LA LEGGENDA DELLO STUPA VOLANTE

13 01 2009
Monaco buddistaUn giorno il monaco mendicante Tripikaka ebbe una visione: in una notte di luna piena gli apparve Buddha Shakyamuni che volando su un fiore di loto gli disse: « O Tripikaka, costruiscimi uno stupa di berillo e di smeraldo dal quale pendano stoffe preziose e intorno alberi adorni di gioielli spandano la loro luce e soavi melodie»
Ma il monaco rispose: «Come posso, o Venerabile Tathagata costruirti un simile stupa? Io non posseggo nulla, non ho averi su questa terra né protettori potenti né parenti a cui chiedere perché io possa farti un simile dono…»
Ma il Buddha lo guardò sorridendo e avvolto in una pioggia di mandarava scomparve alla sua vista senza rispondere. Il monaco, mortificato, pensò e ripensò a come poter soddisfare le richieste del venerabile Shakyamuni, ma non venne a capo di nulla.
Poiché era un monaco girovago, mentre pensava e ripensava vide un uomo al quale la ruota del carro si era incastrata tra le pietre di una via dissestata e lo aiutò a far ripartire il suo veicolo.
Poi riprese il cammino.
Dopo un po’ trovò un giovane che piangeva perché l’anello che il padre morendo gli aveva donato era finito in un canale poco distante e non riusciva più a ripescarlo. Allora insieme si recarono sulla riva e ciò che uno solo non sarebbe riuscito a fare, in due, invece, riuscirono a realizzare, così l’anello fu ritrovato e tornò al dito del suo legittimo proprietario.
Intanto colui che aveva sbloccato la ruota del carro e si era rimesso in marcia e poco dopo trovò sulla strada un piccolo cane ferito che gli disse: «Pietà signore, salvami o coloro che passano sulla via mi schiacceranno! » Allora il carrettiere lo prese con sé e lo curò.
Mentre il giovane che aveva recuperato l’anello incontrò una donna che stava portando un paniere di riso verso casa e la aiutò sobbarcandosi tutto quel peso, eccessivo per lei.
Intanto il monaco aveva proseguito, e giunse presso la casa di un ricco mercante. Lì una giovane si lamentava perché il suo innamorato l’aveva lasciata e minacciava di lasciarsi morire di dolore. Allora il monaco pianse con lei tre giorni e tre notti, finché la giovane il quarto giorno si alzò e si mise a mangiare.
Successivamente, il monaco incontrò un bambino che solo, davanti alla sua casa, era triste, perché non aveva nessuno con cui giocare. Allora il monaco con le sue dita disegnò le ombre sul muro, imitando uomini e animali finché il bambino rise, si divertì e le lacrime scomparvero dai suoi occhi.
Nel frattempo, la giovane innamorata incontrò un vecchio solo che si trascinava perché era zoppo allora lei lo prese sotto braccio e insieme si recarono da un artigiano dove gli fece costruire un bellissimo bastone.
Contemporaneamente, il bambino si recò a scuola, e ricordando quanto si era divertito, scrisse pensieri bellissimi, con meravigliosa calligrafia come se sul foglio le sue mani stessero danzando, così fece sorridere la maestra, che di solito era molto severa.
Il piccolo cane ferito, poi, dopo essere stato curato dal carrettiere, un giorno vide un cieco che non riusciva più a trovare la strada e allora lo tirò per una manica finché lo guidò dove doveva andare. La donna che portava il paniere trovò un mendicante che non aveva nulla da mangiare e gli versò nella bisaccia tanto riso da sfamarlo per una settimana.
Intanto il monaco aveva proseguito il suo cammino e giunse dal più ricco degli uomini, il quale gli disse:« Se io che sono il più ricco degli uomini sono così infelice, chissà come ti sentirai tu che non possiedi nulla in questo mondo…» Ma il monaco rispose sorridendo: «Veramente non mi sento infelice poiché questo è l’unico tesoro che l’uomo può possedere e che nulla potrà portargli via. Essere in sintonia con l’universo.»
Allora il più ricco degli uomini rimase stupito e gli chiese: «Insegnami come si può essere felici allora!»
Ma il monaco gli rispose: «Io non lo so veramente, ho soltanto pensato a chi incontravo, non ho pensato molto a me.»

Nel frattempo dalle dieci direzioni cominciarono a radunarsi tutti coloro che per un motivo o per l’altro avevano ereditato le azioni del monaco: arrivò il carrettiere, il giovane dell’anello, il bambino triste, la giovane innamorata, il piccolo cane, la donna con il paniere di riso, il vecchio col bastone, il cieco e mille altri che lo avevano incontrato nel cammino o che erano stati beneficiati anche indirettamente dalle conseguenze dei suoi atti.

Il monaco rimase molto stupito, non avrebbe mai pensato di aver raggiunto così tanta gente.
Nel frattempo nel cielo si cominciò a scorgere un bocciolo luminoso dai lunghi petali.
Esso giungeva dall’alto avvolto dalla luce e quando arrivò quasi a terra si schiuse: dentro c’era uno stupa di berillo, smeraldi e rubini con alberi di gioielli che tintinnavano intorno e stoffe preziose dai molti colori che si muovevano al vento.
Tutti coloro che erano giunti si misero a girare sette volte intorno allo stupa meraviglioso e, infine, esso divenne trasparente: così tutti videro che dentro il Tathagata insegnava la Dottrina, spandendo la sua luce.
Allora si udì una voce: «Ecco lo stupa che hai costruito o bhikkhu, con le tue mani stringendo le mani di molti, queste sono le pietre che Mara non potrà mai portare via!»

stupa_night
 

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LA LEGGENDA DELLO STUPA VOLANTE

13 01 2009
Monaco buddistaUn giorno il monaco mendicante Tripikaka ebbe una visione: in una notte di luna piena gli apparve Buddha Shakyamuni che volando su un fiore di loto gli disse: « O Tripikaka, costruiscimi uno stupa di berillo e di smeraldo dal quale pendano stoffe preziose e intorno alberi adorni di gioielli spandano la loro luce e soavi melodie»
Ma il monaco rispose: «Come posso, o Venerabile Tathagata costruirti un simile stupa? Io non posseggo nulla, non ho averi su questa terra né protettori potenti né parenti a cui chiedere perché io possa farti un simile dono…»
Ma il Buddha lo guardò sorridendo e avvolto in una pioggia di mandarava scomparve alla sua vista senza rispondere. Il monaco, mortificato, pensò e ripensò a come poter soddisfare le richieste del venerabile Shakyamuni, ma non venne a capo di nulla.
Poiché era un monaco girovago, mentre pensava e ripensava vide un uomo al quale la ruota del carro si era incastrata tra le pietre di una via dissestata e lo aiutò a far ripartire il suo veicolo.
Poi riprese il cammino.
Dopo un po’ trovò un giovane che piangeva perché l’anello che il padre morendo gli aveva donato era finito in un canale poco distante e non riusciva più a ripescarlo. Allora insieme si recarono sulla riva e ciò che uno solo non sarebbe riuscito a fare, in due, invece, riuscirono a realizzare, così l’anello fu ritrovato e tornò al dito del suo legittimo proprietario.
Intanto colui che aveva sbloccato la ruota del carro e si era rimesso in marcia e poco dopo trovò sulla strada un piccolo cane ferito che gli disse: «Pietà signore, salvami o coloro che passano sulla via mi schiacceranno! » Allora il carrettiere lo prese con sé e lo curò.
Mentre il giovane che aveva recuperato l’anello incontrò una donna che stava portando un paniere di riso verso casa e la aiutò sobbarcandosi tutto quel peso, eccessivo per lei.
Intanto il monaco aveva proseguito, e giunse presso la casa di un ricco mercante. Lì una giovane si lamentava perché il suo innamorato l’aveva lasciata e minacciava di lasciarsi morire di dolore. Allora il monaco pianse con lei tre giorni e tre notti, finché la giovane il quarto giorno si alzò e si mise a mangiare.
Successivamente, il monaco incontrò un bambino che solo, davanti alla sua casa, era triste, perché non aveva nessuno con cui giocare. Allora il monaco con le sue dita disegnò le ombre sul muro, imitando uomini e animali finché il bambino rise, si divertì e le lacrime scomparvero dai suoi occhi.
Nel frattempo, la giovane innamorata incontrò un vecchio solo che si trascinava perché era zoppo allora lei lo prese sotto braccio e insieme si recarono da un artigiano dove gli fece costruire un bellissimo bastone.
Contemporaneamente, il bambino si recò a scuola, e ricordando quanto si era divertito, scrisse pensieri bellissimi, con meravigliosa calligrafia come se sul foglio le sue mani stessero danzando, così fece sorridere la maestra, che di solito era molto severa.
Il piccolo cane ferito, poi, dopo essere stato curato dal carrettiere, un giorno vide un cieco che non riusciva più a trovare la strada e allora lo tirò per una manica finché lo guidò dove doveva andare. La donna che portava il paniere trovò un mendicante che non aveva nulla da mangiare e gli versò nella bisaccia tanto riso da sfamarlo per una settimana.
Intanto il monaco aveva proseguito il suo cammino e giunse dal più ricco degli uomini, il quale gli disse:« Se io che sono il più ricco degli uomini sono così infelice, chissà come ti sentirai tu che non possiedi nulla in questo mondo…» Ma il monaco rispose sorridendo: «Veramente non mi sento infelice poiché questo è l’unico tesoro che l’uomo può possedere e che nulla potrà portargli via. Essere in sintonia con l’universo.»
Allora il più ricco degli uomini rimase stupito e gli chiese: «Insegnami come si può essere felici allora!»
Ma il monaco gli rispose: «Io non lo so veramente, ho soltanto pensato a chi incontravo, non ho pensato molto a me.»

Nel frattempo dalle dieci direzioni cominciarono a radunarsi tutti coloro che per un motivo o per l’altro avevano ereditato le azioni del monaco: arrivò il carrettiere, il giovane dell’anello, il bambino triste, la giovane innamorata, il piccolo cane, la donna con il paniere di riso, il vecchio col bastone, il cieco e mille altri che lo avevano incontrato nel cammino o che erano stati beneficiati anche indirettamente dalle conseguenze dei suoi atti.

Il monaco rimase molto stupito, non avrebbe mai pensato di aver raggiunto così tanta gente.
Nel frattempo nel cielo si cominciò a scorgere un bocciolo luminoso dai lunghi petali.
Esso giungeva dall’alto avvolto dalla luce e quando arrivò quasi a terra si schiuse: dentro c’era uno stupa di berillo, smeraldi e rubini con alberi di gioielli che tintinnavano intorno e stoffe preziose dai molti colori che si muovevano al vento.
Tutti coloro che erano giunti si misero a girare sette volte intorno allo stupa meraviglioso e, infine, esso divenne trasparente: così tutti videro che dentro il Tathagata insegnava la Dottrina, spandendo la sua luce.
Allora si udì una voce: «Ecco lo stupa che hai costruito o bhikkhu, con le tue mani stringendo le mani di molti, queste sono le pietre che Mara non potrà mai portare via!»

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MEDITANDO SUL BODHISATTVA DELLA PIENA CONSAPEVOLEZZA

26 12 2008
22 Dicembre 2008
manjusri
Disse poi il Beato: «La vita è breve Manjusri: che farai dunque?»
«Venerabile Shakyamuni, – disse Manjusri – Io prenderò rifugio nel tuo Corpo di Verità, prenderò rifugio nella Parola, prenderò rifugio nella Comunità spirituale. Cercherò di praticare la generosità, la moralità, la pazienza, l’energia, la sapienza, la concentrazione per giungere all’illuminazione.»
«Hai detto bene Manjusri, – rispose il Beato – da oggi sarai chiamato sapiente. Io ti dico che anche cominciando da una sola di queste perfezioni tu potrai giungere all’assenza di rinascita.
Ma per realizzare il perfetto risveglio sii come il loto che nascendo nel fango sboccia sull’acqua e la sua luce si spande su tutti gli esseri senzienti. Nelle tue meditazioni scambiati con essi, così domerai la tua mente, e nella compassione otterrai la natura del Buddha.»
Poi chiuse gli occhi e dalla zona in mezzo alle sopracciglia un raggio di luce si sprigionò:
« Da oggi – disse ancora il Beato – Om ah ra pa tsa na dhih, sarà il tuo mantra, per tutti coloro che vorranno conoscere e comunicare la sapienza»


Fa’ un’isola di te stesso, opera celermente, sii saggio – Della felicità e delle passioni

26 12 2008
5 Dicembre 2008
Edvard Munch Sun
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
 Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato…

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Esiste probabilmente un unico modo per evitare che la vita sia questo insensato abisso di dolore descritto così bene dal Leopardi: lasciare quel fascio di tutto ciò che ci «appartiene» e ci pesa addosso, di tutto il nostro «amor proprio» (che non è autentico «amore a sé», cioè al nostro destino di felicità) e fermare la corsa. La corsa dei desideri che ci fanno precipitare e ci lacerano ovunque senza lasciarci pensare davvero a chi siamo e a dove stiamo andando. Fermare la corsa.
«L’antidoto», per usare un’espressione cara al Dalai Lama, è appunto far «girare la ruota del Dharma» cioè andare in senso opposto e, come dice il Beato «uscire dalla foresta» degli attaccamenti e dell’odio e diventare invisibili agli occhi di «Mara». Questo si intende per liberazione a beneficio non solo personale, ma di tutti gli esseri.
Di sicuro quel fascio dobbiamo cercare di lasciarlo e, soprattutto, non dobbiamo crearne un altro con le nostre azioni.
Non è una deduzione razionale tipica soltanto del Buddhismo, ma a questa conclusione sono arrivati anche molti artisti, filosofi o religiosi occidentali.
Per esempio l’Ariosto, con la sua consueta leggerezza ci propone una «allegoria» molto realistica, sui desideri degli uomini e sulla loro fine.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l’astuzie che sono ora,
a piè d’un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non so mostrar, vivea ne la val ima;
che più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;
e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;
chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.
Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d’esser rimasi giù.
Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi.
Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

Insomma, gli uomini tendono sempre a correre dietro le loro illusioni pensando che siano reali, ma più corrono e più non si avvicinano neanche di un passo alla felicità, così come non si può catturare la luna dentro un canestro…

Preziosi consigli su come vivere ci vengono dagli antichi. Seneca, ad esempio, ha meditato a lungo sulla felicità e sulla possibilità dell’uomo di essere felice. In particolare osserva: «I mali che fuggi sono in te», E poiché è conscio dell’impermanenza delle cose arriva a questa conclusione: «Non esiste alcun bene duraturo all’infuori di quello che l’animo trova dentro di sé.».
Dove si trova quindi la possibilità della stabilità dell’animo e quindi, della felicità? A questa domanda Seneca risponde che la felicità sta in ciò che è consono all’uomo cioè alla sua aspirazione al bene vale a dire la virtù ovvero l’abitudine al bene e quindi: « Non si compie un’azione virtuosa in vista di un premio, il premio sta nell’averla compiuta.». Solo così si acquista la libertà che è «l’affrancamento dalle passioni». Così anche altri pensatori antichi, come per esempio Cicerone, hanno affermato a riguardo concetti molto simili. Se ci rivolgiamo ai grandi filosofi greci come Socrate e Platone essi considerano la felicità come frutto della ‘temperanza’ e come libertà dai desideri e dagli impulsi.

Nei Vangeli, poi, Cristo è piuttosto deciso sul fatto di dover rinunciare ai propri attaccamenti se si vuole ottenere un vero progresso spirituale – «la vita» – e consiglia senza mezzi termini: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. »
Dove, come si sa, il fuoco, più che essere un concetto esterno all’uomo è qualcosa che brucia dentro di lui «dannandolo», poiché l’uomo ha alla fine quello che ha cercato e rincorso per tutta la vita, quindi si deve pensare bene a quello che si cerca.
E ancora racconta il Vangelo di Matteo:
«Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: ‘Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti’. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: ‘Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre’.»
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna da Cartesio a Spinoza, da Pascal a Schopenhauer, sulla ricerca della felicità, il perseguimento della virtù e il controllo delle passioni, poiché l’attaccamento eccessivo a ciò che è fuggevole ed impermanente porta fatalmente all’infelicità.
Però mi fermo qui. E permettetemi di raccontarvi una storia… (ma le citazioni dagli antichi testi sono autentiche!)

Un giorno un anziano disse ad un suo giovane discepolo:
«Molti dicono: ‘Cavalchiamo la tigre e dominiamola.’ Ma io ti dico coloro che così faranno presto dovranno fare i conti con i denti della tigre che li divorerà. Può l’uomo ammansire la tigre? Forse con la frusta in mano può farlo e con sbarre di ferro, ma, anche se può, quanti altri dovranno morire perché uno solo riesca? E ha poi così senso sfidarla volontariamente, non è forse un atto di inutile superbia? Quanti divorati dalla tigre saranno in futuro come lei?
E altri dicono ‘Cavalchiamo l’onda’, seguendo, a loro dire, il sentiero di Diamante, ma il Beato stesso disse:
‘Colui che ha una visione errata, le cui trentasei correnti
scorrono impetuose verso il piacere,
i suoi pensieri fondati sull’attaccamento come onde
lo trascinano via’
Shakyamuni affermò e questo ricordalo, se vuoi andare ‘al di là’ del fiume:
‘Avendo ucciso madre, padre e due re di casta guerriera,
avendo distrutto un regno con i suoi sudditi,
il brahmano se ne va senza tremare.
Avendo ucciso madre, padre e due re di casta sacerdotale,
e una tigre come quinto,
il brahmano se ne va senza tremare’
cioè sconfiggendo gli attaccamenti della nascita, del potere, del piacere e del dubbio, allora si fermerà la rinascita.
E disse ancora Shakyamuni:
‘Di ciò che potrebbe fare un odiatore ad un odiatore, un nemico ad un nemico, molto più male fa [all’uomo stesso] il [suo] pensiero falsamente diretto.’
Perché l’uomo che non saprà custodire se stesso sarà il proprio peggiore nemico…
Non credere che si possa accorciare la Via né che basti dire di essere arrivato perché la meta del tuo viaggio compaia davanti a te, ma sii umile. Perciò io ti dico: segui la via certa delle Quattro Nobili Verità e dell’Ottuplice Sentiero e non cercare nelle illusioni risposte che non ti daranno, ma più ti avvolgeranno nelle loro catene. Non fare come colui che avendo tagliato il sottobosco si inoltra di nuovo nella foresta… Medita in cuor tuo sulla radice del dolore e se così farai ti convincerai che è necessario tagliarla così come esorta il Beato. Ma se di questo non ti convincerai da solo non sarà un’imposizione che potrà cambiare la tua mente. E non ti avvolgere nell’ignoranza, ma medita sulle testimonianze e le parole immortali del Beato: in esse è racchiuso il Dharma, l’insegnamento e la natura profonda della realtà. Così apprenderai che non per te da solo puoi andare al di là del fiume, ma per tutti gli esseri senzienti perché solo apparentemente siamo divisi, ma finché non proverai gioia nella pratica del Dharma, non sarai arrivato davvero a comprenderla…
C’è una storia nel Sutra del Loto che voglio raccontarti:
«Supponiamo, figli di nobile schiatta, che vi sia un certo medico, colto, saggio, intelligente, abile nell’eliminare ogni malanno. Costui ha molti figli, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta o cento. Ma un giorno il medico va all’estero e tutti i suoi figli si ammalano per un’intossicazione o avvelenamento e in seguito a ciò sono tormentati da sensazioni dolorose e si rotolano per terra dal bruciore. Il medico, loro padre, ritorna dal viaggio mentre i suoi figli sono tormentati da quelle sensa­zioni dolorose in seguito all’intossicazione o avvelenamento. Alcuni di loro hanno idee sbagliate, altri idee giuste, ma tutti soffrono dello stesso dolore. Vedendo il padre lo salutano con gioia e gli dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato sano e salvo perché devi liberarci da questa calamità, intossicazione o avvelenamento che sia. Caro padre, facci vivere’. Allora il medico, nel vedere i suoi figli in preda al dolore e tormentati dalle sensa­zioni dolorose mentre si rotolano per terra dal bruciore, prepara un potente rimedio dal colore, odore, sapore appropriato, lo pesta col mortaio, e lo dà da bere ai suoi figli con queste parole: ‘Bevete, figli, questo potente ri­medio dal colore, odore, sapore appropriato. Bevendolo sarete subito liberi, l’intossicazione o l’avvelenamento saranno eliminati e vi sentirete bene e in salute’. I figli del medico dalle idee giuste, vedendo il colore, sentendo l’odore e assaggiando il sapore del rimedio, lo prendono in fretta e si sentono subito sollevati. Ma i figli del medico dalle idee sbagliate, dando il benvenuto al padre, dicono: ‘È un bene, padre, che tu sia tornato in salute e in buona forma perché devi curarci’. Ma costoro, pur par­lando in tal modo, non bevono il rimedio offerto. Per quale ragione? Di idee sbagliate, a costoro non piace il colore del rimedio, non piace il suo odore e, il suo sapore. Allora il medico riflette: ‘Questi figli hanno delle idee sbagliate per via dell’intossicazione o avvelenamento e non bevono il potente rimedio né lo accettano. Pertanto io dovrò indurli a bere questo rimedio con un abile mezzo’. Così il medico desiderando che i figli bevano il rimedio, con un abile mezzo dice loro: ‘Figli d i nobile schiatta, io sono vecchio, avanti negli anni, sono arrivato al termine della mia vita. Ma non dispiacetevene, figli, non sentitevi depressi. Ho preparato questo potente rimedio, se lo desiderate potete berlo’. Ammoniti i figli con questo abile mezzo, egli parte per un altro paese e fa annunciare ai figli esausti la sua morte. In quel momento essi si affliggono e lo piangono moltissimo. ‘Invero costui che èstato nostro padre, guida, genitore amorevole, è morto. Oggi noi siamo rimasti senza protettore.’ Consapevoli di essere senza una protezione e senza un rifugio, si sentono costantemente afflitti dal dolore, ma proprio per questo continuo dolore e afflizione le loro idee sbagliate vengono soppiantate da quelle giuste. Si rendono così conto che il colore, l’odore e il sapore del rimedio è quello appropriato e pertanto prendono subito il rimedio e vengono liberati dall’infermità. Allora il medico, venuto a sapere che i suoi figli sono liberi dal dolore, ritorna.»

Dunque procura di essere tra coloro che hanno pensieri giusti per non perdere inutilmente il tempo, non è necessario che il Buddha scompaia perché tu debba desiderare di cercarlo e vederlo dentro di te…



MEDITANDO SULLA VITA, LA MORTE, LA FELICITA’

26 12 2008
2 Novembre 2008
Dedicato ad A. e alla sua relazione sulla felicità inviatami in questi giorni
 
 
«ch’i’ non averei credutoche morte tantan’avesse disfatta. » (Dante, Inf. III)
 
Oggi è un giorno per meditare, e non è mai un giorno facile, perché si entra in contatto più da vicino con la morte. Non solo una morte astratta, ma spesso con la perdita molto concreta delle persone a noi care. Dobbiamo fare i conti con il loro ricordo e con il nostro stesso destino. Ci sono persone che semplicemente non vanno al cimitero, scansano il problema, fanno finta che non esista e continuano a vivere.
Io sono sempre stata dell’idea che non ci sia nulla di umano che possa non riguardarmi e men che meno il nostro destino finale. Sono sempre stata convinta che si debba studiare e capire quello che siamo, quali siano i nostri limiti e se ci sia un modo per superarli, per potersi rapportare anche con la morte, perché la risposta che diamo a questo termine ultimo, di fatto, determina fortemente la nostra esistenza adesso.
Per questo nella mia vita ho sempre cercato di studiare molto, perché la luce della nostra ragione spesso ha già in sé parecchie risposte, e non solo la razionalità, ma anche la coscienza degli uomini del passato ci può aiutare a capire quello che siamo veramente. Ciò che sicuramente, a mio parere, non si deve fare è arrivare alla fine della vita inconsapevoli, senza aver pensato davvero al senso ultimo di questo nascere e morire di noi e di ogni cosa.
Per questa ragione è nata anche la mia passione per i viaggi, per cercare di capire gli esseri umani anche di altri luoghi e scoprire punti di vista differenti. E poi l’arte e la cultura dell’uomo ci parlano costantemente dei suoi sogni, delle sue più alte aspirazioni e di tutto ciò che sembra stridere fortemente con il destino finale dell’annullamento.
 
LA REALTA’ DEL DOLORE
Sicuramente, se si valuta la vita umana nella sua apparenza materialistica si è certi di come andrà a finire: l’uomo nasce con fatica e dolore, il primo vagito è già un pianto e via via che gli anni passano è sottoposto alla malattia e alla vecchiaia e infine alla morte. E forse la morte non è l’aspetto peggiore, considerando che il maggior dolore si prova nella malattia e nella vecchiaia. Ho potuto constatare personalmente entrambi gli aspetti sia quello della malattia (è sufficiente stare una ventina di giorni in un ospedale per capire quanto basta) sia la vecchiaia. Per me quest’ultima si identifica con l’immagine di mia nonna paterna, morta a 99 anni semplicemente di ‘vecchiaia’ appunto, per la naturale decadenza organica: quello che tutti forse vorrebbero augurarsi e in genere si augurano. Nonostante questo, vederla ridotta impotente in un letto, rattrappita dagli anni e con la mente lucidissima, implorare il dono della morte, eppure continuare a combattere per la vita come aveva sempre fatto e fino all’ultimo, mi ha fatto molto riflettere. Questo è il nostro destino materiale, se ci va bene.
 
LA NECESSITA’ DELLA COMPASSIONE
Però sicuramente, gli uomini potrebbero fare qualcosa per se stessi e per gli altri, proprio perché se davvero si prende atto che questo è il limite della natura umana, allora si comprende anche come sia del tutto inutile e dannoso assumere atteggiamenti trionfalistici sull’essere umano e sulle sue ‘magnifiche sorti e progressive’.
Il nostro destino è quello invece, di dover abbandonare tutto a poco a poco ed, inoltre, tutto ci abbandonerà, tutto ciò che c’è in questo mondo è fatto per perire con noi o prima di noi.
Questo dovrebbe farci nascere un forte sentimento di compassione, perché tutti gli esseri umani sono accomunati dallo stesso destino di distacco progressivo dalla vita e da tutto ciò che essa rappresenta, compreso tutto ciò che amiamo e che ci dà piacere.
La pietà potrebbe alleviare le nostre e le altrui sofferenze, perché molti dei mali derivano dal nostro agire nei confronti di noi stessi e degli altri.
E d’altra parte, molte nostre azioni nascono dal desiderio di provare piacere e di possedere, illudendoci che questo possa creare in noi la felicità. Tutte le cose che abbiamo accumulato, invece, se ne andranno, e i piaceri durano solo un attimo e significano ben poco.
Bisogna meditare sul destino dell’essere umano perché non ci colga impreparati. Solo condividere e cercare di alleviare il dolore può avere un senso nella vita degli uomini. Non tentare di appropriarsi di ogni cosa, creandosi l’illusione di una falsa onnipotenza legata alle cose o alle persone che si possiedono. Il nostro mondo non è affatto compassionevole perché si basa sull’illusione che ammassando beni essi possano costituire una diga contro la realtà del destino umano. Ma ciò è del tutto ingannevole.
 
IL DESIDERIO DELL’ETERNO
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite? (Foscolo, dei Sepolcri)
 
Quello che invece l’uomo vorrebbe e non ha è ben altro. Basta conoscere il pensiero dell’uomo di ogni epoca, guardare le sue opere per capire che l’essere umano anela ad una felicità eterna e al di fuori dello spazio e del tempo. Di questo ci parla la voce degli uomini che dal passato ci raggiunge anche oggi. La perfezione dell’essere, l’eternità.
Io personalmente ritengo che, considerando tutto ciò che gli uomini hanno creato e sognato la posizione più razionale e sottolineo razionale, sia quella di credere che ci sia un oltre, un infinito che possa colmare il desiderio che la nostra natura continuamente ci ripropone, anche nella forma del piacere, ma che in realtà richiama sempre il sogno di un soddisfacimento infinito, sebbene rivolto ad un oggetto inadeguato.
Del resto anche un intellettuale illuminista come Diderot (e quindi non certo sospettabile di essere un fautore di una qualche religione) affermò: ‘Esiste solo una passione, la passioneper la felicità‘…..
Blaise Pascal parlava di una ‘scommessa’, di un salto della fede che si deve compiere per uscire dall’empasse della condanna della natura. Per conto mio ritengo che tutto ci parli dell’eternità e soprattutto che questa sia connaturata con la nostra coscienza. Forse, riprendendo l’affermazione di Diderot, siamo fatti solo di quel desiderio, alla fine. Se solo lo sapessimo riconoscere con la mente chiara, allora potremmo anche capire che non si può conseguire senza un ‘tu’ a cui rivolgerci. Ci vuole una condivisione con gli altri se si vuole arrivare, ci vuole la compassione.
 
LA RICERCA DI UN MAESTRO
Ma come fare per perseguirla? Dov’è la strada?
Sono necessari, come in tutte le altre cose lo studio e l’educazione. Tutti capiscono che si deve andare a scuola per imparare a leggere e scrivere, ma spesso non si ritiene che si debba imparare a capire la vita.
Non siamo soli in questo viaggio, c’è molta antica saggezza a cui possiamo attingere. Soprattutto ci sono esempi di vita importanti. In particolare di coloro che hanno esercitato la perfetta compassione, e che quindi hanno già percorso la strada che porta verso la felicità, il luogo verso il quale si è chiamati.
Da questo punto di vista bisogna cercare un Maestro, qualcuno che abbia già percorso la strada e imparare da lui.
Personalmente ritengo che colui che più compiutamente ha incarnato questo esempio sia Cristo, soprattutto per quanto riguarda il nostro mondo occidentale. Di recente ho letto diversi volumi sul Buddhismo e devo dire che mi hanno dato la possibilità di approfondire molto la mia fede e la mia pratica, ma ritengo che l’insegnamento di Cristo sia ancora più compiuto e perfetto.
Considero, comunque, con il massimo rispetto ed ammirazione chi attraverso un’altra religione intraprende la ricerca delle Verità ultime e credo che, se paradossalmente, non esistesse il cristianesimo probabilmente sarei buddhista; anzi, devo dire che proprio con l’aiuto degli insegnamenti del Buddha alcune verità comuni al cristianesimo sono risultate per me più evidenti; però ritengo che la rivelazione che siamo stati amati da Dio dal primo istante della nostra esistenza e fino alla Sua stessa morte non abbia eguali in alcuna altra fede.
Anzitutto perché Cristo ci parla dell’amore di Dio attraverso il suo esempio di dedizione totale a tutta l’umanità, ci mostra come il Padre non sia un’entità staccata dall’uomo, ma ci abbia voluto a sua immagine, al punto tale da generare Lui stesso, il Figlio, Figlio che è anche il Verbo, cioè la Parola attraverso cui tutto ciò che esiste è stato creato.
 
Α Ω
Questa è la grande scoperta nello studio dei testi sacri e delle meditazioni dei teologi: noi siamo fatti a Sua immagine ed è tale immagine che portiamo dentro di noi: noi siamo il tempio di essa, ma dobbiamo assumerne consapevolezza, dobbiamo vivere perseguendola, amandola e rispettandola, meditando sugli insegnamenti di Cristo perché essa diventi sempre più concreta e visibile.
In definitiva, vivere dell’imitazione di Cristo stesso. Solo perseguendo quell’immagine divina dentro di noi potremo conseguire la felicità.
‘Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto’diceva San Paolo; in realtà, credo, noi stessi gemiamo nel partorire la nostra vera natura, perché dobbiamo riconoscerla e perseguirla attraverso la pratica cioè l’azione, la meditazione e la preghiera, e non è sempre facile. Solo se faremo ‘partorire’ la realtà, però, progrediremo nel cammino anche personale. Una collaborazione alla creazione divina che nel Vangelo viene definita con l’espressione ‘lavorare nella vigna del Signore’.
Il nostro essere nel mondo è un viaggio, ‘un pellegrinaggio’ dicevano gli antichi Padri della Chiesa, perché attraverso questa prova noi possiamo imparare ciò che non passa con il tempo e ciò che invece è destinato a finire. Perché possiamo imparare a vedere ciò che è impermanente come il riflesso e la testimonianza di ciò che è eterno e così possiamo amarlo, senza attaccamento.
Siamo qui per tornare da dove siamo venuti, ma con la consapevolezza nuova che è quanto vogliamo veramente.
Tornare alla nostra origine, tornare alla nostra più compiuta Immagine.
Questa è la vera libertà: compiere le azioni per cui siamo stati fatti, cioè volte alla ricerca della felicità, intesa come vero totale appagamento della coscienza. Le azioni che corrispondono alla nostra vera natura, cioè quelle che ci rendono consapevoli di essa, ci faranno tornare alla nostra Origine perché ci faranno appartenere sempre di più ad essa.
‘Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo cherisuona o un cembalo che tintinna ‘ scrisse San Paolo, perché la Carità è Dio stesso.
Per questo nella vita presente imitando Cristo e quindi praticando tali azioni, avremo un anticipo della beatitudine, quello che Cristo chiama ‘il centuplo quaggiù’ e, infine, la vita eterna dopo la morte, cioè la compiuta visione di Dio.
Il dolore e la morte sono dunque una prova, ma non sono la parola finale sull’essere umano. Sono un mezzo per vedere con mente più chiara la verità dell’esistenza, un crogiuolo, come lo definisce l’Antico Testamento, dove l’oro si raffina. E se avremo paura ci sarà un Tu, che ha condiviso in tutto le nostre sofferenze umane al quale poter dire: ‘Signore, ho paura…’.
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