«LINOSA È COME UN’ALTRA BARCA»

21 09 2011

Il miraggio della Terraferma per clandestini e isolani nel nuovo film di Emanuele Crialese  

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Finalmente un film sulla realtà raccontata con il garbo e l’essenzialità tipica dello spirito dei siciliani, con quei silenzi in cui parole e immagini calano solenni sullo spettatore come pensieri con i quali si deve per forza fare i conti, confrontarsi, riflettere. Da questo film di sicuro non si può uscire dicendo “è bello” come se fosse un esercizio di stile, si va via in silenzio e forse a capo chino. Emanuele Crialese, segue con il suo obiettivo, sopra e sotto il mare, i volti e le situazioni: le povere case, il viso dei vecchi, patriarchi, le foto di un marito morto troppo presto, portato via dal mare, gli strappi su una carta da parati di un mondo che non esiste più. Si cercano nel silenzio risposte che non verranno.
Il cinema di Crialese ha veramente qualcosa di epico e profondo tutto basato su inquadrature che scrutano, con grandi aperture d’insieme e silenziosi dettagli che raccontano una vita; immagini e linguaggio corale del siciliano antico, suoni di altre epoche che riaffiorano nel nostro presente, rumori ovattati sotto la superficie del mare – tipici del regista – come già avevamo visto nel suo film Respiro. Se si dovesse fare un paragone sarebbe con i più grandi: da Ermanno Olmi a  Theo Angelopoulos a Andreij Tarkovskij, i poeti dell’immagine pura, capace di raccontare soprattutto ciò che non si vede. Terraferma è una storia verghiana nel suo senso più vero e tragico, con radici profonde nel passato eppure attualissima, in  cui il dolore, la rassegnazione, gli antichi valori che soccombono a contatto con il cinismo delle nuove leggi, non hanno bisogno di molte parole per essere spiegati, si rivelano nella loro stessa evidenza.
L’esodo continuo dei clandestini visto attraverso gli occhi degli abitanti di Linosa, piccolo lembo di terra non lontano da Lampedusa, rappresenta un doppio esilio: lontani da tutto, lontani da quello Stato ancora una volta latitante nei servizi e nello sviluppo, ma che, quando c’è, arriva solo per punire incomprensibilmente, per opprimere e per rendere stranieri nella propria terra i suoi stessi abitanti. Linosa prima era uno scoglio dimenticato, ora è la prigione di tutti, soprattutto di chi ci è sempre vissuto. La lontananza impedisce lo sviluppo, il lavoro, ma anche la vita di prima dei vecchi marinai è impraticabile, la pesca non basta più. Così non resta che affittare la propria casa per pochi soldi ai turisti di una stagione e andare a vivere in garage, “clandestini” nella propria terra. Da un lato arrivano persone disperate alla deriva stipate su barconi di fortuna e dall’altro i turisti altrettanto stipati sui vecchi pescherecci declassati a battelli “disco-dance” per il giro dell’isola.

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I turisti non capiscono, non possono capire, perché loro vivono su una “terraferma” che non è immobile come questa, dove ogni cambiamento significa soprattutto tragedia. I “forzati delle vacanze” per un verso non vogliono sentir parlare di clandestini e per l’altro, quando finalmente la realtà si rivela in tutta la sua agghiacciante evidenza, vengono bloccati dalle forze dell’ordine, da carabinieri protetti da mascherina e guanti di lattice, perché tra i clandestini e l’Italia ci deve essere anche fisicamente un muro, uno spartiacque invalicabile, una cortina di ferro fatta anche di piccoli gesti e simboli, di semplice isolamento. Gli extracomunitari vengono scortati come malfattori ai traghetti che li portano nei centri di accoglienza, Nessuno può aiutarli, pena gravi sanzioni, e così questa semplice famiglia di Linosa, che è la protagonista del film, si ritrova esule e clandestina nel proprio paese perché ospita una madre con il proprio figlio neonato (un fatto ispirato alla vera storia di Timnit T. che interpreta la giovane etiope del film). Tutto il dramma si gioca appunto, tra leggi dello Stato e coscienza morale, come nell’Antigone. La gente dell’isola appare due volte esiliata e divisa dalla “Terraferma” vista come un mito e come una disgrazia. “Linosa è come fosse un’altra barca” dicono da quelle parti. La loro isola è uno scoglio in mezzo al mare troppo piccolo per essere visto nelle cartine  geografiche, ma abbastanza grande da essere quasi militarizzato. Se le vecchie generazioni, come il nonno del protagonista, non capiscono perché “«Io cristiani a mare unn'aiu lassati mai»” d’altra parte dai quarantenni in poi la mentalità comune tende a prendere il sopravvento, tra repulsione rabbiosa e tentativo di ignorare quello che sta accadendo, finendo a fare i bagnini per turisti annoiati. Dopo tre giorni “i continentali” già si annoiano: che c’è in fondo da fare in quest’isola sperduta? Poi per girarla bisogna faticare tanto, visto che “non c’è neppure una seggiovia”.
E intanto il mare, come un’enorme, lenta discarica di uomini restituisce di tutto: povere cose ed effetti personali,  pezzi di carrette del mare, scarpe, documenti sbiaditi, vivi e soprattutto morti. Alla fine il miraggio della terra ferma si perderà ancora una volta, in quel canale di Sicilia troppo lungo per essere attraversato verso un’agonizzante deriva. Il simbolo anche della triste agonia nel nulla delle nostre istituzioni e del nostro popolo che oggi tutti noi abbiamo sotto gli occhi.