Fidelio: un messaggio agli uomini di ogni tempo

8 01 2012

La grande musica di Beethoven ci parla di diritti umani, libertà e fratellanza come basi autentiche della convivenza civile

«Di tutte le mie creature, il “Fidelio” è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte».


A conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, il Teatro Regio di Torino ha aperto la stagione 2012 riproponendo, con un nuovo allestimento, il Fidelio di Ludwig van Beethoven. Un’opera ancora modernissima, che va oltre le epoche storiche restando sempre attuale, ed è forse questa la ragione per la quale ai tempi in cui fu composta, tra il 1803 e il 1814, non fu compresa, ma restò un unicum nel panorama della lirica ottocentesca e per giunta sempre gravata dallo spettro dell’insuccesso. “Fidelio” è paragonabile alle opere di Mazzini, Rousseau o Beccaria, troppo avanzate per la loro epoca e ancora oggi capaci di porre fondamentali domande sul rapporto Stato- società civile, sull’applicazione dei diritti umani in generale, e, tema oggi di stretta attualità, sui diritti anche di coloro che sono colpiti da provvedimenti giudiziari e privati della libertà personale. In altre parole, sulla condizione nelle carceri. Al centro della vicenda c’è, infatti, la drammatica situazione di un prigioniero, Florestan, incarcerato ingiustamente, per aver denunciato i crimini di un funzionario del regime. Gettato in una cella di isolamento senza processo, la sua storia ricorda i tanti casi di desaparecidos delle dittature dei nostri giorni. L’opera, però, mette in discussione anche la condizione del sistema carcerario nel suo complesso, l’orribile sensazione del buio da cui sono oppressi i prigionieri e che ci ha ricordato per il senso di claustrofobia, un celebre dipinto di van Gogh, (attualmente a Brera nell’ambito della mostra dedicata al Museo Puškin di Mosca), dove in un pozzo profondissimo e stretto si vedono girare in tondo i carcerati nell’”ora d’aria”. Tornano alla mente le orribili visioni del disumano carcere di Guantanamo (tuttora aperto, nonostante le promesse del presidente Obama e le censure della Corte Suprema) dove sono segregati senza processo e senza diritti i presunti terroristi islamici di al-Qaida. Senza andare molto lontano, poi, possiamo ricordare anche ciò che sta succedendo oggi nelle carceri italiane, soprattutto per le problematiche irrisolte del sovraffollamento.


Se l’opera del grande compositore tedesco rappresentasse anche soltanto una denuncia sociale, già assumerebbe di per sé una valenza universale di grande portata storica, ma essa si spinge ben oltre, al di là del fatto contingente, evidenziando valori filosofici elevati e nobili su cui basare autenticamente la convivenza civile e lo Stato. Beethoven riprende a suo modo dalla Rivoluzione francese il concetto di fratellanza che, dal suo punto di vista, non può essere disgiunta dalla libertà e dalla verità. L’opera propone una profonda meditazione sui limiti della possibilità coercitiva dello Stato nei riguardi del cittadino, sul valore della pena a cui i condannati sono sottoposti, ma anche sul rapporto tra vita e moralità pubblica e privata. L’altro elemento fondamentale del Fidelio è, infatti, il profondo legame tra umanità e amore coniugale, tra fratellanza tra gli uomini e fedeltà di coppia in un’identità tra etica pubblica e privata che stupisce per la nettezza e l’incisività con cui viene affermata. Non possiamo dimenticare che ancora oggi questa posizione così chiara, legata alla trasparenza dei comportamenti è contraddetta e mascherata dietro ipocrisie e doppie vite difese ad oltranza in nome della privacy. In realtà, sarà anche una dura presa di posizione, ma per Beethoven ciò che avviene nella vita privata trova una sua continuità anche nell’ambito pubblico. Chi agisce bene nel poco agirà bene nel molto e, al contrario, chi tradirà nel poco lo farà a maggior ragione anche nelle questioni più importanti.


Altro elemento di assoluta novità e volutamente rivoluzionario è far assumere il ruolo di eroina e salvatrice ad una donna, come vedremo poi anche nell’Attila di Verdi, sebbene in un contesto del tutto diverso. Se per Verdi il ricorso ad una donna come vendicatrice dell’onore della patria mira a sottolineare la viltà di coloro che dovrebbero combattere contro l’invasore, per Beethoven la figura di Leonore, la protagonista, rappresenta il trionfo della verità con le sole armi del coraggio, del sacrificio e dell’amore puro che diventa compassione. L’uso del travestimento di Leonore, che per tutta l’opera si nasconde sotto le mentite spoglie del giovane carceriere Fidelio, al di là delle apparenze, non ha nulla a che vedere con la commedia, ma mette in luce piuttosto la drammaticità dell’esistenza in una società violenta, tirannica e prevaricatrice, che non consente a nessuno di essere se stesso e che trasforma una donna in una combattente disposta a tutto pur di salvare la vita del marito, e, in qualche modo, anche degli altri prigionieri. Per questo il personaggio di Leonore è simile a quello dell’”Efigenia in Tauride” di Goethe, dove la giovane, accompagnata dal fratello Oreste e contro il parere dell’amico Pilade, decide di informare della loro partenza il re dei Tauri e di accettare il rischio della condanna. Ella intraprende la strada più difficile: quella di veder trionfare la verità oppure morire, contraddicendo, sotto questo aspetto, in modo sostanziale il finale scritto da Euripide. La verità sostenuta dalla coscienza morale (“l’interno impulso” così ben sottolineato in una celebre aria della protagonista) è dunque il concetto centrale dell’opera unito al senso del dovere che essa impone. Questi due aspetti fondamentali animano entrambi i protagonisti Leonore e Florestan, così che tale unità di intenti costituisce il vero punto di forza della coppia. La verità contro la tirannide è quella che Florestan ha affermato fino al punto di rischiare la vita, la stessa che Leonore sostiene come un vessillo invincibile dell’umanità nuova. Verità che si traduce nell’opera nella presenza luce, e nella sensazione indescrivibile dei carcerati quando finalmente riescono a rivedere il cielo dopo anni in cui ciò era stato impossibile. Il loro inno alla luce e alla libertà appare in qualche modo complementare a quello della nona sinfonia. Quest’ultimo, infatti, inizialmente doveva essere dedicato alla libertà, ma poi fu modificato per questioni di censura. E’ significativo, comunque, che le due parole in tedesco risultino molto simili. Del resto, sempre per motivi di censura la trama del Fidelio nel corso delle diverse stesure fu via via “addolcita” perché considerata troppo libertaria e così si spiega anche l’esaltazione della giustizia del sovrano (rappresentata dall’arrivo del ministro Don Fernando) alla fine dell’opera, esaltazione che, comunque, non può prescindere dal diritto.

L’affermazione dei diritti civili contro la segregazione passa per Beethoven anche attraverso il riconoscimento dell’umanità e della pietà, anche nel caso in cui il carcerato sia veramente colpevole. Leonore, infatti, vuole salvare il prigioniero dalla morte indipendentemente che si tratti o meno di suo marito, per puro sentimento di compassione e fratellanza. Questo messaggio universale si estende però idealmente a tutti gli esseri umani, alla loro condizione, in cui solo la fratellanza e la solidarietà possono concorrere al raggiungimento della felicità. Basta un solo uomo per spingere gli altri verso il bene, purché essi manifestino un minimo di apertura verso l’altro, come nell’opera è dimostrato dal vecchio capocarceriere Rocco, che si lascia impietosire dalle richieste di Fidelio in favore dei prigionieri. Una società che non sia basata su questi presupposti, per Beethoven non ha vere speranze. Molto interessante in questo senso anche l’interpretazione del personaggio di Jaquino, che resta sordo ad ogni richiamo di sensibilità umana, come invece richiederebbe il continuo bussare alla porta del carcere nella prima scena. Con questa immagine l’autore ha voluto simboleggiare da un lato le ragioni dell’umanità che bussano continuamente alla porta di ogni uomo e dall’altro anche il rifiuto di chi intende la vita solo come possesso e personale interesse. Marzelline, infatti, si innamora di Leonora- Fidelio, per le sue qualità morali, le stesse che Jaquino non possiede.
La musica esprime in maniera mirabile i sentimenti e le idealità dei personaggi con i magistrali chiaroscuri, i momenti lirici, l’esaltazione della luce e del bene, nonostante la drammaticità della condizione umana, aprendo una visione quasi mistica sull’idea di libertà che accomuna tutti gli esseri umani, sebbene all’epoca la società fosse ancora autoritaria e rigidamente divisa in caste chiuse.

Come anticipavamo, altro elemento interessante, che distingue Beethoven da Verdi, è la fiducia tutta illuminista del primo nella possibilità di avere un monarca che sapesse governare con giustizia; questo nelle opere di Verdi non può più verificarsi perché i governi assoluti descritti dal compositore di Busseto sono figli della Restaurazione e non certo della Ragione, animati da cupidigia, corruzione, sopruso, al punto tale da aver diseducato il popolo, mosso solo dall’incoscienza e dalla paura; così anche il sovrano clemente non viene rispettato, ma eliminato. In questo senso nelle opere di Verdi domina una sostanziale sfiducia nel governo e/o nel suo rapporto con il popolo; pessimismo che non troviamo in Beethoven, segno che purtroppo i tempi erano cambiati e c’era stata una sostanziale regressione rispetto agli alti ideali della Rivoluzione francese al punto che tutto sembrava perduto.
Nel “Fidelio”, invece, il positivo epilogo finale è dovuto alla provvidenza e al diritto, poiché si ritiene che Dio non possa abbandonare l’uomo, ma anche che possano trionfare le ragioni della civiltà contro la barbarie. In questo senso l’opera di Beethoven è un miracolo, l’alba di un nuovo giorno dell’uomo che ancora oggi possiamo in gran parte solo immaginare.
Non c’è da stupirsi che un’opera così moderna e all’avanguardia fosse poi trascurata a lungo nell’Ottocento, e che sia stata riscoperta solo piuttosto di recente, pur avendo ispirato anche grandi compositori come Wagner e Mahler. Ciò spiega anche la condizione di Beethoven, che sempre si sentì isolato, esiliato nella propria epoca, amato dai contemporanei, ma, come un secondo Michelangelo, mai fino in fondo compreso, per l’universalità e l’idealità sovrumana delle sue visioni.
Il nuovo allestimento del Regio di Torino, in coproduzione con Opera Royal de Wallonie, per la regia di Mario Martone (autore del bel film sul Risorgimento italiano “Noi credevamo”) ha valorizzato in modo significativo le tematiche dell’opera sia nella scenografia di Sergio Tramonti, sia per la scelta di smorzare i possibili toni da commedia del primo atto e di esaltare, invece, l’elemento drammatico e le parti corali dove maggiormente si dispiega il messaggio universale dell’autore. La scelta di inaugurare con quest’opera la nuova stagione del Regio si inquadra perfettamente nelle celebrazioni conclusive dei 150 perché ricorda non solo gli ideali risorgimentali e ciò che è stato realizzato, ma anche quanto resta da fare, ciò che ancora di quegli ideali resta incompiuto o tradito.
Ci è capitato di sentire tra il pubblico anche qualcuno che ancora oggi non sa comprendere la bellezza del Fidelio definendolo “la solita opera tedesca, pesante”. Questo, sia detto senza mezzi termini, significa non capire la musica e forse neppure la funzione della lirica e del teatro e limitarsi alle storielle sentimentali che a prima vista il melodramma racconta. Fortunatamente ad assistere alla rappresentazione c’era anche un pubblico colto e attento che ha partecipato con calore e si è sinceramente commosso.
Per quanto riguarda gli interpreti dello spettacolo del giorno 11 dicembre, il soprano Ricarda Merbeth è stata molto applaudita dal pubblico per le qualità vocali e per la grande espressività con la quale ha dato vita ad un efficacissimo personaggio di Leonore; notevoli i mezzi vocali di Lucio Gallo che ha interpretato magistralmente il “cattivo” della storia, cioè Don Pizzarro; ottimo il soprano Talia Or (Marzelline) che ha tratteggiato il proprio personaggio con intelligenza e profondità, senza cedere a tentazioni macchiettistiche; buone anche le interpretazioni del basso Franz Hawlata nei panni del capocarceriere Rocco, di Robert Holzer (Don Fernando e del tenore Alexander Kaimbacher che impersonava il portinaio Jaquino. Unico caso in controtendenza il tenore Ian Storey che è apparso in grave difficoltà nella parte di Florestan: la voce è risultata poco timbrata, con acuti compromessi e problemi di intonazione.
Il direttore Gianandrea Noseda, che già in altre occasioni ci ha entusiasmato per le sue doti interpretative, su questa straordinaria partitura di Beethoven ha, se è possibile, superato se stesso, esprimendo lo spirito romantico del grande compositore tedesco, la sua filantropia illuministica, la luce della speranza, l’elegia dolcissima dell’amore come l’ira e la disperazione, lo sforzo titanico per affermare la verità contro tutti, il grande sogno della salvezza dell’umanità e della civiltà; tutto questo attraverso le innumerevoli sfumature dell’interpretazione musicale che con sapienza sono state raccolte e comunicate in un’unica grande e complessa unità concettuale e stilistica.

Rossana Cerretti



FINO ALLA FINE – LA CORTE DEI MIRACOLI – by The Gang

17 03 2009
Vi faccio ascoltare un gruppo che non conoscevo e che è stata veramente una piacevole scoperta a livello di testi e di musica, come potrete sentire voi stessi.
Si tratta di "The Gang" ovvero i due fratelli marchigiani Sandro e Marino Severini dalla provincia di Ancona, più un terzo, Andrea Mei (per cinque dischi).
Suonano una specie di country-rock che mi piace molto accompagnato da testi forti, a volte politicamente impegnati fino alla retorica, ma con i tempi che corrono va benissimo così!


Così si va fino alla fine
fin dove il cielo
cade a terra sul confine
così si va su queste strade
fin quando avremo un po’ di vento
nelle vene
fino alla fine fino alla fine
faremo il nostro tempo
fino alla fine si va
fino alla fine semineremo vento
fino alla fine
così si va dentro la notte
prima che il gallo canti
lasceremoqueste rovine
così si va fino alla fine
e tireremo fiato solo dopo
oltre il fiume
fino alla fine
faremo il nostro tempo
fino alla fine
si va
fino alla fine semineremo vento
fino alla fine
con un’ombra lunga
che ci insegue
dentro il rosso del tramonto
fino all’ultima fermata
stiamo andando
fino in fondo
fino alla fine
faremo il nostro tempo
fino alla fine
si va
fino alla fine semineremo vento
fino alla fine…



Era fame era sete
erano giorni di carestia
era la corte dei miracoli
era l’inverno e la malattia
era ordine e pulizia
era il tempio il supermercato
erano fantasmi che tornavano
era il futuro surgelato.
Era ancora l’assalto al treno
era l’imbroglio e la rovina
era la ruota della fortuna
era tutto come prima.
Erano in pochi erano in tanti
era la vecchia dinastia
era piccola e feroce
era la nuova borghesia.
Era una sporca camicia nera
mandata in lavanderia
era l’uomo dei miracoli
era di nuovo la nostalgia
Era il telepredicatore
era il servo e la catena
era l’inizio era la fine
era il rogo era la pena.
Era Arcore l’epidemia
era l’idiota l’ideologia
era vino che diventa aceto
era ancora piazzale Loreto
Erano in pochi erano in tanti
era la vecchia dinastia
era piccola e feroce
era la nuova borghesia.
Con Dio dall’altra parte
era un soldato mandato lontano
erano le borse dei mercati
era la notte
che scendeva piano
Era il feudo e il federale
era Pontida la capitale
era il girone dei barattieri
era la ciurma da tribunale
Era il vuoto e la vertigine
era il trionfo del carnevale
era l’ingorgo dei canali
la TV era la cattedrale.
Erano in pochi erano in tanti
era la vecchia dinastia
era piccola e feroce
era la nuova borghesia
che il vento tristo
che il vento tristo
che il vento tristo
se la porti via…



RICORDANDO HAROLD PINTER

26 12 2008

25 Dicembre 2008

harold pinter

Lo scrittore premio Nobel Harold Pinter, di cui avevo parlato proprio ieri, se n’è andato oggi. Il mondo rimpiangerà il suo coraggio nell’indagare l’interiorità umana, la capacità di farci riflettere sulla nostra vita e la sua graffiante ironia contro la stupidità del potere



26 12 2008
13 Dicembre 2008
Come Dio comanda
Te la senti addosso quella pioggia fredda, incessante, che scroscia senza tregua nella notte e sembra creare da sola il buio sul mondo…
«Come Dio comanda», l’ultimo film di Gabriele Salvatores (tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammanniti) racconta una vita ai margini dove il dolore non rende affatto migliori, anzi, quasi fa dimenticare la forma umana, mentre prevale l’ansia di sopravvivere nel suo aspetto ferino e ogni contatto diventa solo una violenza fatta o subita.
Un percorso verso l’inferno nel quale si scivola lentamente, scendendo tutti i gradini verso il fondo come in certi romanzi di Zola, ma siamo drammaticamente nell’oggi, nella violenza crudele dell’hic et nunc.
Di certo in questo film non esiste l’idea del povero «buono», alla «ricerca della felicità» di mucciniana memoria; tutt’al più il povero può essere bello, ma di una bellezza catatonica e incosciente, consumata dalle porte chiuse in faccia e dai «no» continui dell’esistenza.
Perciò si vive sognando una possibile rivincita sociale fatta di parole e simboli impresentabili che testimoniano l’estremo tentativo di difesa da un mondo vissuto come ostile ed estraneo. Non esiste alcuna solidarietà sociale ed intorno il povero e disoccupato ha soltanto il deserto, le ciminiere, la pietraia nuda. Questo è l’orizzonte della vita dove anche la natura appare corrotta, assumendo un aspetto artificiale e degradato dal lavorio delle ruspe e dei cantieri, dal lento scorrere di un fiume su un greto irto di sassi senza colore. Paesaggio carsico che ci conquista e ci atterrisce come correlativo oggettivo della coscienza. Lontano nuvole di fumo si levano alte: «altri» lavorano, «altri» producono, «altri» vivono, forse; certo non il protagonista.
L’unico elemento che lo tiene ancorato a questo mondo è la presenza del figlio con il quale ha un rapporto strettissimo, difficile e unico basato sul vicendevole «abbarbicarsi» l’uno all’altro per non essere definitivamente travolti. Uno stringersi e chiudersi a riccio in una famiglia di rifiutati: Rino, Cristiano e «Quattro Formaggi», l’amico reso disabile da un incidente sul lavoro.
La pioggia accompagna costantemente la loro esistenza, battente e fredda come una pena infernale per una colpa sconosciuta. La pioggia che fa luccicare, cancella e nasconde, confonde nel caos di una visione offuscata. Se questo è il mondo esterno, il resto della vita si svolge nello stesso degrado tra muri scrostati, una branda al posto del letto e un solo pezzo di formaggio ammuffito in frigo. La violenza rabbiosa del protagonista, il suo saper menare le mani, la sua passione per le pistole, non servono affatto a difenderlo, anzi, dimostrano soltanto la sua totale impotenza rispetto ad una società che ormai lo ha abbandonato al suo destino.
E le donne? Le donne semplicemente non esistono in questo presepe di cartone, come quello che Quattro Formaggi ha creato nello scantinato che sarebbe casa sua: le donne sono solo fugaci apparizioni e nient’altro, atterrite dalla miseria e dalla follia. Nel suo presepe tra la capanna e i pastorelli c’è posto anche per le ciminiere, Goldrake e Cip e Ciop, ma su tutti campeggia un schermo piatto, dove Ramona supersex si fa scopare a getto continuo 24 ore su 24 sempre nella stessa, ossessiva scena. Le donne sono due braccia di gomma che escono dal televisore mentre Ramona ti guarda e ti bacia…
Non ci può essere rapporto tra questo mondo «altro» e la società che lo ha posto ai margini; qualunque tentativo di contatto diventa occasione di scontro, umiliazione, menzogna o violenza. Le menzogne che si raccontano all’assistente sociale stile «dama di San Vincenzo»; l’umiliazione di elemosinare un lavoro che non arriva; lo scontro con chi ha tutto anche soltanto per prendersi una rivincita. E infine la tragedia perché l’incontro non è possibile, e si scatena soltanto la crudeltà disperata, quasi involontaria di chi non ha mai avuto nulla e vorrebbe solo qualche briciola. Il presepe si distrugge, lo schermo continua a trasmettere, la luce si spegne.
Restano un padre e un figlio ora finalmente coscienti del profondo legame reciproco e forse pronti a risalire in qualche modo dal fondo…
Notevoli le soluzioni registiche, alcune scene restano impresse nella memoria, assumendo un significato archetipico.
Il «folle» di Elio Germano ha davvero una marcia in più.
come dio comanda1


LA NIKE SENZ’ALI – Miti e immagini dannunziane della Vittoria

26 12 2008

8 Dicembre 2008

Vittoria del Piave

L’articolo ora è pubblicato nel mio sito http://web.tiscali.it/ut_pictura_poesis/NIKE1/INDEX1.htm



Loreena McKennitt- Lullaby

26 12 2008

5 Dicembre 2008

Tragica e bellissima…

 Loreena McKennitt- Lullaby

 

O for a voice like thunder, and a tongue
To drown the throat of war! – When the senses
Are shaken, and the soul is driven to madness,
Who can stand? When the souls of the oppressed
Fight in the troubled air that rages, who can stand?
When the whirlwind of fury comes from the
Throne of God, when the frowns of his countenance
Drive the nations together, who can stand?
When Sin claps his broad wings over the battle,
And sails rejoicing in the flood of Death;
When souls are torn to everlasting fire,
And fiends of Hell rejoice upon the slain,
O who can stand? O who hath caused this?
O who can answer at the throne of God?
The Kings and Nobles of the Land have done it!
Hear it not, Heaven, thy Ministers have done it!

Poem by William Blake (1757-1827)
Music by Loreena McKennitt
From: Elemental (1985)

O avessi voce come tuono e favella
tale da soffocare la gola della guerra! Quando i sensi
sono scossi e l’anima è spinta verso la follia,
chi può restare in piedi? Quando le anime degli oppressi
combattono nell’aria turbata che infuria, chi può restare in piedi?
Quando il turbine del furore giunge
dal trono di Dio, quando il corrugarsi del suo volto
fa cozzare insieme le nazioni, chi può restare in piedi?
Quando il Peccato sbatte le sue grandi ali sulla battaglia
e veleggia rallegrandosi nel diluvio della Morte;
quando le anime sono lacerate da un fuoco senza fine
e demoni dell’Inferno si rallegrano della strage,
chi può restare in piedi? Chi ha causato questo?
Chi può rispondere davanti al trono di Dio?
I re e i nobili della Terra hanno fatto questo!
Che lo ascolti o no, Cielo, i tuoi ministri han fatto questo!

 

http://www.youtube.com/watch?v=-xBLYMSgxCE



IL SEME DI UN SOGNO… – Dedicato all’elezione di Barack Obama

26 12 2008

5 Novembre 2008

I HAVE A DREAM…

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

(Martin Luther King)



MEMORIA DI OMAHA BEACH – Viaggiando in Normandia

26 12 2008

14 Agosto 2008

Omaha Beach

Cadevamo uno sull’altro a Omaha la rossa, sotto quel cielo implacabile e la costa dipinta da un dio impressionista, ma tagliata con un colpo d’ascia che aveva reso quelle rocce un baluardo inespugnabile. La natura ignara aveva forgiato quella fortezza nei secoli contro i venti del Nord e la protervia triste delle maree le quali adesso trascinavano via i cadaveri che galleggiavano gonfi. Omaha la rossa, quelle sabbie hanno bevuto sangue, anche se non sono ancora rosse, come la nostra terra del Sud.
Oggi sulla spiaggia c’è solo qualche turista a prendere il sole tra i pochi relitti rimasti.
Lassù in cima allo strapiombo qualcuno ci osservava morire, trecento contro novemila: la terribile vendetta degli spartani, rinchiusi nei loro bunker di acciaio e cemento armato.
Ora le campane suonano "God Bless America" ad intervalli regolari e un Cristo Schwarzenegger veglia sulle vite galleggianti nelle acque di Omaha la rossa. Ghirlande perenni di ninfee gialle. File di croci bianche che si prestano alle prospettive in grandangolo di cineprese e macchine fotografiche. Il paradiso dei vari Spielberg, spettacolari anche senza volerlo.
C’è sempre un’epica da rispettare.
Non capiranno mai.
Non sono bastati questi morti, né i più di mille dell’Iraq, né l’Afghanistan, non l’orrore bestiale del Vietnam, non la Corea.
God Bless America.

Cimitero americano presso Omaha Beach



Il destino dell’Italia da “Gomorra” al “Divo”

26 12 2008

 14 Luglio 2008

andreotti1

Già quando avevo visto questi due film, praticamente uno dietro l’altro, ero rimasta sconvolta, perché descrivono chiaramente la situazione drammatica del nostro Paese, che non trova scampo né dal basso né tantomento dall’alto. E noi, ci troviamo in mezzo a lottare tutti i giorni per una normalità e una semplice giustizia che appaiono sempre più lontane e irraggiungibili, dal momento che chi è preposto al rispetto della legge non fa che violarla e chi, a sua volta, si esprime votando, non fa che emulare i pessimi esempi mediatici ed istituzionali che ci vengono mostrati quotidianamente.
Oggi il susseguirsi degli avvenimenti di questi ultimi giorni mi ha fatto ripensare alle mie considerazioni senza speranza di qualche tempo fa. Ormai chi segue la legge è considerato un utopico giustizialista e quindi meglio imitare corruttori e corrotti, evasori delle tasse e, in generale, tutti coloro che cercano scorciatoie per ammassare denaro facile e per esercitare indebitamente il proprio potere.
Così tra Scampia che ormai ci appare una sorta di isola dei pirati senza nulla di pittoresco e nella quale vige solo la legge del taglione, esercitata dal più forte e alla quale nessuno osa ribellarsi, e le stanze del potere andreottiano e non, quello che colpisce è sempre l’indifferenza al destino del nostro popolo e l’assoluto disprezzo del bene comune.

Sei nato e morto qua. E basta: la verità, anche solo mezza, te la sogni…