A SCULPIR QUI COSE DIVINE – Le parole di Michelangelo

30 01 2009


Con tanta servitù, con tanto tedio
e con falsi concetti e gran periglio
dell’alma, a sculpir qui cose divine.

(Michelangelo Buonarroti, Rime 282)

 

Questi versi di Michelangelo ci ricordano il travaglio dell’artista o forse di qualunque uomo che “cerchi”, nel perseguire la visione più alta delle cose e il loro senso profondo. Il pericolo dell’acrobata sull’abisso e del visionario che contempla con gli occhi della mente ciò che la vista da sola non potrà mai scorgere.

 

 

Come già per Piero della Francesca, per Michelangelo la perfetta forma umana è l’immagine di Dio, poiché Cristo è «nuovo Adamo» che riporta l’uomo alla sua dimensione originaria nel giardino dell’Eden, dove il primo essere umano, secondo la tradizione, parlava con tutte le creature viventi, ovvero era unito ad esse, le comprendeva.

Per questo il corpo umano è nudo: perché la verità sacra è «nuda» cioè esprime la perfezione dell’essere nella sua natura originaria.

Analogamente, la Vergine della Pietà di San Pietro non ha più di vent’anni, è più giovane di Cristo stesso, perché la natura originaria dell’essere umano non invecchia, è semplicemente eterna, fa parte del Figlio.

 

Questi concetti sono espressi in modo particolarmente affascinante nell’omelia n. 10 di Sant’Agostino a commento del Vangelo di Giovanni:

Adamo fu come frantumato, e dopo essere stato disperso, viene raccolto e fuso in uno mediante la società e la concordia spirituale. E’ rinnovato in Cristo, il novello Adamo che è venuto per reintegrare in sé l’immagine di Dio. Da Adamo proviene la carne di Cristo, da Adamo il tempio che i Giudei distrussero e che il Signore fece risorgere il terzo giorno…

Pregate senza esitazione, c’è chi ascolta: chi vi ascolta è dentro di voi. Non dovete levare gli occhi verso un determinato monte, non dovete levare lo sguardo alle stelle, al sole, alla luna. Non crediate di essere ascoltati se pregate rivolti al mare: dovete anzi detestare preghiere simili. Purifica piuttosto la stanza del tuo cuore; dovunque tu sia, dovunque tu preghi, è dentro di te colui che ti ascolta, dentro nel segreto, che il salmista chiama “seno” dicendo: La mia preghiera si ripercuoteva nel mio seno (Sal 34, 13). Colui che ti ascolta non è fuori di te. Non andare lontano, non levarti in alto come se tu dovessi raggiungerlo con le mani. Più t’innalzi, più rischi di cadere; se ti umili, egli ti si avvicinerà Questo è il Signore Dio nostro, Verbo di Dio, Verbo fatto carne, Figlio del Padre, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, eccelso come Creatore e umile come Redentore; che ha camminato tra gli uomini, sopportando la debolezza umana, tenendo nascosta la potenza divina.»

Il commento musicale poteva essere soltanto un madrigale di Claudio Monteverdi:

 

Si dolce è ’l tormento
Ch’in seno mi sta,
Ch’io vivo contento
Per cruda beltà.
Nel ciel di bellezza
S’accreschi fierezza
Et manchi pietà:
Che sempre qual scoglio
All’onda d’orgoglio
Mia fede sarà.

II
La speme fallace
Rivolgam’ il piè.
Diletto ne pace
Non scendano a me.
E l’empia ch’adoro
Mi nieghi ristoro
Di buona mercè:
Tra doglia infinita,
Tra speme tradita
Vivrà la mia fè

III
Se fiamma d’amore
Già mai non sentì
Quel riggido core
Ch’il cor mi rapì,
Se nega pietate
La cruda beltate
Che l’alma invaghì:
Ben fia che dolente,
Pentita e languente
Sospirimi un dì.

 



L’IMMAGINE DELL’UNIVERSO – Un mandala indiano

29 01 2009

sriChakra1

Il mandala di Srichakra è la rappresentazione della potenza motrice dell’universo cioè della Shakti. L’immagine è formata da cinque triangoli isosceli con le punte rivolte verso il basso e da quattro triangoli con le punte rivolte verso l’alto (rappresentanti il Padre – Shiva) che stanno ad indicare nel loro intersecarsi il rifrangersi della potenza primigenia.
Al centro si trova il bindu, la cosiddetta goccia matrice dell’universo.

Talvolta questa immagine geometrica del cosmo si trova raffigurata sulla testa di Shiva in meditazione contenuta in un cerchio di luce.



VIDE COR MEUM – L’amorosa passione di Dante

28 01 2009

Questa sera  vi dedico una canzone di Patrick Cassidy ancora ispirata a Dante, in veste di giovane poeta acceso dall’amorosa passione. In particolare fa riferimento al sonetto "A ciascun’alma presa" nel capitolo III della Vita Nuova, quando egli vede in sogno Amore che porge il suo cuore a Beatrice perché se ne cibi…

Le voci: Danielle de Niese e Bruno Lazzaretti.
Esecuzione: Lyndhurst Orchestra, diretta da Gavin Greenaway.

Coro: E pensando di lei
Mi sopragiunse uno soave sonno

Ego dominus tuus
Vide cor tuum
E d’esto core ardendo
Cor tuum
(Coro: Lei paventosa)
Umilmente pascea.
Appreso gir lo ne vedea piangendo.

La letizia si convertia
In amarissimo pianto

Io sono in pace
Cor meum
Io sono in pace
Vide cor meum

"E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus». Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggermente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole:«Vide cor tuum». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato…

E cominciai allora questo sonetto:

A ciascun’alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescriva in su’ parvente,
salute in lor segnor, ciò è Amore.

Già eran quasi che atterzate l’ore
del tempo che onne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.

Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le bracci’ avea
madonna, involta ’n un drappo dormendo;

poi la svegliava, d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo."

 (Vita Nuova III)

 

 



FACENDO RISUONARE LA MUSICA DIVINA

26 01 2009

sadupashupatinath

 

E il sadu del tempio di Pashupatinath disse:
 
«Dimentica te stesso perché tu possa essere ricolmo,
sprofonda nel vuoto per poter essere tutto.
Molti temono la meditazione
affacciata sull’abisso
della natura del dharma,
ma tu siedi in profonda concentrazione
finché non conoscerai che la mente crea il sé.
La mente crea le sue illusioni.
 
Tu non temere, diventa una canna cava:
allora le labbra divine si accosteranno a te
e soffieranno il loro respiro.
Così risuonerai della loro musica
che tutti gli esseri potranno ascoltare,
accompagnandoli sul sentiero.
 
Se così farai,
anche nel dolore
saprai riconoscere
lo schermo di Maya
e lo solleverai.»
 
Gate gate paragate parasamgate bodhi svaha
 


LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO – La storia di una rivelazione in due dipinti del Caravaggio

25 01 2009

"Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; 7 caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 8 Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. 9 Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. 10 Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. 11 E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco." (Atti 22,6-11)

Il 25 gennaio nella liturgia è ricordata la Conversione di san Paolo, ed istintivamente quando penso alla luce che rese Paolo cieco per tre giorni, nella mia mente l’evento è "fotografato" attraverso due meravigliosi quadri del Caravaggio uno più giovanile, di proprietà dei principi Odescalchi,  e l’altro, famosissimo, conservato in Santa Maria del Popolo.  La luce caravaggesca crea un evento di eccezionale forza pittorica, ma anche mistica. Mi ha sempre affascinato la figura di questo santo, uomo coltissimo, come si capisce dalle sue lettere, e sicuramente di classe sociale elevata, essendo cittadino romano, il quale proveniva da uno dei principali centri di irradiazione del mitraismo ed era profondo conoscitore della sua religione e delle Scritture. Naturalmente, l’episodio della chiamata doveva aver impresso un marchio indelebile nella mente di Paolo, tanto che negli Atti degli Apostoli esso viene raccontato per ben tre volte: una dal narratore e due dal protagonista stesso; inoltre, proprio in virtù di questa visione egli si considerò anche l’ultimo testimone oculare della resurrezione di Cristo (1Cor. 15,18). Mi sono sempre chiesta che cosa abbia letto Dio in quel suo irriducibile nemico che egli stesso non scorgeva in sé e forse la risposta sta proprio in questi dipinti del Caravaggio.
Forse era il desiderio profondo di cercare proprio Colui che stava combattendo…

Conversione di San Paolo Odescalchi

In questo primo dipinto il Caravaggio appare più attento a tutti i dettagli descritti dalla testimonianza di Paolo il quale si copre il volto per via della luce fortissima e sembra più che altro spaventato; nel secondo, invece, il rapporto cambia, e Saulo, non sa, non vuole proteggersi, può solo accogliere il divino, aprire le braccia e come un calice diventare vuoto per ricevere la luce. Così Caravaggio esprime l’adesione senza riserve, la resa tipica dei veri, autentici convertiti, i quali, talvolta dopo una lunga lotta, da Saulo (come l’antico re d’Israele) diventano Paolo (il piccolo) colui che deve essere guidato perché è cieco.

la_conversione_di_san_paolo

In questo dipinto il protagonista, però, è più isolato, perchè nessuno sembra accorgersi dell’evento: non il servitore che lo accompagna né tantomeno il cavallo che occupa la parte alta della scena. In questo suo viaggio verso Cristo, sembra volerci dire l’autore, il santo sarà spesso solo, posto di fronte a persone indifferenti o chiuse a qualunque messaggio, capaci di avere la luce davanti occhi, ma di non vederla neppure. I veri ciechi, insomma.

Conversione di San Paolo (Santa Maria del Popolo)

LE ALTRE APPARIZIONI DI CRISTO A PAOLO

Cristo apparve a Paolo in altri momenti fondamentali della sua vita, come per esempio, subito dopo il suo battesimo, quando descrive di essere stato addirittura rapito in estasi nel tempio di Gerusalemme e quando dovette fare i conti con il proprio passato, cioè nella sua disputa con i farisei ai quali apparteneva la sua famiglia.

A Gerusalemme subito dopo aver ricevuto il battesimo:
"17Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi 18e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. 19E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nella sinagoga quelli che credevano in te; 20quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. 21Allora mi disse: Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani". (Atti 22,17)

A Corinto:

9E una notte in visione il Signore disse a Paolo: "Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, 10perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città". 11Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di Dio. (Atti 18,9)

E di nuovo a Gerusalemme dopo aver disputato con i sadducei e i farisei (di cui egli stesso aveva fatto parte):

6Paolo sapeva che nel sinedrio una parte era di sadducei e una parte di farisei; disse a gran voce: "Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti". 7Appena egli ebbe detto ciò, scoppiò una disputa tra i farisei e i sadducei e l’assemblea si divise. 8I sadducei infatti affermano che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei invece professano tutte queste cose. 9Ne nacque allora un grande clamore e alcuni scribi del partito dei farisei, alzatisi in piedi, protestavano dicendo: "Non troviamo nulla di male in quest’uomo. E se uno spirito o un angelo gli avesse parlato davvero?". 10La disputa si accese a tal punto che il tribuno, temendo che Paolo venisse linciato da costoro, ordinò che scendesse la truppa a portarlo via di mezzo a loro e ricondurlo nella fortezza. 11La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: "Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma". (Atti 23,11)



ANCORA DANTE – Dante’s Prayer by Loreena McKennitt

24 01 2009

Visto che in questi giorni a teatro tutti fanno riferimento a Dante, ecco come Loreena McKennitt interpreta il viaggio del più famoso pellegrino dell’aldilà…
Un brano di vera poesia.

La preghiera di Dante

Quando la selva oscura piombò dinanzi a me
e tutti i sentieri furono smarriti,
quando i preti dell’orgoglio dicono che non c’è altra via
ho solcato dolori di pietra.

Io non avevo credevo perché non potevo vedere,
sebbene tu fossi venuto da me nella notte:
quando l’alba sembrava perduta per sempre,
mi mostrasti il tuo amore nella luce delle stelle.

Stendi i tuoi occhi sull’oceano
stendi la tua anima sul mare,
quando la notte oscura sembra senza fine
ti prego, ricordati di me.

Quindi la montagna si innalzò davanti a me
attraverso il profondo pozzo del desiderio
dalla fontana del perdono
oltre il ghiaccio e il fuoco.

Stendi i tuoi occhi sull’oceano
stendi la tua anima sul mare,
quando la notte oscura sembra senza fine
ti prego, ricordati di me.

Per quanto condividiamo questo umile sentiero, siamo soli
che fragilità è nel cuore,
oh dai a questi piedi di argilla ali per volare,
per toccare il volto delle stelle.

Instilla vita in questo debole cuore,
solleva questo mortale velo di paura
prendi queste speranze sbriciolate, impresse di lacrime
ci innalzeremo oltre queste preoccupazioni mortali.

Stendi i tuoi occhi sull’oceano
stendi la tua anima sul mare,
quando la notte oscura sembra senza fine
ti prego, ricordati di me,
ti prego ricordati di me…

 

When the dark wood fell before me
And all the paths were overgrown
When the priests of pride say there is no other way
I tilled the sorrows of stone

I did not believe because I could not see
Though you came to me in the night
When the dawn seemed forever lost
You showed me your love in the light of the stars

Chorus:
Cast your eyes on the ocean
Cast your soul to the sea
When the dark night seems endless
Please remember me

Then the mountain rose before me
By the deep well of desire
From the fountain of forgiveness
Beyond the ice and the fire

Chorus
Cast your eyes on the ocean
Cast your soul to the sea
When the dark night seems endless
Please remember me

Though we share this humble path, alone
How fragile is the heart
Oh give these clay feet wings to fly
To touch the face of the stars

Breathe life into this feeble heart
Lift this mortal veil of fear
Take these crumbled hopes, etched with tears
We’ll rise above these earthly cares

Chorus

Please remember me
Please remember me…

 



MOBY DICK TRA DANTE E AMLETO – Antonio Latella e Giorgio Albertazzi reinterpretano il capolavoro di Herman Melville

22 01 2009

Latella Moby DyckIn questi giorni, Giorgio Albertazzi con la compagnia del regista Antonio Latella presenta al Teatro Sociale di Brescia la rivisitazione teatrale di "Moby Dick" di Herman Melville. Un’opera in cui si respira il senso profondo del misurarsi con la Natura e con il mistero dell’Essere.

La balena li osserva, sotto il pelo dell’acqua, nei loro gesti muti, sempre uguali, sente ogni tanto l’eco frastornato di qualche parola, che si allunga e rimbomba; la balena guarda gli uomini e non li capisce, sa soltanto che vogliono la sua morte, è un animale braccato e solo nel suo mondo muto fatto di gesti e suoni sordi, assorbiti dall’acqua.
Dall’altra parte, sulle lance ci sono gli uomini presi dalla loro forsennata frenesia di correre dietro all’ignoto: non sarebbero uomini se non lo facessero, ma l’ignoto ha un prezzo, ammalarsi di esso, sognare il suo orrore e non potersene più staccare.
Che cosa si cerca in mare? Nell’oceano c’è solo mare e orizzonte, come si può vedere anche dalla terra.
E allora, che cosa si cerca? Il pericolo, la precarietà, la possibilità di misurarsi con forze soverchianti, molto più potenti di noi e con gli abissi, della natura e delle sue leggi, le profondità imperscrutabili di Dio e, soprattutto, di noi stessi e dei nostri demoni.
Antonio Latella ha creato il suo Moby Dick con un’impronta fortemente filosofica e metafisica: l
a scena è evocativa, costituita da uno scheletro in legno che si trasforma, diventando un po’ una nave, un po’ un cimitero, soprattutto un teatro. Al centro di essa si trova una fossa marina, una "fossa fuia" dove chi cade, anche se riemerge, tornando nel mondo dei vivi, non potrà mai più essere come prima.
Si dicono molte parole, per scoprire che la parola è insufficiente ad esprimere il destino umano e così il dantesco "Infin che il mar fu sopra noi richiuso" viene mimato all’unisono dagli attori sulla scena con il linguaggio dei sordomuti. Esso rappresenta l’unico linguaggio che forse la balena potrebbe capire ed anche come essa dalle profondità del mare ci vede: con i gesti sempre uguali dell’uomo in caccia.
Ognuno ha la sua visione della vita sul Pequod ma tutti sono accomunati dallo stesso destino.
Si leggono tutti i libri per gettare via tutti i libri, strappati pagina dopo pagina, perchè fatti di parole che non esauriscono il mistero: non bastano la fede, la Bibbia, la storia di Giona inghiottito dalla balena e restituito alla terra, per esorcizzare l’attrazione e l’orrore; non bastano i filosofi come Kant o Locke, non basta neppure Dante per descrivere il mostro ignoto, anche se di tutti il grande pellegrino dell’oltretomba è quello che più vi si è avvicinato.
Moby Dick è il viaggio dell’uomo nei suoi inferi, l’orrore del Maelstrom già evocato da Edgar Allan Poe e allo stesso tempo è la potenza che attrae e imprigiona, fino a desiderarla spasmodicamente: la propria morte, la propria fine, l’annullamento.
E’ l’orrore dell’Ade, di ciò che rende pazzi una volta guardato come per il personaggio di Elia Pip, nel ricordo del mito di Orfeo, oppure è solo un’ombra un fantasma e Moby Dyck semplicemente non esiste: è soltanto la pelle di una balena scuoiata che galleggia sul mare come una forma vuota, ma che tutti prendono per uno scoglio affiorante, per un insidia nascosta oppure per la mitica balena bianca, il capodoglio inafferabile, che non si cattura mai, ma è ovunque nello stesso momento.
L’ossessione umana del mostruoso Leviatano che tutti inghiottirà è espressa dai molteplici nomi dalle etimologie che fanno sembrare la balena un essere soprannaturale a cui carpire il segreto della vita e con cui misurarsi, bellissima sovrumana, crudele, libera, inafferabile.
La balena è lo spettro delle altre uccise, la vendicatrice solitaria, la forma bianca dell’orrore della coscienza.
Per questo, ad un certo punto, affiora nel testo la presenza di Amleto perché Moby Dick è la coscienza lacerata dell’uomo moderno alla quale non basta il viaggio di Dante, ma può essere espressa solo nella problematicità di Shakespeare, nelle domande che riflettono altre domande, perché niente potrà carpire all’esistenza le sua magnifica e orrifica bellezza, la sua crudele meraviglia che ci sospinge oltre i limiti e ci sfida a superarli, nonostante ciò significhi morte certa.
Noi tutti siamo il capitano Achab a partire dalla figura di Ulisse, cerchiamo nel labirinto marino la risposta dell’essere, ma, di fatto, cerchiamo qualcosa che ci ucciderà prima che lo possiamo comprendere: come nell’Ulisse dantesco e in quello pascoliano, ogni volta il messaggio, la verità, restano indecifrabili e l’uomo anche solo per avvicinarvisi deve accettare la morte inevitabile, e comunque, la risposta non verrà. Perché la realtà è quello che è, muta, come la balena, parla solo attraverso il sangue, i vapori, la pelle, i richiami dai suoni lunghi come sirene.
Il Pequod è la nave della società umana, dove ognuno di fronte alla terribile verità sulla natura del cosmo, della violenza insita in essa e nelle sue leggi, assume un atteggiamento differente: c’è chi, come Ismaele, cioè Melville stesso, scriverà di essa anche senza capirla e sarà l’unico sopravvissuto per poterlo raccontare. Poi ci sono i balenieri di professione, quelli che fanno questo mestiere per soldi o per passione, ma sempre con vere motivazioni che restano sottintese, perché chiunque sulla nave del capitano Achab è stato di fatto coinvolto nel suo giuramento.

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La sua caccia è una ricerca delle ragioni ultime dell’essere e del mondo a prezzo degli affetti, della patria, e della stessa vita. Per Latella, Achab sopravvive allo scontro con Moby Dick, perché diventa lui stesso quella balena per poi scoprire, dopo tante battaglie e tante ricerche che la cosa più difficile è sempre il senso dell’uomo, perché tutto è racchiuso in un semplice occhio umano. "Fammi guardare in un occhio umano", dice ad Ismaele, fissandolo e ordinandogli poi di sopravvivere, di continuare a guardare il bianco dell’orrore per poter raccontare la loro storia, cioè la storia degli uomini.
Due ore di autentico, grande teatro con la compagnia di Antonio Latella, formata da attori veramente notevoli per l’affiatamento nelle scene corali, l’uso del canto e della gestualità, la versatilità nella recitazione, l’attenzione alla parola. Con la loro sola presenza scenica danno vita ad una interpretazione rarefatta ed intensa nella quale si respirano i grandi spazi oceanici, la loro glaciale meraviglia e la fiamma sotterranea della viva potenza.
Giorgio Albertazzi, forte dei suoi 85 anni, interpreta un Achab ai confini del mondo, che incontrando Moby Dick riconosce i suoi stessi demoni e decide di arrendersi ad essi e finire là dove tutti gli uomini temono e desiderano, il mitico, orribile, «maraviglioso» Leviatano.
Un eccezionale Timothy Martin nel ruolo di Quiqueg restituisce efficacemente il personaggio spirituale e profetico del ramponiere, così consapevole della vita perché perennemente unito alla morte e all’aldilà. I suoi canti spirituali, i suoi «mantra», le sue parole profonde e incomprensibili come formule magiche sono volti ad addomesticare l’esistenza e a carpirne i misteri aderendo ad essi.



LA GENESI DELLA BELLEZZA – Geometria, luce, spazio nel “Battesimo di Cristo” di Piero della Francesca

20 01 2009

Qualche giorno fa mi è capitato di citare il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca a proposito del rapporto tra Oriente ed Occidente nella metà del ‘400 e in particolare tra Chiesa orientale ed occidentale.
Allora i miei alunni, che avevano appena sostenuto una verifica sull’argomento hanno esclamato: «No, non ci si metta anche lei, non ne possiamo più di Piero della Francesca! »
Ma io ho risposto: «Voi non capite il privilegio che avete: mentre molti nel mondo sono sempre costretti a preoccuparsi di come riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, e non potranno conoscere l’arte e la poesia, voi potete godere ogni giorno di tanta bellezza! ».
Chissà che cosa avranno pensato, forse che la profe era impazzita o esaltata, ma io la penso proprio così, non l’ho detto per dire, e adesso vi spiego perché… 

Nell’ambito del Cristianesimo l’episodio del battesimo di Cristo è fondamentale, perché rappresenta «un’investitura» ufficiale da parte di Dio Padre nei confronti del Figlio; durante il rito, si svela poi, la Trinità e quindi uno dei dogmi fondanti della fede cristiana. Inoltre, in questa vicenda si unisce l’antica dottrina e la nuova, l’Antico e il Nuovo Testamento; perciò il gesto del battesimo, praticato all’epoca dagli asceti appartenenti alla setta ebraica degli Esseni, unisce l’ultimo dei profeti con il nuovo messia. Un cambiamento che avviene attraverso l’acqua, come, ad esempio, per il paesaggio del mar Rosso, che rappresenta una nuova fase della storia del popolo ebreo.
In questo quadro si addensano, perciò, significati teologici, religiosi e filosofici di grande importanza, ai quali Piero della Francesca aggiunge anche contenuti legati all’attualità del suo tempo.
All’epoca, infatti, il concilio di Firenze per la riunificazione della Chiesa d’Oriente e d’Occidente aveva discusso sul difficile argomento della Trinità che, come è noto, è ancora oggi uno dei punti discriminanti per quanto riguarda le differenze tra cattolici ed ortodossi. A questo concilio aveva partecipato il teologo Ambrogio Traversi appartenente all’ordine dei camaldolesi che commissionò la pala a Piero della Francesca nel 1448. Così nel quadro c’è un’allusione a tale importante concilio attraverso la presenza di personaggi in costumi orientali visibili sullo sfondo e nell’immagine, atipica per il mondo occidentale, dei tre angeli che assistono all’evento, i quali si riferiscono alla cosiddetta «antica trinità» venerata soprattutto in Oriente.
Si sperava allora in una riunificazione delle due Chiese che poi non fu possibile realizzare. L’atteggiamento di Piero in relazione a questa materia così piena di sollecitazioni teologiche e trascendenti, legate a realtà divine eterne è molto interessante: da buon matematico e cultore della geometria la verità per lui è un concetto basato sulla perfezione formale degli elementi.
Ispirato dall’idea che poi ritroveremo nel De divina proportione dell’amico Luca Pacioli, egli trae dalle figure della geometria la legge armonica su cui si basa l’essenza stessa della realtà sulla terra e dei mondi celesti. Così i centri geometrici della composizione sono costituiti da due quadrati sovrapposti nella figura del Cristo, e da un cerchio il cui punto centrale è situato nella colomba dello Spirito Santo. Il centro celeste è lo Spirito Santo, punto focale della discussione del Concilio di Firenze e della sua funzione tra Padre e Figlio (ricordiamo la famosa definizione «procede dal Padre e dal Figlio» mentre per gli ortodossi procederebbe solo dal Padre), mentre il centro della terra è situato nell’ombelico del Cristo intorno a cui tutto ruota. Concetti che ritroviamo anche nei predicatori dell’epoca i quali  vedevano nel Cristo uomo-dio il centro dell’universo. Elemento teologico che per Piero diventa fonte di ispirazione della sua perfetta geometria.
La costruzione di figure geometriche perfette diventa quindi specchio dell’assoluto e in questo senso l’esistente per Piero della Francesca è unicamente realtà dell’Essere, totalmente essenza, tanto che potremmo definire «parmenidea» la sua visione del mondo.
A riprova di ciò notiamo la totale assenza di ombre nella composizione, perché tutto è illuminato in valore assoluto da ogni parte; ogni esistente non riceve luce sensibile o solare, ma una luce cosmica che giunge da qualunque punto e che risulta interna alle figure stesse.
Se questo non bastasse a creare un’opera eccezionale, il nostro Piero, aggiunge anche le altre realtà di fede implicite nell’episodio evangelico e sempre alla sua maniera, ovvero per mezzo della costruzione formale, questa volta ricorrendo alla creazione dello spazio. La profondità spaziale è ottenuta dall’Albero della Vita, che si trova tra il Cristo e gli angeli, e dalla disposizione a semicerchio di questi ultimi. Il fiume Giordano resta dietro, e sebbene ci sia una persona che si sta togliendo le vesti per ricevere a sua volta il battesimo, il Cristo non è immerso nell’acqua, come tradizionalmente avveniva soprattutto nei dipinti bizantini.
Piero nella sua opera intende sottolineare che la novità del Nuovo Testamento ha superato il Vecchio, rappresentato dagli angeli e dal Giordano, ma la rivelazione vetero-testamentaria ne è la base irrinunciabile, poiché crea lo spazio in cui agirà il Nuovo.
Inoltre, l’Albero della Vita al centro, secondo il Physiologus, sarebbe il peridexion l’albero indiano dove i colombi si posano, ma al quale il drago (serpente) non si può avvicinare (in antitesi all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male nel giardino dell’Eden). Esso protegge dal drago i colombi che vivono nella sua ombra, inoltre quando l’ombra dell’albero è proiettata verso Occidente, il drago fugge ad Oriente, quando invece è proiettata verso Oriente, esso fugge ad Occidente, elemento che potrebbe spiegare l’assenza di ombre nel quadro: il drago, cioè, è fuggito da Oriente e da Occidente, con la pacificazione delle due Chiese. “Il frutto celeste dell’albero è la saggezza dello Spirito Santo ricevuto dall’uomo coi sacramenti”, recita il Physiologus, identificando così l’albero stesso con la funzione della Chiesa.
Sullo sfondo, poi, i personaggi con un vesti e copricapi orientali, alluderebbero, secondo le interpretazioni più recenti, alla presenza in quel concilio dell’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo e di alte personalità della Chiesa d’Oriente.
La presenza che unisce tutte queste realtà, cioè Antico e Nuovo Testamento e i due Patriarchi di Roma e di Costantinopoli è una sola: Cristo, la cui verità viene mostrata nella perfetta integrità del suo corpo, elemento fisico e metafisico insieme.
In questa visione perfetta ogni elemento risulta fondamentale, come la presenza dei tre angeli che ricorda, come abbiamo detto, la definizione vetero-testamentaria della Trinità (i tre angeli che si recano da Abramo e Sara) ripresi poi i molti dipinti orientali (ricordiamo quello famosissimo di Rubliev) e allude al dogma in senso dottrinale, ma anche cosmico.
I tre angeli si tengono per mano, ad indicare che ognuna delle persone nella Trinità effettua un mutuo scambio con le altre senza alcuna gerarchia. Suggerisce, inoltre, l’idea di una superiore concordia ed armonia (come nell’immagine pagana delle Grazie) su cui si basa l’universo creato, immagine impressa nell’essenza divina.
A riguardo possiamo far riferimento anche a Dante, il quale nell’ultimo canto del Paradiso scorge all’interno della mente di Dio proprio una forma geometrica perfetta, unione di tutte le geometrie fisiche e metafisiche.
Inoltre la mancanza di ombre appare come un ulteriore omaggio all’arte bizantina, poiché in essa, si tratti di affreschi o di icone, la luce è sempre «divina», mai basata sui dati sensibili. La luce di Piero, però, è quella di un uomo del Rinascimento, del tutto convinto che il cosmo rifletta in ogni suo elemento la Sapienza: le cose non appaiono smaterializzate, ma colte secondo un potenziamento dei sensi, evidenziate con la massima chiarezza possibile.
Così Piero della Francesca diventa il geniale interprete della natura divina del cosmo quale frutto della mente trinitaria  che si manifesta tanto nella fragile apparenza del filo d’erba quanto nella metafisica verità della sezione aurea.
 


LA STRAORDINARIA MODERNITA’ DELL’ARIOSTO – Note a margine dell’Orlando Furioso

19 01 2009
Presunto ritratto di Ludovico Ariosto di Tiziano
Visto che siamo in argomento con il Don Chisciotte, resto in ambito cavalleresco, perché anche di recente la lettura dell’Orlando Furioso mi ha suggerito diverse considerazioni sulla sua attualità.
Mi ha sempre colpito la capacità del poeta ferrarese di osservare il mondo con il disincanto, il distacco e la superiore saggezza degni di un filosofo antico. I suoi giudizi sull’uomo e sulla società non sono mai scontati e, soprattutto, dimostrano una notevole tolleranza; un fatto veramente sorprendente, considerando che ci troviamo agli inizi del Cinquecento e che talvolta molti dei suoi punti di vista appaiono progressisti ancora oggi.
Tutto ciò ci spinge a riflettere: non saremmo noi uomini del XXI secolo ad essere tornati indietro a grandi passi?

Ruggiero salva Angelca di Jean_Auguste_Dominique_Ingres
LA TOLLERANZA PER IL DIVERSO
Innanzitutto, si nota la tolleranza e la stima di cui nell’Orlando Furioso godono parecchi i musulmani i quali, lungi dall’essere considerati dei nemici in quanto tali, ricoprono ruoli di grande rilievo nell’opera al punto che alla famiglia estense viene attribuito come antenato Ruggiero che è appunto di religione islamica(e quindi al servizio di Agramante) . E’ vero che nel poema il valoroso cavaliere risulta di origine troiana (con un riferimento quindi alla materia virgiliana) e che si fa battezzare per sposare Bradamante, ma la vicenda potrebbe essere anche letta come un elemento di celebrazione della corte estense, dove convivono Oriente ed Occidente, la nostra cultura con le altre.
Inoltre, un atto di valore tra i più patetici e disinteressati del poema è compiuto da due «mori» – come li definisce il poeta – cioè Cloridano e Medoro. L’episodio, pur basandosi sul IX libro dell’Eneide, presenta delle significative varianti, soprattutto per il fatto che l’uscita dal campo non è dovuta al desiderio di raggiungere Enea né tantomeno di uccidere i nemici in un’imboscata come nel caso di Eurialo e Niso e di portare via il bottino, ma Medoro desidera, invece, dare adeguata sepoltura al proprio re morto in battaglia e rimasto insepolto fuori dal campo
Un atto di valore e di virgiliana pietas che non viene attribuito ai cristiani, bensì ai pagani.
E’ interessante notare anche che poiché il tono dell’opera è quasi sempre leggero, quando l’Ariosto inserisce degli elementi patetici o tragici essi risultano ancora più forti e significativi, colmi di quella malinconia rassegnata e potente, di compianto, che solo i grandi poeti sanno esprimere..
 
Il palazzo di Atlante
L’IMMAGINE DEL NEMICO
Spesso quando si tratta di descrivere un nemico la saggezza dell’Ariosto ci sorprende ancora, smentendo le apparenze: anche l’avversario, visto da vicino, spesso è molto diverso da come potremmo immaginarcelo. Per esempio, nel caso di Atlante: durante il duello con Bradamante la donna guerriera, sorella di Rinaldo, si aspetta, alla fine, di trovare un essere forte, fiero e sprezzante, invece compare un vecchio disperato preoccupato di perdere l’unico bene rimasto nella sua esistenza. Perciò anche il nemico è ben diverso da come lo si dipinge e spesso le sue ragioni sono degne di pietà e rispetto. Tra l’altro, anche i cristiani non sono sempre figure positive o con comportamenti degni della loro fede, come, per esempio, colui che sferra il colpo di lancia contro il povero Medoro. Per non parlare dello stesso Orlando con la sua follia, o, ancora, all’inizio del poema, della puerile diatriba tra Rinaldo e Orlando per il possesso di Angelica, quasi fosse una merce.
 
Bradamante
IL VELATO PACIFISMO
Nel poema si respira un’atmosfera di velato «pacifismo», anche nell’ambientazione: buona parte si svolge in ambito agreste a contatto con la natura. Nella foresta l’uomo può ritornare semplicemente un essere naturale, dimenticando la guerra e le contese, sentirsi semplicemente un essere umano. E’ singolare che questo coincida anche con il pensiero degli Estensi a quel tempo, visto che con l’Addizione Erculea avevano voluto inglobare all’interno delle mura cittadine una cospicua parte della campagna circostante costituendo una città davvero originale dotata ancora oggi di un enorme polmone verde. Vengono in mente, poi, i passatempi cavallereschi di palazzo Schifanoia, sempre a Ferrara, e anche la moda dell’Arcadia che in più di un’occasione sembra di riconoscere, soprattutto quando Angelica si traveste da pastorella, e così abbigliata incontrerà Medoro. Inoltre, il pensiero dell’Ariosto schierato apertamente contro la violenza, è testimoniato anche dall’episodio, sempre nell’Orlando Furioso, dell’archibugio, considerato un’arma infernale, che viene gettato nelle profondità del mare e il poeta commenta: “Mai più si vanti il rio per te valer”.
 
Angelica e Medoro di Sebastiano Ricci
LA «VENDETTA» DI AMORE SU ANGELICA
Inoltre, sempre a proposito dei musulmani, proprio di uno di questi si innamora la donna più ambita, Angelica, cioè di quell’unico uomo sulla terra allora conosciuta che non sa chi lei sia veramente.
L’oggetto del desiderio di tutti sposerà un soldato semplice e pagano. Un’ironia evidente sulla più bella donna del mondo, ma anche il prevalere della convinzione (la quale ovviamente, porta acqua al mulino dell’Ariosto) che non bastino mille qualità e fortune per essere amati, ma a volte sia più importante un cuore generoso.
Del resto la bella principessa del Catai viene vissuta da tutti più come un oggetto del desiderio da possedere che come una persona da amare e per questo sfugge sempre, semplicemente perché l’Angelica che tutti sognano è una donna che non esiste. Quando si sente pressata diventa opportunista, bugiarda e indecifrabile, viscida come un’anguilla, una nuova Elena, insomma. Lo scrittore ferrarese dimostra, perciò, una notevole conoscenza dell’animo femminile che ben poco si lascia addomesticare anche se fa mostra di essere sottomesso.
 
Pazzia di Orlando di Arnold Böcklin
LA FOLLIA DEL MIGLIORE DEGLI UOMINI
Patetica appare, poi, la figura di Orlando, il quale, convinto com’è di essere il migliore, non prende neppure in considerazione l’idea di una sconfitta e quando apprende dell’amore di Angelica per Medoro, prova «il dolor che tutti gli altri passa», non lo accetta, semplicemente non può tollerare che qualcuno possa non essere in suo potere, tantomeno l’amata. L’Ariosto punisce la presunzione di chi, baciato dai doni della fortuna, credendosi il migliore, vuole sempre primeggiare: una sottile vendetta da parte del poeta, per il quale fu così difficile far riconoscere il proprio valore nelle corti in cui si trovò ad operare. E il poeta punisce anche Angelica perché colei che aveva tutti ai suoi piedi, Rinaldo compreso, viene colpita da Amore per mezzo di questo giovane di oscuri natali.
 
Zerbino ferito in duello muore tra le braccia di Isabella di F. Bartolozzi
 
L’AMORE PIAGA E TRAGEDIA
E che dire dell’amore? Le più acute analisi su questo sentimento spesso evanescente e allo stesso tempo fortissimo, le dobbiamo proprio all’Ariosto.
Sia il castello che il palazzo di Atlante sono creati basandosi sull’inganno amoroso e il secondo, soprattutto, è particolarmente simbolico, dal momento che un’unica ombra viene vista da ognuno con le sembianze della persona amata, pur non essendolo affatto. Tutti rincorrono qualcuno che rincorre qualcun altro e così via e quasi mai si cerca la stessa persona, ma in un girotondo senza fine ognuno è sempre innamorato di chi fugge.
Il gioco dell’illusione umana è qui portato alle estreme conseguenze.
E’ lo stesso per le fontane dell’odio e dell’amore, le quali si alternano in modo tale che i due amanti non siano mai innamorati l’uno dell’altra nello stesso momento.
Struggenti sono alcune storie d’amore come quella di Isabella e Zerbino, tanto da ricordare alcune novelle del Decamerone, per la tragicità degli eventi. Zerbino è ucciso da Matricardo e spira tra le braccia di Isabella, la quale, poi, a sua volta sarà uccisa da Rodomonte, uno dei «cattivi» della storia…
Anche la vicenda di Brandimarte ferito mortalmente da Gradasso e di Fiordiligi che si fa seppellire viva con lui, sembra uscita dalla quarta giornata del Decamerone, per la forza della passione che porta alla rovina.
Un altro tipo di amore, quello tra un padre e un figlio, sia pure adottivo, risulta così struggente che il mago Atlante muore di crepacuore per la perdita di Ruggiero.
 
Astolfo sulla Luna alla ricerca del senno di Orlando di G. Doré
LA LUNA DELLE ILLUSIONI
E veniamo alla luna, tema sempre caro all’Ariosto e che qui torna con maggiore forza: se già nelle Satire era il simbolo dell’illusione, nel Furioso è il luogo dove finiscono tutte le umane vanità e passioni, le adulazioni, le lusinghe femminili, i favori dei potenti.
L’unica cosa che gli uomini dovrebbero tenere con loro e che invece viene dimenticata lì è la saggezza, la quale finisce sulla luna perché labile, come tutte le cose che gli uomini facilmente perdono dopo averle acquistate. Anche il senno va insieme ai pensieri e agli acquisti fallaci degli uomini, perché è malsicuro e negletto: gli uomini non si curano affatto di dove sia né di perderlo per correre dietro a qualunque sciocchezza.
Anche Astolfo, dopo aver preso l’ampolla di Orlando e anche la propria, la perderà nuovamente nei Cinque canti che l’Ariosto scriverà in seguito (oggi inseriti in appendice al poema) e naturalmente sempre per ragioni di carattere amoroso.
In effetti, questo riferimento alla follia d’amore è ben presente nell’opera del poeta ferrarese se pensiamo che anche fin dall’inizio al posto della Musa egli evoca la sua donna dicendo che scriverà se la passione per lei, che l’ha fatto quasi uscire di senno, glielo consentirà.
Si noti, tra l’altro, che l’immagine dell’ampolla contenente il senno, potrebbe essere intesa come una velata critica agli alchimisti e alla loro pretesa di giungere ad una superiore conoscenza del mondo attraverso l’unione degli elementi lunari e solari per ottenere la pietra filosofale. Un’idea che non coinvolgeva solo la pratica della reazione degli elementi tra loro, ma aveva la pretesa di basarsi su un vero e proprio sistema filosofico. Possiamo quindi immaginare il sorriso disincanto dell’Ariosto a riguardo.
ruota della fortuna
IL LABIRINTO DELLA VITA
Tutto l’Orlando Furioso è costruito come un labirinto del caso, dove talvolta incontri e scontri si susseguono involontariamente. Tutto diventa imprevedibile, e tutto ciò che oggi per noi è assolutamente certo, domani scorrerà via con il tempo. Spesso l’itinerario dell’uomo si riduce ad un vagare senza meta per tornare dove era partito. Come nell’esemplare caso di Ferraù all’inizio del poema, il quale vagando per la foresta si ritrova nella stessa radura da dove era partito. Ancora una volta, per l’Ariosto, la vita dell’universo e quindi dell’uomo è circolare e torna sempre al suo inizio, come la ruota di Fortuna la cui immagine così spesso domina nel poema… 


FRANCO BRANCIAROLI E’ DON CHISCIOTTE – La performance del teatro tra Carmelo Bene e Gassman

17 01 2009
  
E adesso che il palco della vita si chiuda!
No, aspettate, permettetemi di raccontarvi ancora un’ultima storia…
 
Alla domanda a proposito del perché fa teatro Branciaroli ha risposto: «Mi verrebbe da dire "Per me stesso": a volte come un sado-masochista salgo sulla scena garantendo professionalità e qualità anche quando ci sono solo venti persone…»
In realtà, almeno da «Finale di partita» in poi, i suoi spettacoli fanno registrare il tutto esaurito, ma la sua risposta investe ugualmente il significato ultimo del suo essere attore ovvero uomo…

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 Una scena del Don Chisciotte

Il progetto di una vita di Franco Branciaroli è finalmente diventato realtà: per una stagione essere Don Chisciotte e Sancho Panza, ovvero la finzione stessa del teatro e la sua verità, essere la sintesi e l’immagine scanzonata di due mostri sacri della prosa italiana della seconda metà del Novecento, Vittorio Gassman e Carmelo Bene. I due mattatori della scena sono interpretati attraverso l’amore tipico di Branciaroli per i profondi significati del teatro classico reinventato con la fantasia, il travestimento e il puro divertimento della recitazione. Dietro un sipario barocco sempre semiaperto, campeggia il bancone di un bar ingombro di bottiglie di superalcolici, forse un’ironia sull’unico spirito dionisiaco rimasto oggi al teatro contemporaneo? Probabilmente sì, ma anche il ricordo delle debolezze dei due grandi miti del nostro teatro. Alcool e sigarette in quantità ad indicare i due poli opposti sui quali si muove spesso il genio, tra altezze e cadute. 
Il gioco della vita si svela sul palcoscenico nella sua complessa e meravigliosa vacuità che rende sempre uniche le opere, rivisitate e interpretate. dall’attore prediletto da Giovanni Testori.
Ieri sera Branciaroli è stato solo il teatro, il suo teatro, la sua carriera e gli spettacoli degli ultimi anni, riassunti sulla scena, con le loro domande sulla verità, l’identità e l’amore, con la forza che solo lui, come essere umano interrogante e pericolosamente in bilico sul nulla, può esprimere.
Uomo tipicamente moderno, drammaticamente affacciato sul labirinto, eppure pensante, in costante ricerca delle ragioni dell’essere e del non essere, dell’atto costitutivo dell’umanità. Ciò è possibile sul palcoscenico quando l’atto della suprema finzione incontra la contraffazione letteraria ovvero Don Chisciotte: il folle della piccola nobiltà, ormai cinquantenne in disarmo che cerca nei libri le risposte alla sua stessa esistenza. Cerca, don Chisciada, di diventare Don Chisciotte della Mancia, cerca uno specchio in cui riconoscersi, qualcuno da imitare per diventare eroico in un mondo di piccoli savi mediocri.
Tra Cartesio e Cervantes Branciaroli non ha dubbi e sceglie Cervantes cioè l’uomo nel labirinto della propria umanità, della propria natura onirica: «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», afferma il contemporaneo Shakespeare che morì lo stesso giorno del grande scrittore spagnolo.
Così il personaggio di Don Chisciotte per Branciaroli è colui che ha voluto provare la «verità» della letteratura.
Un viaggiatore della coscienza, dove con l’immaginazione si può costruire un mondo nobile anche in una realtà ignobile. Ora la letteratura guida gli uomini, creando il libro nel libro: cioè una vita di imitazione che è sua volta scritta e narrata, ancora prima che essa si realizzi. Da questo momento non sarà solo la natura a decidere il fato umano, ma anche il romanzo a raccontarne il destino prima ancora della sua conclusione.
Ora sarà la letteratura ad attribuire scopi ed identità. L’identità che viene dal passato: Don Chisciotte si propone di essere un nuovo Amadigi che egli imita come può, alla meglio, come in tutte le epoche di crisi.
Così Branciaroli imita i due grandi ed eterni mattatori del passato, Gassman e Bene, facendo loro il verso, ma allo scopo di celebrare la grandezza del teatro in tutte le sue forme. I due opposti, si rivelano, in realtà, le facce della stessa medaglia, si affrontano in singolar tenzone nella lettura del V canto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca, per intenderci, creando momenti di intensa e spassosissima performance.
La novità del romanzo di Cervantes è uno spazio vuoto, lo spazio vuoto e labirintico della coscienza moderna, la contraffazione della contraffazione. Che cosa è vero e cosa falso nella realtà tra pubblico e narratore tra personaggio ed autore? E’ una lotta tra la follia e la realtà, dove l’unica verità umana che vale è la prima a discapito della seconda.
Le eterne questioni sull’uomo dal Caligola di Camus al Beckett della dureriana Melanconia di Finale di partita, al Galileo di Brecht, riemergono tutte qui, come la domanda diretta sulla quale Branciaroli ha costruito un intero spettacolo scritto da lui stesso: «Cos’è l’amore?». L’amore vagheggiato per ciò che non si conosce come Madonna Dulcinea, che non si sa, come la «cara beltà» del Leopardi in un famoso idillio. Qualcuno che si vagheggia e si sogna, qualcuno che è ben più alto di qualsiasi donna comune e di cui ci si può innamorare perdutamente perché ci si innamora, nel senso più nobile, dell’amore stesso e del significato profondo di essere uomini.
Franco Branciaroli è riuscito a celebrare l’essenza del teatro: l’imitazione e il richiamo al passato uniti al reinventarsi continuamente nel presente. Nella sua istrionica interpretazione il gusto per l’imitazione vocale, la ricerca di rendere una forma assolutamente contraffatta e a sua volta manieristica come quella di Bene o di Gassman, fa sì che la meditazione e il messaggio risultino ancora più evidenti e forti.
I contenuti risaltano nitidi e intatti, rigenerati dall’invenzione e dalla sua stessa forza e contraffazione astratta.
La mancanza di naturalismo nella recitazione, tipica già del suo rapporto con Testori, diviene qui veicolo privilegiato della riflessione filosofica che non si attua in termini seri e paludati, ma attraverso il travestimento, l’ambivalenza carnevalesca, la finzione-verità.
Il suo teatro parla di noi così come il Don Chisciotte del quale non si può portare in scena la morte, né la negazione della cavalleria, perché egli è l’attore e l’attore starà sempre sul palcoscenico.
Il mito del teatro non può mettere in scena l’anticipazione della propria scomparsa, perché è già archetipo, basato sulla lucida follia di rintracciare nella finzione la verità, nell’indagine letteraria i semi della realtà e della coscienza esemplare.
Per questo il sipario non scende mai del tutto, neppure alla fine.
Per consultare le fonti degli episodi citati nel "Don Chisciotte" di Branciaroli potete consultare questa pagina: http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/Fontidonchisciotte.htm