THIS MUST BE THE PLACE

27 10 2011

 

L’accoppiata Penn – Sorrentino crea un film capolavoro su un nuovo personaggio-simbolo 

 
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Il passo è lento, quasi esasperante, strascicato. Anfibi. Capelli neri, tinti, lunghi e cotonati. Sarà il solito punk drogato. Di sicuro è così. Occhiali da sole, a qualunque ora e con qualunque tempo,  nascondono occhi azzurri segnati da una pesante matita nera, labbra rosso sangue sul cerone di un pallore surreale. Dietro il trucco un reduce di una generazione di trasgressioni e follie, di musica commerciale e non, di “rivoluzione” e bestemmia. Un gioco di ruolo, una “recita “ a beneficio del pubblico osannante (ma anche del proprio io irrisolto) si è trasformato in tragica realtà: loro sono morti e lui è rimasto vivo, inchiodato a quel momento, a quella maschera, a quel non essere. Ma dietro il cerone e gli occhiali impenetrabili ci sono gli occhi di un grandissimo Sean Penn, vivi, indagatori, intelligentissimi e silenziosi. Cheyenne è diventato un altro uomo, ma ancora non lo sa: troppi ricordi, troppe azioni senza rimedio lo tengono ancorato al passato. Lui alcolizzato che sniffava eroina ora sembra aver rinunciato a tutto. Troppo perfetto per essere vero oppure solo troppo rassegnato: si è ritirato in Irlanda in un paese di quattro anime, nessun vizio, neppure una sigaretta nella sua casa che pare un ospedale dalle pareti bianche e spoglie. Il suo aspetto può solo suscitare due sentimenti opposti: la repulsione di alcuni o la venerazione di altri, di coloro che vorrebbero che tornasse a cantare. Ma Cheyenne non può tornare, i suoi amici sono morti e forse per colpa sua. Sembra in un perenne stato di stordimento, ma non ci si deve lasciar confondere, tant’è che è diventato una specie di “mago” dell’investimento in borsa, al quale si dedica per ingannare il tempo. In realtà la sua è solo noia, per i prevedibili comportamenti della gente, ipersensibilità e anche disgusto per chi corre corre senza pensare e non sa veramente dove stia andando. Il suo fardello di ricordi si traduce nel correlativo oggettivo di quel carrello della spesa che si porta sempre dietro e che poi cambierà in un trolley inseparabile quando se ne andrà in giro per l’America.

 

 



 “Home is where I want to be”, la mia casa è dove voglio essere, ripete la canzone dei Talking Haeds che dà il titolo al film di Paolo Sorrentino, ma Cheyenne nella sua mente non ha una casa, il suo carrello, la sua valigia sono la sua casa, sebbene abbia una moglie, parenti e amici.
Poi succede qualcosa: lo chiamano dagli Stati Uniti perché suo padre è in fin di vita e parte, nonostante non prenda più un aereo da trent’anni, e da tutto quel tempo non veda la sua famiglia. Così improvvisamente si ritrova catapultato in una realtà diametralmente opposta alla sua: tra gli ebrei ortodossi americani e alle prese con i ricordi di un padre che non lo amava. O forse sì, ma non si erano mai capiti, e adesso, come sempre nella sua vita, è tardi. E’ troppo tardi. Ma forse c’è qualcosa che si può ancora fare per quell’uomo così diverso da lui e fargli vedere quanto è diventato bravo suo figlio, dimostrando a lui e a se stesso, per una volta, di saper fare “la cosa giusta”. Suo padre aveva cercato per tutta la vita il suo aguzzino ad Auschwitz senza riuscirci, ma adesso lui lo troverà. Diversi? Opposti? Può darsi, però suo padre era un testardo come lui, rimasto ancorato al passato come lui, un reduce, in fondo, come lui; ecco il terreno sul quale si incontrano seppure solo virtualmente.
Ciò che colpisce di questo incredibile personaggio creato da Sorrentino e da Sean Penn è lo sguardo non convenzionale, la capacità di darsi il tempo per riflettere, la pazienza infinita nell’osservare e trarre conclusioni. Cheyenne è un “contemplatore” che proprio per questo assorbe come una spugna ciò che vede e sente nella realtà e lo fa proprio rielaborandolo. La sua mente è libera e vuota, cristallina: per questo gli bastano poche foto dell’Olocausto per capire di che si trattava, per poi turbarsi al punto da andarsene per non volerle più guardare. Per uno come lui che pare aver vissuto al limite per tanto tempo ora il bene e il male appaiono per evidenza, senza tante parole. La sua purezza di cuore lo salva perché lo pone costantemente in contatto con la sua coscienza. “Qualcosa mi ha disturbato, ma non so esattamente che cosa” ripete spesso quando si trova di fronte ad azioni o affermazioni negative.


Rispetto al precedente film “Il Divo” potrebbe sembrare che i punti in comune non siano molti, ma, ad una lettura più attenta, ci si accorge che non solo lo stile di Sorrentino non è cambiato, ma anche la tendenza a concentrarsi su un individuo da studiare minuziosamente quasi isolandolo dal contesto è la stessa. Troviamo sicuramente qualcosa di autobiografico in questo film, soprattutto per i riferimenti al difficile rapporto con il padre e per la sorprendente e originalissima capacità di osservazione tipica di Sorrentino, il quale, nella vita assume spesso questo aspetto talvolta trasognato e quasi incerto, almeno a giudicare dalle sue interviste. C’è soprattutto una filosofia di vita, la filosofia dell’artista che sotto il travestimento dell’arte resta un po’ bambino e un po’ “dio” capace di capire il mondo meglio di chiunque altro.
This must be the place: deve essere questo il posto, quello dove si era sempre vissuti, il luogo della propria coscienza restituita a se stessa

 

 


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