniti kalpa come risultato di una lunga pratica. Voi, che siete dotati di saggezza, non dubitate di ciò! Abbandonate ogni dubbio una volta per tutte, poiché le parole del Buddha sono vere, non false.
Egli è come l’abile medico, che usa uno stratagemma per curare i figli usciti di senno. Sebbene sia vivo, diffonde la notizia della sua morte, ma nessuno può accusarlo di menzogna. Io sono il padre di questo mondo che salva coloro che sono afflitti e soffrono.Dato che le persone comuni sono illuse, sebbene io viva, faccio credere di essere estinto. Questo perché, se mi vedessero costantemente, nelle loro menti sorgerebbe arroganza ed egoismo. Liberi da ogni freno, si abbandonerebbero ai cinque desideri e cadrebbero nei cattivi sentieri. Io so che sta praticando la via e chi non lo sta facendo e, in risposta al loro bisogno di salvezza, predico per loro diverse dottrine. Questo è il mio pensiero costante: come posso far sì che gli esseri viventi accedano alla via suprema e acquisiscano rapidamente il corpo di Buddha?»
(Sutra del Loto – Discorso del Picco dell’Aquila)
 
 
«In questo contesto, benché il Buddha sia un personaggio storico, la storicità del Buddha Sakyamuni, sarebbe considerata un’ottima dimostrazione di un’azione compassionevole del Buddha, che si manifesta a partire dallo stato perfetto e atemporale del dharmakaya, o Corpo di Verità. Il Buddha Sakyamuni in quanto personaggio storico è noto come nirmanakaya, che significa Corpo di Emanazione; un’emanazione che si manifesta per adattarsi alle disposizioni mentali e alle esigenze di un certo periodo, un certo luogo un certo contesto. Questa emanazione, procede da un’emanazione precedente, il sambhogakaya, o stato di perfetta pienezza delle risorse, che sorge dall’estensione al di là del tempo del dharmakaya» (Dalai Lama)
 
 


MEDITANDO SUL BODHISATTVA DELLA PIENA CONSAPEVOLEZZA

26 12 2008
22 Dicembre 2008
manjusri
Disse poi il Beato: «La vita è breve Manjusri: che farai dunque?»
«Venerabile Shakyamuni, – disse Manjusri – Io prenderò rifugio nel tuo Corpo di Verità, prenderò rifugio nella Parola, prenderò rifugio nella Comunità spirituale. Cercherò di praticare la generosità, la moralità, la pazienza, l’energia, la sapienza, la concentrazione per giungere all’illuminazione.»
«Hai detto bene Manjusri, – rispose il Beato – da oggi sarai chiamato sapiente. Io ti dico che anche cominciando da una sola di queste perfezioni tu potrai giungere all’assenza di rinascita.
Ma per realizzare il perfetto risveglio sii come il loto che nascendo nel fango sboccia sull’acqua e la sua luce si spande su tutti gli esseri senzienti. Nelle tue meditazioni scambiati con essi, così domerai la tua mente, e nella compassione otterrai la natura del Buddha.»
Poi chiuse gli occhi e dalla zona in mezzo alle sopracciglia un raggio di luce si sprigionò:
« Da oggi – disse ancora il Beato – Om ah ra pa tsa na dhih, sarà il tuo mantra, per tutti coloro che vorranno conoscere e comunicare la sapienza»


Fa’ un’isola di te stesso, opera celermente, sii saggio – Della felicità e delle passioni

26 12 2008
5 Dicembre 2008
Edvard Munch Sun
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
 Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato…

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Esiste probabilmente un unico modo per evitare che la vita sia questo insensato abisso di dolore descritto così bene dal Leopardi: lasciare quel fascio di tutto ciò che ci «appartiene» e ci pesa addosso, di tutto il nostro «amor proprio» (che non è autentico «amore a sé», cioè al nostro destino di felicità) e fermare la corsa. La corsa dei desideri che ci fanno precipitare e ci lacerano ovunque senza lasciarci pensare davvero a chi siamo e a dove stiamo andando. Fermare la corsa.
«L’antidoto», per usare un’espressione cara al Dalai Lama, è appunto far «girare la ruota del Dharma» cioè andare in senso opposto e, come dice il Beato «uscire dalla foresta» degli attaccamenti e dell’odio e diventare invisibili agli occhi di «Mara». Questo si intende per liberazione a beneficio non solo personale, ma di tutti gli esseri.
Di sicuro quel fascio dobbiamo cercare di lasciarlo e, soprattutto, non dobbiamo crearne un altro con le nostre azioni.
Non è una deduzione razionale tipica soltanto del Buddhismo, ma a questa conclusione sono arrivati anche molti artisti, filosofi o religiosi occidentali.
Per esempio l’Ariosto, con la sua consueta leggerezza ci propone una «allegoria» molto realistica, sui desideri degli uomini e sulla loro fine.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l’astuzie che sono ora,
a piè d’un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non so mostrar, vivea ne la val ima;
che più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;
e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;
chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.
Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d’esser rimasi giù.
Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi.
Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

Insomma, gli uomini tendono sempre a correre dietro le loro illusioni pensando che siano reali, ma più corrono e più non si avvicinano neanche di un passo alla felicità, così come non si può catturare la luna dentro un canestro…

Preziosi consigli su come vivere ci vengono dagli antichi. Seneca, ad esempio, ha meditato a lungo sulla felicità e sulla possibilità dell’uomo di essere felice. In particolare osserva: «I mali che fuggi sono in te», E poiché è conscio dell’impermanenza delle cose arriva a questa conclusione: «Non esiste alcun bene duraturo all’infuori di quello che l’animo trova dentro di sé.».
Dove si trova quindi la possibilità della stabilità dell’animo e quindi, della felicità? A questa domanda Seneca risponde che la felicità sta in ciò che è consono all’uomo cioè alla sua aspirazione al bene vale a dire la virtù ovvero l’abitudine al bene e quindi: « Non si compie un’azione virtuosa in vista di un premio, il premio sta nell’averla compiuta.». Solo così si acquista la libertà che è «l’affrancamento dalle passioni». Così anche altri pensatori antichi, come per esempio Cicerone, hanno affermato a riguardo concetti molto simili. Se ci rivolgiamo ai grandi filosofi greci come Socrate e Platone essi considerano la felicità come frutto della ‘temperanza’ e come libertà dai desideri e dagli impulsi.

Nei Vangeli, poi, Cristo è piuttosto deciso sul fatto di dover rinunciare ai propri attaccamenti se si vuole ottenere un vero progresso spirituale – «la vita» – e consiglia senza mezzi termini: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. »
Dove, come si sa, il fuoco, più che essere un concetto esterno all’uomo è qualcosa che brucia dentro di lui «dannandolo», poiché l’uomo ha alla fine quello che ha cercato e rincorso per tutta la vita, quindi si deve pensare bene a quello che si cerca.
E ancora racconta il Vangelo di Matteo:
«Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: ‘Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti’. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: ‘Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre’.»
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna da Cartesio a Spinoza, da Pascal a Schopenhauer, sulla ricerca della felicità, il perseguimento della virtù e il controllo delle passioni, poiché l’attaccamento eccessivo a ciò che è fuggevole ed impermanente porta fatalmente all’infelicità.
Però mi fermo qui. E permettetemi di raccontarvi una storia… (ma le citazioni dagli antichi testi sono autentiche!)

Un giorno un anziano disse ad un suo giovane discepolo:
«Molti dicono: ‘Cavalchiamo la tigre e dominiamola.’ Ma io ti dico coloro che così faranno presto dovranno fare i conti con i denti della tigre che li divorerà. Può l’uomo ammansire la tigre? Forse con la frusta in mano può farlo e con sbarre di ferro, ma, anche se può, quanti altri dovranno morire perché uno solo riesca? E ha poi così senso sfidarla volontariamente, non è forse un atto di inutile superbia? Quanti divorati dalla tigre saranno in futuro come lei?
E altri dicono ‘Cavalchiamo l’onda’, seguendo, a loro dire, il sentiero di Diamante, ma il Beato stesso disse:
‘Colui che ha una visione errata, le cui trentasei correnti
scorrono impetuose verso il piacere,
i suoi pensieri fondati sull’attaccamento come onde
lo trascinano via’
Shakyamuni affermò e questo ricordalo, se vuoi andare ‘al di là’ del fiume:
‘Avendo ucciso madre, padre e due re di casta guerriera,
avendo distrutto un regno con i suoi sudditi,
il brahmano se ne va senza tremare.
Avendo ucciso madre, padre e due re di casta sacerdotale,
e una tigre come quinto,
il brahmano se ne va senza tremare’
cioè sconfiggendo gli attaccamenti della nascita, del potere, del piacere e del dubbio, allora si fermerà la rinascita.
E disse ancora Shakyamuni:
‘Di ciò che potrebbe fare un odiatore ad un odiatore, un nemico ad un nemico, molto più male fa [all’uomo stesso] il [suo] pensiero falsamente diretto.’
Perché l’uomo che non saprà custodire se stesso sarà il proprio peggiore nemico…
Non credere che si possa accorciare la Via né che basti dire di essere arrivato perché la meta del tuo viaggio compaia davanti a te, ma sii umile. Perciò io ti dico: segui la via certa delle Quattro Nobili Verità e dell’Ottuplice Sentiero e non cercare nelle illusioni risposte che non ti daranno, ma più ti avvolgeranno nelle loro catene. Non fare come colui che avendo tagliato il sottobosco si inoltra di nuovo nella foresta… Medita in cuor tuo sulla radice del dolore e se così farai ti convincerai che è necessario tagliarla così come esorta il Beato. Ma se di questo non ti convincerai da solo non sarà un’imposizione che potrà cambiare la tua mente. E non ti avvolgere nell’ignoranza, ma medita sulle testimonianze e le parole immortali del Beato: in esse è racchiuso il Dharma, l’insegnamento e la natura profonda della realtà. Così apprenderai che non per te da solo puoi andare al di là del fiume, ma per tutti gli esseri senzienti perché solo apparentemente siamo divisi, ma finché non proverai gioia nella pratica del Dharma, non sarai arrivato davvero a comprenderla…
C’è una storia nel Sutra del Loto che voglio raccontarti:
«Supponiamo, figli di nobile schiatta, che vi sia un certo medico, colto, saggio, intelligente, abile nell’eliminare ogni malanno. Costui ha molti figli, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta o cento. Ma un giorno il medico va all’estero e tutti i suoi figli si ammalano per un’intossicazione o avvelenamento e in seguito a ciò sono tormentati da sensazioni dolorose e si rotolano per terra dal bruciore. Il medico, loro padre, ritorna dal viaggio mentre i suoi figli sono tormentati da quelle sensa­zioni dolorose in seguito all’intossicazione o avvelenamento. Alcuni di loro hanno idee sbagliate, altri idee giuste, ma tutti soffrono dello stesso dolore. Vedendo il padre lo salutano con gioia e gli dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato sano e salvo perché devi liberarci da questa calamità, intossicazione o avvelenamento che sia. Caro padre, facci vivere’. Allora il medico, nel vedere i suoi figli in preda al dolore e tormentati dalle sensa­zioni dolorose mentre si rotolano per terra dal bruciore, prepara un potente rimedio dal colore, odore, sapore appropriato, lo pesta col mortaio, e lo dà da bere ai suoi figli con queste parole: ‘Bevete, figli, questo potente ri­medio dal colore, odore, sapore appropriato. Bevendolo sarete subito liberi, l’intossicazione o l’avvelenamento saranno eliminati e vi sentirete bene e in salute’. I figli del medico dalle idee giuste, vedendo il colore, sentendo l’odore e assaggiando il sapore del rimedio, lo prendono in fretta e si sentono subito sollevati. Ma i figli del medico dalle idee sbagliate, dando il benvenuto al padre, dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato in salute e in buona forma perché devi curarci’. Ma costoro, pur par­lando in tal modo, non bevono il rimedio offerto. Per quale ragione? Di idee sbagliate, a costoro non piace il colore del rimedio, non piace il suo odore e, il suo sapore. Allora il medico riflette: ‘Questi figli hanno delle idee sbagliate per via dell’intossicazione o avvelenamento e non bevono il potente rimedio né lo accettano. Pertanto io dovrò indurli a bere questo rimedio con un abile mezzo’. Così il medico desiderando che i figli bevano il rimedio, con un abile mezzo dice loro: ‘Figli d i nobile schiatta, io sono vecchio, avanti negli anni, sono arrivato al termine della mia vita. Ma non dispiacetevene, figli, non sentitevi depressi. Ho preparato questo potente rimedio, se lo desiderate potete berlo’. Ammoniti i figli con questo abile mezzo, egli parte per un altro paese e fa annunciare ai figli esausti la sua morte. In quel momento essi si affliggono e lo piangono moltissimo. ‘Invero costui che èstato nostro padre, guida, genitore amorevole, è morto. Oggi noi siamo rimasti senza protettore.’ Consapevoli di essere senza una protezione e senza un rifugio, si sentono costantemente afflitti dal dolore, ma proprio per questo continuo dolore e afflizione le loro idee sbagliate vengono soppiantate da quelle giuste. Si rendono così conto che il colore, l’odore e il sapore del rimedio è quello appropriato e pertanto prendono subito il rimedio e vengono liberati dall’infermità. Allora il medico, venuto a sapere che i suoi figli sono liberi dal dolore, ritorna.»

Dunque procura di essere tra coloro che hanno pensieri giusti per non perdere inutilmente il tempo, non è necessario che il Buddha scompaia perché tu debba desiderare di cercarlo e vederlo dentro di te…



MEDITANDO SULLA VITA, LA MORTE, LA FELICITA’

26 12 2008
2 Novembre 2008
Dedicato ad A. e alla sua relazione sulla felicità inviatami in questi giorni
 
 
«ch’i’ non averei credutoche morte tantan’avesse disfatta. » (Dante, Inf. III)
 
Oggi è un giorno per meditare, e non è mai un giorno facile, perché si entra in contatto più da vicino con la morte. Non solo una morte astratta, ma spesso con la perdita molto concreta delle persone a noi care. Dobbiamo fare i conti con il loro ricordo e con il nostro stesso destino. Ci sono persone che semplicemente non vanno al cimitero, scansano il problema, fanno finta che non esista e continuano a vivere.
Io sono sempre stata dell’idea che non ci sia nulla di umano che possa non riguardarmi e men che meno il nostro destino finale. Sono sempre stata convinta che si debba studiare e capire quello che siamo, quali siano i nostri limiti e se ci sia un modo per superarli, per potersi rapportare anche con la morte, perché la risposta che diamo a questo termine ultimo, di fatto, determina fortemente la nostra esistenza adesso.
Per questo nella mia vita ho sempre cercato di studiare molto, perché la luce della nostra ragione spesso ha già in sé parecchie risposte, e non solo la razionalità, ma anche la coscienza degli uomini del passato ci può aiutare a capire quello che siamo veramente. Ciò che sicuramente, a mio parere, non si deve fare è arrivare alla fine della vita inconsapevoli, senza aver pensato davvero al senso ultimo di questo nascere e morire di noi e di ogni cosa.
Per questa ragione è nata anche la mia passione per i viaggi, per cercare di capire gli esseri umani anche di altri luoghi e scoprire punti di vista differenti. E poi l’arte e la cultura dell’uomo ci parlano costantemente dei suoi sogni, delle sue più alte aspirazioni e di tutto ciò che sembra stridere fortemente con il destino finale dell’annullamento.
 
LA REALTA’ DEL DOLORE
Sicuramente, se si valuta la vita umana nella sua apparenza materialistica si è certi di come andrà a finire: l’uomo nasce con fatica e dolore, il primo vagito è già un pianto e via via che gli anni passano è sottoposto alla malattia e alla vecchiaia e infine alla morte. E forse la morte non è l’aspetto peggiore, considerando che il maggior dolore si prova nella malattia e nella vecchiaia. Ho potuto constatare personalmente entrambi gli aspetti sia quello della malattia (è sufficiente stare una ventina di giorni in un ospedale per capire quanto basta) sia la vecchiaia. Per me quest’ultima si identifica con l’immagine di mia nonna paterna, morta a 99 anni semplicemente di ‘vecchiaia’ appunto, per la naturale decadenza organica: quello che tutti forse vorrebbero augurarsi e in genere si augurano. Nonostante questo, vederla ridotta impotente in un letto, rattrappita dagli anni e con la mente lucidissima, implorare il dono della morte, eppure continuare a combattere per la vita come aveva sempre fatto e fino all’ultimo, mi ha fatto molto riflettere. Questo è il nostro destino materiale, se ci va bene.
 
LA NECESSITA’ DELLA COMPASSIONE
Però sicuramente, gli uomini potrebbero fare qualcosa per se stessi e per gli altri, proprio perché se davvero si prende atto che questo è il limite della natura umana, allora si comprende anche come sia del tutto inutile e dannoso assumere atteggiamenti trionfalistici sull’essere umano e sulle sue ‘magnifiche sorti e progressive’.
Il nostro destino è quello invece, di dover abbandonare tutto a poco a poco ed, inoltre, tutto ci abbandonerà, tutto ciò che c’è in questo mondo è fatto per perire con noi o prima di noi.
Questo dovrebbe farci nascere un forte sentimento di compassione, perché tutti gli esseri umani sono accomunati dallo stesso destino di distacco progressivo dalla vita e da tutto ciò che essa rappresenta, compreso tutto ciò che amiamo e che ci dà piacere.
La pietà potrebbe alleviare le nostre e le altrui sofferenze, perché molti dei mali derivano dal nostro agire nei confronti di noi stessi e degli altri.
E d’altra parte, molte nostre azioni nascono dal desiderio di provare piacere e di possedere, illudendoci che questo possa creare in noi la felicità. Tutte le cose che abbiamo accumulato, invece, se ne andranno, e i piaceri durano solo un attimo e significano ben poco.
Bisogna meditare sul destino dell’essere umano perché non ci colga impreparati. Solo condividere e cercare di alleviare il dolore può avere un senso nella vita degli uomini. Non tentare di appropriarsi di ogni cosa, creandosi l’illusione di una falsa onnipotenza legata alle cose o alle persone che si possiedono. Il nostro mondo non è affatto compassionevole perché si basa sull’illusione che ammassando beni essi possano costituire una diga contro la realtà del destino umano. Ma ciò è del tutto ingannevole.
 
IL DESIDERIO DELL’ETERNO
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite? (Foscolo, dei Sepolcri)
 
Quello che invece l’uomo vorrebbe e non ha è ben altro. Basta conoscere il pensiero dell’uomo di ogni epoca, guardare le sue opere per capire che l’essere umano anela ad una felicità eterna e al di fuori dello spazio e del tempo. Di questo ci parla la voce degli uomini che dal passato ci raggiunge anche oggi. La perfezione dell’essere, l’eternità.
Io personalmente ritengo che, considerando tutto ciò che gli uomini hanno creato e sognato la posizione più razionale e sottolineo razionale, sia quella di credere che ci sia un oltre, un infinito che possa colmare il desiderio che la nostra natura continuamente ci ripropone, anche nella forma del piacere, ma che in realtà richiama sempre il sogno di un soddisfacimento infinito, sebbene rivolto ad un oggetto inadeguato.
Del resto anche un intellettuale illuminista come Diderot (e quindi non certo sospettabile di essere un fautore di una qualche religione) affermò: ‘Esiste solo una passione, la passioneper la felicità‘…..
Blaise Pascal parlava di una ‘scommessa’, di un salto della fede che si deve compiere per uscire dall’empasse della condanna della natura. Per conto mio ritengo che tutto ci parli dell’eternità e soprattutto che questa sia connaturata con la nostra coscienza. Forse, riprendendo l’affermazione di Diderot, siamo fatti solo di quel desiderio, alla fine. Se solo lo sapessimo riconoscere con la mente chiara, allora potremmo anche capire che non si può conseguire senza un ‘tu’ a cui rivolgerci. Ci vuole una condivisione con gli altri se si vuole arrivare, ci vuole la compassione.
 
LA RICERCA DI UN MAESTRO
Ma come fare per perseguirla? Dov’è la strada?
Sono necessari, come in tutte le altre cose lo studio e l’educazione. Tutti capiscono che si deve andare a scuola per imparare a leggere e scrivere, ma spesso non si ritiene che si debba imparare a capire la vita.
Non siamo soli in questo viaggio, c’è molta antica saggezza a cui possiamo attingere. Soprattutto ci sono esempi di vita importanti. In particolare di coloro che hanno esercitato la perfetta compassione, e che quindi hanno già percorso la strada che porta verso la felicità, il luogo verso il quale si è chiamati.
Da questo punto di vista bisogna cercare un Maestro, qualcuno che abbia già percorso la strada e imparare da lui.
Personalmente ritengo che colui che più compiutamente ha incarnato questo esempio sia Cristo, soprattutto per quanto riguarda il nostro mondo occidentale. Di recente ho letto diversi volumi sul Buddhismo e devo dire che mi hanno dato la possibilità di approfondire molto la mia fede e la mia pratica, ma ritengo che l’insegnamento di Cristo sia ancora più compiuto e perfetto.
Considero, comunque, con il massimo rispetto ed ammirazione chi attraverso un’altra religione intraprende la ricerca delle Verità ultime e credo che, se paradossalmente, non esistesse il cristianesimo probabilmente sarei buddhista; anzi, devo dire che proprio con l’aiuto degli insegnamenti del Buddha alcune verità comuni al cristianesimo sono risultate per me più evidenti; però ritengo che la rivelazione che siamo stati amati da Dio dal primo istante della nostra esistenza e fino alla Sua stessa morte non abbia eguali in alcuna altra fede.
Anzitutto perché Cristo ci parla dell’amore di Dio attraverso il suo esempio di dedizione totale a tutta l’umanità, ci mostra come il Padre non sia un’entità staccata dall’uomo, ma ci abbia voluto a sua immagine, al punto tale da generare Lui stesso, il Figlio, Figlio che è anche il Verbo, cioè la Parola attraverso cui tutto ciò che esiste è stato creato.
 
Α Ω
Questa è la grande scoperta nello studio dei testi sacri e delle meditazioni dei teologi: noi siamo fatti a Sua immagine ed è tale immagine che portiamo dentro di noi: noi siamo il tempio di essa, ma dobbiamo assumerne consapevolezza, dobbiamo vivere perseguendola, amandola e rispettandola, meditando sugli insegnamenti di Cristo perché essa diventi sempre più concreta e visibile.
In definitiva, vivere dell’imitazione di Cristo stesso. Solo perseguendo quell’immagine divina dentro di noi potremo conseguire la felicità.
‘Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto’diceva San Paolo; in realtà, credo, noi stessi gemiamo nel partorire la nostra vera natura, perché dobbiamo riconoscerla e perseguirla attraverso la pratica cioè l’azione, la meditazione e la preghiera, e non è sempre facile. Solo se faremo ‘partorire’ la realtà, però, progrediremo nel cammino anche personale. Una collaborazione alla creazione divina che nel Vangelo viene definita con l’espressione ‘lavorare nella vigna del Signore’.
Il nostro essere nel mondo è un viaggio, ‘un pellegrinaggio’ dicevano gli antichi Padri della Chiesa, perché attraverso questa prova noi possiamo imparare ciò che non passa con il tempo e ciò che invece è destinato a finire. Perché possiamo imparare a vedere ciò che è impermanente come il riflesso e la testimonianza di ciò che è eterno e così possiamo amarlo, senza attaccamento.
Siamo qui per tornare da dove siamo venuti, ma con la consapevolezza nuova che è quanto vogliamo veramente.
Tornare alla nostra origine, tornare alla nostra più compiuta Immagine.
Questa è la vera libertà: compiere le azioni per cui siamo stati fatti, cioè volte alla ricerca della felicità, intesa come vero totale appagamento della coscienza. Le azioni che corrispondono alla nostra vera natura, cioè quelle che ci rendono consapevoli di essa, ci faranno tornare alla nostra Origine perché ci faranno appartenere sempre di più ad essa.
‘Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo cherisuona o un cembalo che tintinna ‘ scrisse San Paolo, perché la Carità è Dio stesso.
Per questo nella vita presente imitando Cristo e quindi praticando tali azioni, avremo un anticipo della beatitudine, quello che Cristo chiama ‘il centuplo quaggiù’ e, infine, la vita eterna dopo la morte, cioè la compiuta visione di Dio.
Il dolore e la morte sono dunque una prova, ma non sono la parola finale sull’essere umano. Sono un mezzo per vedere con mente più chiara la verità dell’esistenza, un crogiuolo, come lo definisce l’Antico Testamento, dove l’oro si raffina. E se avremo paura ci sarà un Tu, che ha condiviso in tutto le nostre sofferenze umane al quale poter dire: ‘Signore, ho paura…’.
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