La Giara: dal teatro al cinema – Un Pirandello “siciliano” ed enigmatico

13 12 2009
Pubblico una recensione veramente notevole di un mio alunno su uno spettacolo per le scuole realizzato di recente a Brescia dalla Compagnia Italiana di Prosa. Il motivo di interesse risiede dell’interpretazione di questo originale ed enigmatico testo pirandelliano e anche nella trasposizione cinematografica, particolarmente riuscita, da parte dei fratelli Taviani.
Foto_Giara_04
Don Lollò contro Zi’ Dima, l’arroganza e la prepotenza del ricco si contrappongono alla tradizione popolare tramandata nei secoli: questa è La Giara, atto unico (tratto da una delle Novelle per un anno) di L. Pirandello, andato in scena nei giorni scorsi al Teatro S. Afra di Brescia.
L’opera dello scrittore agrigentino rappresenta perfettamente la realtà contadina e la mentalità del popolo siciliano attraverso la descrizione dell’annoso scontro tra le classi sociali, impersonate dal potente ma avido proprietario terriero (Don Lollò) e dall’umile ma abilissimo «conciabrocche» (Zi’ Dima).
La trama è estremamente semplice e conosciuta: la nuova giara comprata da Don Lollò per contenere l’olio prodotto dai suoi immensi poderi si rompe misteriosamente nella notte. Viene quindi convocato Zi’ Dima per ripararla ma la prepotenza del latifondista e la sua mancanza di «buon senso» fanno infuriare l’artigiano che, non avendo ben calcolato le misure dell’apertura del recipiente, ne rimane incastrato all’interno.
Si viene così a creare una situazione assurda, un equivoco che esaspera la contraddizione tra i due personaggi e la rende quasi paradossale, in stile tipicamente pirandelliano.
la_giara_franco_franchi
La Compagnia Italiana di Prosa sottolinea questi aspetti proponendo un interessante confronto tra il testo teatrale di Pirandello e la sua trasposizione cinematografica all’interno del film Kaos dei fratelli Taviani. Lo spettatore è quindi spronato continuamente a riflettere sulla differenza tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico, individuando somiglianze e differenze.
Se l’episodio dei fratelli Taviani punta sul fascino del paesaggio siciliano e sull’aspetto corale della vicenda, evidenziando la contrapposizione fra due classi sociali anche numericamente molto differente, l’allestimento della Compagnia Italiana di Prosa si affida alla bravura e alla presenza scenica degli attori per valorizzare il significato delle parole pirandelliane. Proprio per rendere efficacemente l’idea di coralità, tanto importante in Kaos, vengono inserite delle parti cantate dagli stessi attori, che spezzano a più riprese la tensione drammatica del testo originale.
Questa continua suddivisione di una vicenda che nella concezione pirandelliana dovrebbe costituire un episodio unitario sminuisce notevolmente il fascino dei dialoghi e delle azioni originali, a vantaggio di alcune figure minori, la cui importanza risulta notevolmente accresciuta nella rappresentazione.
Anche la stessa giara, il contenitore del lavoro del popolo, sfruttato dai ricchi proprietari terrieri, perde il suo profondo valore simbolico e resta un puro e semplice oggetto.
Giara_02a
Nell’allestimento della Compagnia Italiana di Prosa l’aspetto di maggiore importanza pare essere quello tragicomico, che invece nell’opera di Pirandello è strettamente subordinato a un’attenta riflessione sociale. L’opera dei Taviani, invece, evidenzia meglio lo spirito originale dell’atto unico, lasciando l’aspetto comico all’abilità dei celebri F. Franchi e C. Ingrassia, che interpretano con grande efficacia ruoli per loro inediti.
Il coraggio di Zi’ Dima che riesce a rompere l’antico equilibrio tra il silenzio del popolo e la chiassosa supponenza di Don Lollò, mostrando l’infelicità e la povertà d’animo del padrone, non traspare nella messa in scena teatrale, facendo sì che si perda gran parte del fascino originale dell’opera.
Lo spettacolo della Compagnia Italiana di Prosa è quindi efficace solo per certi aspetti e profondamente carente per altri, risultando, in definitiva, piuttosto superficiale, nonostante la bravura degli attori coinvolti. Il suo merito principale è probabilmente quello di mostrare al pubblico l’ottima scena di Kaos, che rende efficacemente molti aspetti della Giara pirandelliana offrendo un acuto confronto con testi simili come La Roba di G. Verga.
 
Lorenzo Sarnataro


CARA, «LUI» È STATO QUI ANCHE OGGI? – Createvi un amante virtuale e vivrete felici, parola di Harold Pinter

12 12 2009
amanteHa un sapore quasi pirandelliano «L’Amante» di Harold Pinter, atto unico messo in scena recentemente al Teatro Santa Chiara di Brescia (in collaborazione con il Centro Teatrale Bresciano) da Marco Sgrosso ed Elena Bucci, registi e interpreti allo stesso tempo di questa commedia-dramma sulla difficile persistenza dei sentimenti e dei legami nella famiglia borghese.
In quest’opera del 1962 l’autore inglese ha analizzato, infatti, un tema centrale nella sua produzione, come la decadenza del concetto stesso di coppia, mettendo in scena le vicissitudini di due coniugi, Richard e Sarah, che, incapaci di sopportare la piattezza della loro quotidianità, ricercano a tutti i costi esperienze tanto assurde e artificiose quanto drammaticamente reali nel loro avvilente significato. Per ingannare l’ineluttabile scorrere del tempo, che cancella e distrugge anche i sentimenti e i legami più solidi, i due protagonisti si «raccontano storie» diventando narratori e interpreti di una realtà del tutto virtuale, ma capace di rendere la vita ancora stimolante e piena di sorprese.
Per sfuggire alla quotidianità logorante, in cui a poco a poco si insinua la noia, i due si inventano una sorta di grande e mutevole gioco di ruolo: saranno Richard e Sarah, ma anche «Max e la Puttana», coniugi, ma anche amanti clandestini, insieme in un turbine inarrestabile di menzogne. Saranno l’uno per l’altra gli amanti ideali, con i quali sognare le trasgressioni più stimolanti e imprevedibili. Lei la donna oggetto, usata solo per il sesso consumato in fretta nei luoghi più impensati, e lui lo sconosciuto dall’aria equivoca, potenziale violentatore. Sulla base di questo gioco essi si creano via via un’identità multiforme, che cambia continuamente a seconda delle esigenze momentanee; diventano cioè maschere, che però continuano a recitare la loro parte anche quando il partner non c’è più, perché fare i personaggi – commenterebbe Pirandello – è molto più eccitante che essere uomini.
Come nelle migliori opere dello scrittore agrigentino, anche in Pinter si assiste, con esiti ancora più surreali, alla disgregazione dell’io di ambedue i protagonisti i quali rivelano una percezione della realtà del tutto soggettiva e dinamica. Anche questa finzione, però, non può durare in eterno ed è per questo che, con lo scorrere del tempo, i toni dell’opera si fanno via via più oscuri, l’atmosfera diventa sempre più opprimente, perché anche per Richard e Sarah si fa sempre più vicino il momento di affrontare la loro condizione e tutto ciò che ne consegue. La realtà del loro matrimonio, del vincolo che li unisce come due estranei che si tollerano e nello stesso tempo si respingono, abilmente elusa per anni e anni, riaffiora in un attimo e le loro frasi sciocche e banali, apparentemente senza significato, acquistano improvvisamente peso. Stare insieme secondo il commediografo britannico è uno sforzo sovrumano, è cercare ogni giorno nuove motivazioni per non cadere nella spirale del disagio esistenziale, in preda alle passioni passeggere, che nascono all’improvviso e altrettanto repentinamente muoiono. Un rapporto leale e sincero è perciò quasi impossibile in una società dove il perbenismo ostentato e una presunta quieta «normalità» prevalgono sulle inconfessabili verità di ognuno. La bugia, insomma, appare necessaria, addirittura fondamentale, per la sopravvivenza di qualunque rapporto umano. L’amaro rovescio della medaglia di questa finzione metateatrale è evidente nella realtà di tutti i giorni, dove molti si ostinano effettivamente a tenere in piedi matrimoni basati sul tradimento reciproco: ognuno dei partner «sa» dell’altro, ma per comodità tace, con buona pace di tutti. Il tradimento «segreto» pare, dunque, un modo facile per ingannare l’insopportabile routine di una vita mediocre, poiché sembra momentaneamente aggiungere quel pizzico di sale a una pietanza insipida; ma è solo un attimo, perché poi anche nella trasgressione si finisce per annoiarsi, come avviene in un’altra famosa opera di Pinter, «Tradimenti». Così la ricerca di nuove emozioni è destinata a continuare all’infinito.
Pinter in quest’opera godibilissima e all’apparenza quasi comica, anticipa infatti le tematiche principali del suo più celebre dramma, reinterpretandole in chiave surreale, attraverso un insensato gioco «a carte scoperte» caratterizzato da tempi velocissimi e da dialoghi enigmatici. Elena Bucci e Marco Sgrosso affrontano questo «testo denso di trappole sottili» con vivacità e disillusa ironia, interpretando i ruoli “multipli” dei due protagonisti con ingannevole naturalezza e mantenendo quella sensualità e quel gusto per l’equivoco che risultano tanto importanti nell’opera originale. Nell’insieme la messa in scena appare più cerebrale e minimalista rispetto al testo poiché le didascalie di ambiente sono enunciate da una fredda voce narrante che accentua ancora di più l’effetto di straniamento e artificio. Il risultato è una breve ed elegante commedia pervasa da uno humour tipicamente britannico, divertente, ma allo stesso tempo profonda, sempre in bilico tra scomode verità e allegre bugie.
 
Rossana Cerretti e Lorenzo Sarnataro


VINICIO CAPOSSELA – CHRISTMAS VINICIO – Un Capossela in versione natalizia, propone le ultime date del suo «Solo Show»

7 12 2009
VINICIO_CAPOSSELA_jpg_0_bigVinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio CaposselaVinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela Solo show Solo Show Solo Show Solo show Natale Natale Natale Natale Natale Solo Show Solo Show
«Venghino, venghino signore e signori, lo spettacolo di Vinicio Capossela sta per cominciare! Tutto vivo! Niente morto!». La serata con il più fantasioso e onirico dei nostri cantautori comincia il 5 dicembre sulla piazza del teatro Civico della Spezia, dove ad attenderci troviamo la mangiatrice di fuoco in tutù e calze a righe bianche e rosse, accompagnata da un giocoliere burlone dai baffetti appuntiti e da una fata dal lungo vestito verde smeraldo che suona un piccolo organetto a manovella…
Divertiti e curiosi entriamo subito nel mondo dei sogni di questo autore cosmopolita quanto la sua musica: nato ad Hannover da genitori irpini, ha vissuto poi a lungo in Emilia, per trasferirsi infine a Milano, nel quartiere della stazione Centrale. Un luogo di partenze e di addii, come lo definisce, nel quale può seguire il filo sottile delle sue visioni ed elaborare le sue giocose illusioni per gli spettatori. Con la sua arte torniamo un po’ tutti bambini per guardare con verità spontanea le dinamiche del mondo. A cominciare dai sentimenti, spesso così misteriosi e indecifrabili, forti come tempeste, ma fuggevoli come piume, per giungere poi ai simboli, ai miti tipici dell’inconscio collettivo di un popolo. Il tutto accompagnato da un gruppo di strumentisti veramente notevoli che uniscono le atmosfere swing al gusto retrò sul genere di Fred Buscaglione e Renato Carosone, mentre alla cultura yiddish di un Moni Ovadia fanno eco le citazioni di cantautori d’oltreoceano come Tom Waits. Come in un quadro di Chagall o di Rousseau il doganiere, il palcoscenico si popola di animali fantastici, anche perché è dicembre e «a dicembre i sagittari impazziscono», afferma Capossela, riferendosi alla propria data di nascita (il 14 di questo mese), ma anche al fatto che l’immaginario natalizio della cultura popolare è spesso abitato da creature improbabili, processioni di maschere che celebrano il ritorno della luce sulla terra.
 
real twins

Prima di tutto, per provocare la «sospensione dell’incredulità» Vinicio evoca «Il gigante e il mago», uno dei pezzi più significativi del suo ultimo cd «Da solo», nel quale racconta come, proprio quando ci si sente abbandonati da tutti, l’incantesimo della poesia ci possa salvare. Il gigante e il mago nascondono probabilmente le personalità del poeta Vincenzo Costantino Chinaski e dello stesso Capossela, raffigurati, in uno dei più significativi disegni dedicati allo spettacolo, come i «real twins», i due veri gemelli siamesi, uniti fantasiosamente in uno stesso corpo. Nel mondo del musicista e del poeta, con l’ausilio di una minuscola tastiera, possiamo inseguire la dolce immagine dei calzini spaiati e del loro paradiso in cui, alla fine, ritroveranno i compagni perduti o forse no, ma non importa perché allora non ci sarà più pena anche «se non sei con me». Una metaforica ninna nanna, per raccontare le domande di sempre: che cos’è l’amore? perché l’amore se ne va? e dove vanno tutti quei sentimenti finiti quando spariscono dalla nostra vita? Si ritroveranno tutti in quel cielo di note di un pianoforte giocattolo, perché, come afferma il cantautore in un’altra sua bellissima canzone, se tutto è nascosto nel cielo, al cielo io ritornerò»
«Posso solo dire di trovarmi d’accordo con Céline, quando diceva che l’emozione è tutto nella vita e quando siete morti è finita» Anche per Capossela, come per Celine la parola deve essere soprattutto evocativa, con l’intento di suscitare l’adesione alla magia di una sensazione, piuttosto che una comprensione intellettuale. I sentimenti per Capossela sono apparizioni bellissime che però non durano a lungo, contemplate con lo stupore triste dell’attimo in cui si guarda il palloncino della fiera sfuggito ad una manina distratta, allontanarsi lassù nel cielo. Gli uomini e le donne continuano ad intrecciare le loro costole come esseri ciechi che non sanno trovare riposo e infine si lasciano reciprocamente soli sulla «nuda nuda terra a cercare», come accade nella canzone «La faccia della terra», tratta dai «Racconti dell’Ohio» di Sherwood Anderson; una sorta di Spoon River dell’amor perduto dove l’andamento della ballata popolare accompagna l’eterno replicarsi della passione..
L’uomo vivo di Capossela è un coraggioso, perché oggi si vive «In clandestinità» e la libertà fa soprattutto paura. La clandestinità è l’incapacità di mostrarsi per quello che si è pur di fingere un’integrazione sociale e di lasciare tutto come sta. Si cancella la propria personalità, si annullano i desideri o si vivono di nascosto, «nella notte» piuttosto che venire allo scoperto. E’ un’esistenza vissuta da soli, senza dare e senza prendere, come i due protagonisti della canzone Mr. Mall e Mr. Pall (altri due alter ego di Capossela e di Chinaski) che si possono incontrare solo di notte e sognano il giorno in cui potranno vedere finalmente insieme l’alba, perché allora vorrà dire che saranno liberi. Per Capossela, che cita in questo caso lo stesso Chinaski: «Ognuno ha le sue prigioni, ognuno ci convive, ma quando le pareti cominciano a restringersi le facce diventano anonime… il sapore della libertà è la paura, solo chi ha paura della libertà ha il coraggio di inseguirla»

the mighty-
Un tipo di società falsamente aperta al «diverso» è quella americana alla quale Capossela durante il concerto dedica due bellissime canzoni come «Dove siamo rimasti a terra Nutless», ispirata a «C’era una volta in America» di Sergio Leone, e «Vetri appannati d’America» con riferimento alla vita ai margini di molti statunitensi, i quali, pur essendo ben lontani dai modelli di riferimento della società d’oltreoceano, con spirito di appartenenza al loro Paese, accettano anche l’idea di essere messi da parte. Non sono mancati, però, anche pezzi più giocosi come «Tanco del Murazzo» e «Corvo Torvo», eseguito con un eccezionale arrangiamento jazz. A questo punto, il pubblico numerosissimo ha cominciato ad accompagnare prima con il battere delle mani poi anche ballando il ritmo trascinante della musica in un crescendo di entusiasmo. Dopo la parentesi meditativa dell’emozionante «Santissima. dei naufragati», ispirata alle canzoni popolari siciliane dell’Ottocento, che ha chiuso la prima parte, l’atmosfera si è fatta decisamente più circense e ludica, aperta da uno svolazzare di ali di pipistrello nell’«Accolita dei Rancorosi» per entrare poi nel vivo della performance: «Come fosse una galleria di cose straordinarie, come fosse un sideshow di quelli che si trovano ad Austin, dove c’è un imbonitore che ti chiama e ti invita ad entrare nel suo mondo di attrazioni assurde» ha spiegato Capossela, riferendosi al suo recente viaggio negli Stati Uniti.

b2c3ce9366ec3a8201b41661b902d4f1

«Questo, signore e signori, – spiega ancora l’istrionico cantautore – non è uno spettacolo, è una trasfigurazione», un modo per darsi una tregua con la vita, per farci assaltare dall’interno, da noi stessi, nel momento in cui chiudiamo gli occhi. Capossela si presenta allora come uno «storyfaced man», l’uomo con la faccia deturpata di storie. Il palcoscenico si popola degli strani animali dai significati simbolici che vivono nel nostro inconscio: prima la scimmia in gabbia per cantare «Gymnastica» nella versione originale russa del grande cantautore Vladimir Vyssotski, poi, con la stessa maschera interpreta «Marajà»,dedicata, come è noto, a Berlusconi, e non risparmiando battute ironiche sulla politica odierna, come nell’introduzione a «Sante Nicola»: «Prima c’era san Nicola, poi è arrivato Babbo Natale e adesso il suo posto è stato preso dal Presidente del Consiglio». Ulteriore riferimento ironico ai rituali natalizi è l’altra new entry nella scaletta del Solo Show: il classico «Santa Claus is coming to town», nella sua originale traduzione «Santo Nicola è arrivato in città».
Ma le fiabesche processioni del ritorno della luce non si fermano e allora eccolo cantare con la maschera da Minotauro – che deforma in modo oscuro anche la voce – il suo celebre «Ballo di San Vito», indiavolata tarantella dei tarantolati pugliesi e chiara metafora sessuale. Reminiscenza delle maschere comiche della commedia latina e delle cosiddette atellane delle antiche popolazioni italiche.
Nel mondo della magia, però, si possono fare anche brutti incontri come la strega Baba Jaga della tradizione russa, la quale divora tutto ciò che trova, come la morte o l’inferno. Per provare, dunque, ad incantarla ecco un’inedita versione della «Danza degli zufoli» dallo «Schiaccianoci» di Tchaikovskij sulla quale far danzare la sua casa, mentre viene ironicamente ipnotizzata una gallina.

Desideriamo, perciò facciamo incantesimi per ottenere ciò che vogliamo. «Fate attenzione a quel che desiderate – ammonisce Capossela – che poi magari si avvera».
Lo spirito fanciullesco da mago-giocoliere di Vinicio è incontenibile e finisce in qualche modo per prendere il sopravvento, talvolta anche sulle sue stesse canzoni.
Travolto da questo universo sovrabbondante di immagini, personaggi e sollecitazioni diverse, a volte lo spettatore, in particolare nella seconda parte, tende a perdere di vista il messaggio, la funzione della musica, quasi lo scopo stesso dello spettacolo. Si nota uno stacco troppo netto tra prima e seconda parte e forse l’ordine dei pezzi richiederebbe un maggior equilibrio. D’altra parte, era proprio nelle intenzioni dichiarate dell’autore creare una sorta di circo delle attrazioni, ma, certo, questo rende la parte finale dello spettacolo talvolta troppo frammentaria, sacrificando, almeno parzialmente, la musica.

human pignata

Di sicuro, però, le assurde «attrazioni» di Capossela non si dimenticano, perché finiscono per colpire nel profondo, come la Christmas Pignata, variante natalizia dell’Human Pignata, impersonata da un uomo appeso per i piedi ad una corda per mezzo di una specie di camicia di forza, la «pazzo jacket», che rappresenta la costrizione sociale; il malcapitato viene preso a bacchettate da un gruppetto di personaggi bendati e mascherati come una pentolaccia vivente. Le caramelle che escono dalla sua pancia di certo non ci consolano… La scena si svolge mentre Capossela con l’immagine di uno scheletro appoggiata al vestito canta «L’uomo vivo». Per Vinicio, infatti, a dicembre è nato un solo Salvatore, gli altri uomini, invece, sono ancora lì vittime in balia delle loro passioni e delle loro sconfitte. 
Se il rischio di Capossela appare talvolta quello di «citarsi addosso», si resta, comunque, ammirati dal suo estro creativo colto quanto versatile. Come nell’ultimo gioco che ci regala prima del finale, ironizzando sul rituale del Capodanno e sul dovere del divertimento a tutti i costi nella sua «Al veglione»
Capossela ci sorprende con i suoi ritornelli brucianti, con i cappelli da mago creatore di incantesimi, le giacche di lustrini, gli strumenti insoliti e ingegnosi, la voce inconfondibile e le canzoni così difficili da imitare e cantare, perché la loro melodia si regge sulla trama sottile della tela di ragno dei sogni. Solo un piccolo funambolo, figlio della regina delle fate, può salire e scendere quella sua particolare scala musicale senza mai cadere e avventurarsi a passo di danza sul filo teso come seta leggera tra l’artista e il suo pubblico.
 
 

Rossana Cerretti e Marco Sonaglia