“L’amore ond’ardo” – Il fuoco inestinguibile delle passioni nel “Trovatore”

14 04 2009

Trovatore

«Il Trovatore» è la tragedia del fuoco, ovunque divampa in modi diversi, ma sempre feroce e autodistruttivo. Sono i gitani, il signori del fuoco, uomini reietti e fatati, che lo usano per forgiare i metalli, ma anche per le loro magie e le loro vendette. Essi animano mirabilmente le parti corali dell’opera, che sono tra le più belle della produzione verdiana. E’ questa l’altra essenziale caratteristica di questo melodramma «popolare», come dimostrano anche la scena iniziale e le parti dedicate alle schiere dei due eserciti in lotta.
Come in certi canti della Divina Commedia, anche nel libretto di Salvatore Cammarano un’unica immagine simbolica dà forma a tutte le altre. Il fuoco dell’odio e dell’amore, della crudeltà e del dolore, del supplizio finale e della guerra. La fiamma che tutto arde e riduce in cenere.
A evocarlo involontariamente è quella sorta di danza delle streghe intonata da Ferrando all’inizio dell’opera, con un andamento che ricorda un girotondo ritmico e che evoca anche nelle parole la leggenda del fantasma della zingara maledetta, condannata al rogo e di sua figlia, rea di avere per vendetta sacrificato addirittura un bambino, il figlio del conte che ha rapito.
«È credenza che dimori
Ancor nel mondo l’anima perduta
Dell’empia strega, e quando il cielo è nero
In varie forme altrui si mostri.»
Esseri fatati gli zingari, le loro leggi sono diverse da quelle degli altri uomini, così come il loro modo di reagire selvaggio e imprevedibile: la figlia Azucena, in realtà, ha gettato come in stato di trance il proprio figlio nel fuoco al posto del bambino rapito e così si è compiuto lo scambio. Un errore fatale, voluto dalla presenza oscura della madre che sembra assetata di una vendetta esemplare: non le basta vendicarsi prendendo una vita sola per la propria, ma tutta la casa del Conte dovrà cadere nella rovina.
Il cerchio di fuoco si stringe intorno alla famiglia del Conte di Luna a sua insaputa, e la danza si fa sempre più vorticosa e terribile. I due fratelli ignari di essere consanguinei, vivono una violenta e crudele passione amorosa, entrambi per la stessa donna, una passione che è inferiore soltanto al desiderio reciproco di vendetta e di vedere morto l’altro contendente. Si direbbero davvero vittime di un incantesimo maligno.
Le forze oscure dell’oltretomba, ormai uscite allo scoperto, suscitano casi sempre più drammatici: Azucena presunta madre di Manrico, viene riconosciuta da Ferrando e condannata a sua volta al rogo. Manrico, come in ogni tragedia che si rispetti, corre in suo aiuto deciso a liberarla o a vendicarla.
Come sempre accade in questi casi, l’odio divora l’amore e la prima vittima è proprio la dolce e sognatrice Leonora: Manrico la abbandona così all’altare, facile preda del Conte di Luna e dei suoi ricatti. Il Trovatore, infatti, è un uomo coraggioso, ma un pessimo soldato. Guidato più dall’istinto e dalle emozioni che si susseguono frenetiche che dalla ragione e dal realismo, alla fine, viene fatto a sua volta prigioniero. Il Conte di Luna ora più che mai vuole la sua testa, lo ha giurato fin dall’inizio quando ha subito l’affronto più grande: essere scambiato per il Trovatore e poi essere respinto da Leonora, quasi con violenza, senza alcuno scrupolo se non quello dell’amore per il suo rivale. «Un accento proferisti che a morir lo condannò» urla pazzo di dolore, e così sarà, come in un giuramento a se stesso. Non serve, per lui pensare di stare abusando del proprio potere per frenarsi. La sua indomita passione per Leonora sembra fargli dimenticare tutto: dice di vederla come una stella che lo illumina (Il balen del suo sorriso D’una stella vince il raggio!) ma dentro di sé cova un profondo risentimento, pronto a scoppiare.
Sarà proprio il Conte con la sua passione amorosa senza freni e il suo odio contro Manrico a decretare la fine anche della sua stessa famiglia: Leonora per non cadere nelle sue mani si avvelena e il Trovatore subito dopo viene giustiziato. Su tutti domina la figura di Azucena, che gli dei lasciano dormire, di un sonno tutt’altro che provvidenziale – degno di un’opera omerica – quasi non fosse partecipe della vicenda. In realtà è lei l’artefice di tutto, combattuta com’è tra l’affetto che in qualche modo prova per quel figlio non suo e le parole indelebili della madre «Mi vendica!». L’immagine incancellabile del suo supplizio con le chiome ridotte in faville e gli occhi che schizzano dalle orbite la perseguita senza tregua. Alla fine è la vendetta a prevalere e la violenza folle non risparmia neppure l’amore di Leonora e Manrico il quale prima la maledice e poi, ma troppo tardi, si pente: «Insano, ed io quest’angelo osava maledir». Il cerchio di fuoco si stringe intorno ai protagonisti. Alla fine non resta di amore e dolore, di vendetta e odio, di magia e passione che un cumulo di cenere fumante…

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