SHAME, LA TRISTE LIBERTA’

16 01 2012

Angoscia e sesso spazzatura in uno dei film più belli della stagione, interpretato da un grande Michael Fassbender


Brandon Sullivan è un uomo solo: niente veri amici, niente famiglia, solo un lavoro di successo, un appartamento minimalista vista Hudson, da cui si domina New York, e sesso freddo, asettico, brutale, reale o virtuale che sia; può essere la donna di una sera rimorchiata in un bar o la prostituta prezzolata. Non importa. Brandon, efficiente e brillante manager in ufficio, nella vita privata si aggira per New York come un animale randagio in cerca dei suoi simili, con l’incapacità di restare solo con se stesso e il desiderio di distrazione dall’ansia e dalla rabbia che cova in lui. Rifugge volutamente dal contatto umano, perché quello che vive tutti i giorni e le notti è solo un contatto di corpi dal quale non vuole essere realmente “toccato”. Tra Brandon e l’altro sesso, c’è un muro che egli stesso ha elevato, altissimo e invalicabile, fatto di regole ferree: una donna per non più di una sera, niente relazioni, irreperibile per chi lo cerca, soprattutto se donne; in realtà, però, non lo cerca nessuno, a parte sua sorella Sissy che gli chiede continuamente aiuto. Aiuto che Brandon non ha alcuna intenzione di darle.
Lui ha la sua tana da lupo, con le cene preconfezionate tirate fuori dal frigo, le chat erotiche, la masturbazione da quindicenne, le corse sfrenate nella notte per sfogarsi. Brandon, interpretato da un bravissimo Michael Fassbender (coppa Volpi al Festival di Venezia per questo ruolo), è un Don Giovanni triste, eppure le donne difficilmente resistono al suo sguardo ipnotico che emana eros da ogni parte, come un serpente che fissi la preda e la immobilizzi incantandola.

Steve McQueen (video artista inglese, passato brillantemente alla regia, omonimo del famoso attore degli anni ‘60 – ’70) fornisce un ritratto impietoso e obiettivo di uno dei tanti single incalliti di cui ormai la nostra società pullula: uomini volutamente isolati che rifuggono da qualunque responsabilità nei rapporti umani, che temono il sentimento e lo eliminano dalla loro vita, credendo di eliminare così anche la sofferenza; senza rendersi conto che in questo modo si privano semplicemente della vita stessa. Alla fine, però, la sorella Sissy, interpretata dalla brava Carey Mulligan, stanca di lasciare messaggi telefonici senza risposta, piomba a casa di Brandon senza avvisarlo. La scena che segue è tragicomica: la solitudine del protagonista, infatti, è talmente inveterata che, appena scopre la presenza di una persona in casa sua, egli pensa ci siano i ladri e la sua prima reazione è quella di cercare un’arma per difendersi. Giusto presentimento, visto che tra i due comincia una lotta psicologica senza quartiere. Sissy diventa per lui l’elemento nuovo nella sua esistenza incredibilmente robotizzata, una presenza che non sa gestire. Tanto più che la sorella, reduce dall’ennesima delusione amorosa, cerca in lui rifugio e protezione.

Di loro non sappiamo nulla, solo che sono del New Jersey e se ne sono andati molto giovani, probabilmente per sottrarsi ad una situazione difficile, nient’altro. Sono degli sradicati senza passato, almeno apparentemente, ma poi il loro vissuto è, di fatto, una zavorra insostenibile per entrambi. Al contrario del fratello, Sissy non è capace di badare a se stessa, è continuamente alla ricerca di conferme e di affetti che però durano una notte o poco più e poi scompaiono nel nulla. Rappresenta l’altra faccia della medaglia della vita di Brandon: schiacciata dall’ennesimo rifiuto, la sua urgenza di amore la fa diventare instabile, invadente, e inopportuna. Brandon sente una sua telefonata disperata all’ex fidanzato che la respinge ancora una volta. Mentre ascolta la conversazione, il suo viso è quello di un uomo che sa esattamente che cosa Sissi stia passando e che cosa lui abbia deciso di evitare come la peste: la possibilità di mettersi nuovamente in gioco e quindi di soffrire disperatamente. Quando invita a cena una sua collega di lavoro e cerca per una volta di cominciare un rapporto degno di questo nome, appare bloccato e impaurito come un novellino, terrorizzato; quando poi vuole provare a “fare l’amore” sul serio anziché semplicemente “sesso meccanico”, ad un certo punto non riesce più a continuare. Nel frattempo Sissy, sempre più incosciente è andata a letto con David, amico e capoufficio di Brandon, personaggio dalla vita squallida: classico pappagallo da bar, con moglie e figli, che non si fa scrupolo della fragilità di lei né del fatto che sia la sorella del suo collega e ne approfitta senza pietà. E pensare che aveva notato subito le braccia di Sissy piene di cicatrici, visto che non si sa neanche più quante volte la giovane abbia tentato il suicidio tagliandosi le vene. Brandon è arrabbiato con lei, è furioso perché Sissy fa riaffiorare in lui dei sentimenti che non voleva più ricordare; è una donna per la quale non può mostrare indifferenza, ma tra vittima e carnefice sceglie ancora il carnefice.

Davanti a loro c’è continuamente il deserto di una città lontana e triste, dove, parafrasando “New York New York” (cantata da Sissy in una originale versione malinconica) si sperava di arrivare al colmo del successo e ci si è ritrovati soli in riva all’Hudson come estranei a guardar scorrere la vita degli altri. L’emotività della sorella “stana” il protagonista dal suo mondo, lo mette davanti ad uno specchio: egli è diventato almeno esteriormente un insensibile cacciatore di emozioni e di possesso mentale (a proposito del sesso dice:“mi piace come mi fa sentire, come se esistessimo solo io e lei”); Sissy, invece, è sempre all’affannosa ricerca di un uomo che non la abbandoni, incapace com’è di vivere senza aver bisogno di qualcuno. Di fatto a causa del loro vissuto precedente, entrambi usano il sesso come unica forma di contatto con l’altro e come merce di scambio. Sono uguali, in realtà, simili al punto che tra loro esiste uno strano rapporto quasi simbiotico, sviluppatosi proprio nell’ambito di una famiglia con caratteri patologici. La loro relazione ricorda “Vaghe stelle dell’Orsa” di Luchino Visconti, ma il rapporto è invertito, visto che nel capolavoro del famoso regista italiano è il fratello Gianni l’anello debole della catena. C’è qualcosa di strano sicuramente nella loro storia, qualcosa che il regista non racconta, ma di cui vediamo gli effetti: “non siamo brutte persone è solo che veniamo da un brutto posto”… Durante un’intervista, ai giornalisti che chiedevano notizie sul passato dei due protagonisti, Fassbender non ha voluto rispondere per lasciare questo aspetto alla libera interpretazione dello spettatore, pur ammettendo di aver formulato diverse ipotesi a riguardo.  Forse alle spalle c’è una vicenda di violenza familiare, come dimostrerebbe la tendenza all’autodistruzione e l’incapacità di entrambi di riconoscersi sessualmente in modo maturo. Molti hanno interpretato il titolo Shame, “vergogna” come riferito alla vita che Brandon conduce da adulto, ma probabilmente rappresenta, piuttosto, quel senso di colpa e di paura da cui nasce la sua incapacità di rapportarsi col mondo. Il regista, infatti, più o meno consciamente descrive gli effetti a lungo termine di un abuso sessuale infantile: uno degli atteggiamenti tipici della vittima, infatti, è proprio la tendenza ad isolarsi e a rifiutare le relazioni affettive, oppure a fare di se stessa una merce di scambio sessuale. Probabilmente c’è un vissuto comune di fratello e sorella in cui, a fronte di una famiglia dai caratteri fortemente negativi, hanno cercato di creare un luogo mentale di protezione vicendevole, ma forse cadendo in una relazione morbosa.

 

Sissy riattiva in Brandon l’esigenza di sensazioni reali e non più solo virtuali; così il protagonista getta via il computer, ma non riesce ugualmente a imbastire una relazione con l’altro sesso e allora, in una specie di delirio autopunitivo, scende i gradini del suo vizio cercando emozioni sempre più forti e perverse. Fino al momento del brusco risveglio… Finalmente Brandon corre per un vero motivo, ma potrebbe essere troppo tardi. Il regista lascia il finale aperto: in uno scenario in cui domina un individualismo predatorio e ciascuno infligge agli altri continui traumi reciproci, fratello e sorella potranno salvarsi? Il sorriso di una sconosciuta veglia su di lui idealmente dall’inizio alla fine del film. Forse Brandon tenterà…

 



E QUESTA SAREBBE ANTIGONE? Uno spettacolo da dimenticare per le Belle Bandiere al Teatro Sociale di Brescia

12 01 2012

Ormai da parecchi anni il Teatro Stabile di Brescia ad ogni nuova Stagione di prosa ci infligge le uggiose performance delle Belle Bandiere, compagnia composta da Marco Sgrosso, Elena Bucci & C..
Già in altre occasioni ha destato un certo attonito stupore l’insistenza con la quale questo gruppo di attori venga riproposto in qualunque tipo di repertorio, anche in opere per le quali risulta assolutamente inadatto.
Se, infatti, su testi contemporanei come “L’amante” di A. Pinter o “Edda Gabler” di Ibsen, i loro spettacoli, con un tipo di recitazione piuttosto straniante e fredda, potevano anche avere un senso e in qualche modo funzionare, già con il “Macbeth” e ancor più con la “Locandiera” di Goldoni sono stati dolori: molto poco credibile Marco Sgrosso nel ruolo del crudele sovrano scozzese e, soprattutto, priva del temperamento necessario la Lady Macbeth di Elena Bucci.
Della “Locandiera”, poi, meglio non parlarne: negati completamente i presupposti dell’opera goldoniana, le Belle Bandiere sono andate semplicemente per conto loro, trasformando la protagonista da un’icona dell’intelligenza borghese ad una specie di insulso e riprovevole playboy in gonnella.
L’apoteosi negativa, però, è stata raggiunta mercoledì scorso con “Antigone”: in questo caso la compagnia ha veramente superato se stessa (in peggio ovviamente) creando un’opera lenta, senza ritmo, priva di qualunque drammaticità, svuotata completamente del suo contenuto.
E, a dire la verità, ce n’è voluto perché il capolavoro di Sofocle è veramente difficile da distruggere: generalmente riesce sempre ad imporsi per la forza straordinaria delle sue ragioni contrapposte e per il conflitto, ancora attuale, tra morale naturale e legge dello Stato. Da oggi, però, dovremo dire “quasi sempre”, visto che, alla fine, anche quest’opera è stata costretta a soccombere sotto il peso di una messa in scena a dir poco grottesca: movimenti scenici inesistenti o inutili, ritmi lenti e goffi, recitazione (?) pessima, gridolini, risolini e mossettine che, probabilmente, nelle intenzioni della regista Elena Bucci (ma parlare di regia in questo caso sembra davvero azzardato!) dovevano significare il coro… Che dire?
Dobbiamo senz’altro riconoscere alle Belle Bandiere la “gloria” di essere riusciti nell’impresa fino ad oggi ritenuta pressoché impossibile, di annichilire Sofocle e la sua immortale poesia.
Il pubblico, sbigottito, ha applaudito ben poco, lasciando la sala mentre gli attori ancora si profondevano negli inchini finali…
Rimane solo da fare un appello accorato ai direttori artistici: per gli anni a venire meditate, gente, meditate! Possibile che non ci si possa guardare un po’ più intorno?
Per adesso, intanto, chi se la sente continuerà a sorbirsi le Belle Bandiere e buon divertimento! Per parte nostra, a questo punto, abbiamo già dato…



Segreti e bugie di John Edgar Hoover

10 01 2012

Diretto da Clint Eastwood, Leonardo Di Caprio accetta la sfida di interpretare la controversa figura del fondatore dell’FBI

L’ultimo film di Clint Eastwood è dedicato ad una vera e propria eminenza grigia del potere americano, J.Edgar Hoover , fondatore e capo dell’FBI, rimasto in carica per ben 48 anni e sopravvissuto a otto presidenti con sistemi alquanto spregiudicati, come l’uso di dossier segreti e scottanti sugli uomini di governo. Censore implacabile qual era, poco prima di morire, nel 1972, si apprestava ad entrare in conflitto anche con Nixon, avendo appreso del suo tentativo di usare intercettazioni e microspie per tenere sotto controllo, ed eventualmente ricattare, politici e giornalisti (di lì a poco, infatti, sarebbe scoppiato lo scandalo Watergate). Eastwood per la realizzazione di “J.Edgar” si è circondato di un ottimo cast in cui tra gli altri spiccano Leonardo Di Caprio, che ha accettato e vinto la sfida di recitare fortemente invecchiato e travisato nell’aspetto, e Judi Dench nel ruolo dell’autoritaria madre del protagonista. Eccezionali il montaggio, le inquadrature, la fotografia che mantiene un fascino volutamente retrò, ispirandosi agli effetti del bianco e nero, con profondi chiaroscuri. Nel film, però, si respira talvolta un senso di incompiutezza, forse determinato dal tentativo di mantenere ad ogni costo un certo equilibrio nel raccontare le vicende e il carattere di un uomo che nel bene e nel male ha segnato la storia dell’America. A volte bisognava avere il coraggio di osare di più, soprattutto in fase di sceneggiatura, approfondendo alcuni episodi controversi e oscuri della storia. Per certi aspetti Hoover ricorda i classici personaggi di Eastwood – nei quali evidentemente riconosce qualcosa di sé – come il protagonista di “Gran Torino”, chiuso in se stesso e senza veri amici. Anche il potente capo dell’FBI è un tipo schivo e diffidente, totalmente dedito al proprio lavoro, ma rimasto ad un livello di affettività quasi infantile nella vita privata, bloccato emotivamente da una madre che ha fatto di lui l’unica ragione di vita e che ha enormi aspettative riguardo al suo futuro.

J. Edgar è un uomo che, essendo stato balbuziente, per riuscire a parlare in modo normale ha imparato a reagire con un ferreo autocontrollo e una volontà incrollabile. La sua smania di controllare tutto, ogni dettaglio, fa di lui un poliziotto pressoché perfetto, un organizzatore quasi infallibile, ma anche un uomo estremamente pericoloso, perfino per se stesso. Per diventare così come lo vediamo, Hoover ha dovuto, in realtà, rinnegare molti aspetti della sua personalità, sacrificando tutto alla “causa”. Alcuni hanno paragonato la lettura che Eastwood dà di questo personaggio a quella che recentemente Michael Mann, e in precedenza la cinematografia degli anni ’30, aveva dato di John Dillinger (il nemico pubblico numero uno, che proprio Hoover contribuì a eliminare) considerandole come due facce della stessa medaglia: l’anarchico trasgressore di tutte le regole e il fanatico difensore ad oltranza dello Stato, ma altrettanto pronto a violare le leggi quando lo ritenesse necessario “ per la sicurezza nazionale”. Entrambi sono accomunati dall’esibizionismo dell’apparire sui rotocalchi, nei cinegiornali come nei fumetti e dal desiderio di essere considerati degli eroi dall’opinione pubblica. Edgar Hoover è l’uomo che con pazienza certosina alla fine, dopo tre anni di minuziose ricerche, riuscirà a scovare l’assassino del figlio di Charles Lindberg, il noto aviatore, creando la polizia “scientifica”, proprio allo scopo di risolvere l’intricato caso. Nello stesso periodo, per coordinare meglio le indagini, fonda dal primitivo Bureau of Investigation, l’FBI per perseguire i reati federali della criminalità organizzata. Una storia la sua piena di ambiguità e misteri: chiuso nei suoi uffici dirige le indagini e coordina i servizi informativi – basati su intercettazioni e microspie – con il pugno di ferro, ma poi si lascia passare sotto il naso qualcosa di così grave come l’assassinio del presidente Kennedy. Pronuncia solo poche, fredde parole al telefono con il fratello Bob: “Il presidente è stato assassinato”. Poi chiude la comunicazione senza neppure attendere una risposta…

Il film, quindi, pur senza prendere direttamente una posizione, proprio attraverso queste reticenze, lascia intendere che Hoover fosse in qualche modo implicato nell’assassinio di John Kennedy, dopo i gravi scontri avuti con il fratello Robert e i documenti riservati che accusavano il presidente di frequentare un’amante “comunista”. Sempre nello stesso periodo, a causa di attività che egli considerava anti-americane, Hoover aveva inviato minacce e ricatti a Martin Luther King perché non ritirasse il Nobel per la pace; anche in questo caso non sappiamo quale sia stato il suo livello di coinvolgimento nell’assassinio del famoso difensore dei diritti civili dei neri americani. Il capo dell’FBI era convito che il suo lavoro fosse fondamentale per preservare la sicurezza degli Stati Uniti, e perseguiva i suoi scopi anche con mezzi molto spregiudicati e spietati. Paradossalmente Eastwood, non prendendo direttamente una posizione su questo personaggio, mette maggiormente in evidenza le sue ombre e soprattutto, cosa che probabilmente gli interessa di più, i lati oscuri dell’America: quella che ancora oggi con la legge patriottica (USA Patriot Act prorogata anche sotto la presidenza Obama) ritiene che si possa tenere in carcere senza processo a tempo indeterminato un detenuto straniero sospettato di terrorismo o addirittura tollera che si possano “prelevare” e imprigionare in nome della sicurezza nazionale i sospettati che si trovino nel territorio di altri paesi (non disdegnando neppure la tortura in fase di interrogatorio). L’ossessione per la sicurezza nazionale di Hoover si riflette in un atteggiamento ancora oggi tipico di molti americani ed è significativo che da questo punto di vista anche attualmente cambino i presidenti e non cambi nulla o quasi, segno che certe decisioni non vengono prese perché si pensa che molti elettori non le condividerebbero. Perciò forse bisognerebbe ribaltare il concetto e dire non tanto che il capo dell’FBI è sopravvissuto a otto presidenti, ma piuttosto che egli rappresentava lo zoccolo duro di una certa America, quella a cui tutti i presidenti, alla fine, si sono semplicemente adeguati più o meno volentieri.

Per questo a Hoover viene lasciata narrare la sua storia a modo suo, perché, per certi aspetti, è quella che una parte degli statunitensi vorrebbe sentirsi raccontare e le obiezioni degli altri, anche nei riguardi delle sue bugie, risultano, chissà perché, sempre troppo deboli. Una vita da gran sacerdote della sicurezza nazionale, immolata al lavoro, nella quale si nasconde, però, una verità che J.Edgar non poteva accettare, cioè la propria omosessualità. E’ chiaro che questo per gli ultra tradizionalisti americani è decisamente un colpo basso: vedere un loro paladino ritratto nel suo aspetto più fragile e irrisolto certo non può aver fatto loro piacere. Tant’è vero che questo film non è stato amato dagli americani, forse anche per quel trucco eccessivo che ha qualcosa di volutamente caricaturale o forse perché J.Edgar rispecchia gran parte delle loro ossessioni, l’aspetto caratteristico della volontà incrollabile, ma anche della violenza dell’America, che si sente continuamente accerchiata, minacciata da nemici interni ed esterni. Il film non è affatto rassicurante, così come “Gangs of New York” di Martin Scorsese, con il quale ha in comune l’idea di un’America retta sì da una volontà formidabile, ma allo stesso tempo dall’autoritarismo e dalla violenza esercitata anche da chi dovrebbe far rispettare le regole.

Perché anche questa è l’America, bellezza!

 

Rossana Cerretti



Fidelio: un messaggio agli uomini di ogni tempo

8 01 2012

La grande musica di Beethoven ci parla di diritti umani, libertà e fratellanza come basi autentiche della convivenza civile

«Di tutte le mie creature, il “Fidelio” è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte».


A conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, il Teatro Regio di Torino ha aperto la stagione 2012 riproponendo, con un nuovo allestimento, il Fidelio di Ludwig van Beethoven. Un’opera ancora modernissima, che va oltre le epoche storiche restando sempre attuale, ed è forse questa la ragione per la quale ai tempi in cui fu composta, tra il 1803 e il 1814, non fu compresa, ma restò un unicum nel panorama della lirica ottocentesca e per giunta sempre gravata dallo spettro dell’insuccesso. “Fidelio” è paragonabile alle opere di Mazzini, Rousseau o Beccaria, troppo avanzate per la loro epoca e ancora oggi capaci di porre fondamentali domande sul rapporto Stato- società civile, sull’applicazione dei diritti umani in generale, e, tema oggi di stretta attualità, sui diritti anche di coloro che sono colpiti da provvedimenti giudiziari e privati della libertà personale. In altre parole, sulla condizione nelle carceri. Al centro della vicenda c’è, infatti, la drammatica situazione di un prigioniero, Florestan, incarcerato ingiustamente, per aver denunciato i crimini di un funzionario del regime. Gettato in una cella di isolamento senza processo, la sua storia ricorda i tanti casi di desaparecidos delle dittature dei nostri giorni. L’opera, però, mette in discussione anche la condizione del sistema carcerario nel suo complesso, l’orribile sensazione del buio da cui sono oppressi i prigionieri e che ci ha ricordato per il senso di claustrofobia, un celebre dipinto di van Gogh, (attualmente a Brera nell’ambito della mostra dedicata al Museo Puškin di Mosca), dove in un pozzo profondissimo e stretto si vedono girare in tondo i carcerati nell’”ora d’aria”. Tornano alla mente le orribili visioni del disumano carcere di Guantanamo (tuttora aperto, nonostante le promesse del presidente Obama e le censure della Corte Suprema) dove sono segregati senza processo e senza diritti i presunti terroristi islamici di al-Qaida. Senza andare molto lontano, poi, possiamo ricordare anche ciò che sta succedendo oggi nelle carceri italiane, soprattutto per le problematiche irrisolte del sovraffollamento.


Se l’opera del grande compositore tedesco rappresentasse anche soltanto una denuncia sociale, già assumerebbe di per sé una valenza universale di grande portata storica, ma essa si spinge ben oltre, al di là del fatto contingente, evidenziando valori filosofici elevati e nobili su cui basare autenticamente la convivenza civile e lo Stato. Beethoven riprende a suo modo dalla Rivoluzione francese il concetto di fratellanza che, dal suo punto di vista, non può essere disgiunta dalla libertà e dalla verità. L’opera propone una profonda meditazione sui limiti della possibilità coercitiva dello Stato nei riguardi del cittadino, sul valore della pena a cui i condannati sono sottoposti, ma anche sul rapporto tra vita e moralità pubblica e privata. L’altro elemento fondamentale del Fidelio è, infatti, il profondo legame tra umanità e amore coniugale, tra fratellanza tra gli uomini e fedeltà di coppia in un’identità tra etica pubblica e privata che stupisce per la nettezza e l’incisività con cui viene affermata. Non possiamo dimenticare che ancora oggi questa posizione così chiara, legata alla trasparenza dei comportamenti è contraddetta e mascherata dietro ipocrisie e doppie vite difese ad oltranza in nome della privacy. In realtà, sarà anche una dura presa di posizione, ma per Beethoven ciò che avviene nella vita privata trova una sua continuità anche nell’ambito pubblico. Chi agisce bene nel poco agirà bene nel molto e, al contrario, chi tradirà nel poco lo farà a maggior ragione anche nelle questioni più importanti.


Altro elemento di assoluta novità e volutamente rivoluzionario è far assumere il ruolo di eroina e salvatrice ad una donna, come vedremo poi anche nell’Attila di Verdi, sebbene in un contesto del tutto diverso. Se per Verdi il ricorso ad una donna come vendicatrice dell’onore della patria mira a sottolineare la viltà di coloro che dovrebbero combattere contro l’invasore, per Beethoven la figura di Leonore, la protagonista, rappresenta il trionfo della verità con le sole armi del coraggio, del sacrificio e dell’amore puro che diventa compassione. L’uso del travestimento di Leonore, che per tutta l’opera si nasconde sotto le mentite spoglie del giovane carceriere Fidelio, al di là delle apparenze, non ha nulla a che vedere con la commedia, ma mette in luce piuttosto la drammaticità dell’esistenza in una società violenta, tirannica e prevaricatrice, che non consente a nessuno di essere se stesso e che trasforma una donna in una combattente disposta a tutto pur di salvare la vita del marito, e, in qualche modo, anche degli altri prigionieri. Per questo il personaggio di Leonore è simile a quello dell’”Efigenia in Tauride” di Goethe, dove la giovane, accompagnata dal fratello Oreste e contro il parere dell’amico Pilade, decide di informare della loro partenza il re dei Tauri e di accettare il rischio della condanna. Ella intraprende la strada più difficile: quella di veder trionfare la verità oppure morire, contraddicendo, sotto questo aspetto, in modo sostanziale il finale scritto da Euripide. La verità sostenuta dalla coscienza morale (“l’interno impulso” così ben sottolineato in una celebre aria della protagonista) è dunque il concetto centrale dell’opera unito al senso del dovere che essa impone. Questi due aspetti fondamentali animano entrambi i protagonisti Leonore e Florestan, così che tale unità di intenti costituisce il vero punto di forza della coppia. La verità contro la tirannide è quella che Florestan ha affermato fino al punto di rischiare la vita, la stessa che Leonore sostiene come un vessillo invincibile dell’umanità nuova. Verità che si traduce nell’opera nella presenza luce, e nella sensazione indescrivibile dei carcerati quando finalmente riescono a rivedere il cielo dopo anni in cui ciò era stato impossibile. Il loro inno alla luce e alla libertà appare in qualche modo complementare a quello della nona sinfonia. Quest’ultimo, infatti, inizialmente doveva essere dedicato alla libertà, ma poi fu modificato per questioni di censura. E’ significativo, comunque, che le due parole in tedesco risultino molto simili. Del resto, sempre per motivi di censura la trama del Fidelio nel corso delle diverse stesure fu via via “addolcita” perché considerata troppo libertaria e così si spiega anche l’esaltazione della giustizia del sovrano (rappresentata dall’arrivo del ministro Don Fernando) alla fine dell’opera, esaltazione che, comunque, non può prescindere dal diritto.

L’affermazione dei diritti civili contro la segregazione passa per Beethoven anche attraverso il riconoscimento dell’umanità e della pietà, anche nel caso in cui il carcerato sia veramente colpevole. Leonore, infatti, vuole salvare il prigioniero dalla morte indipendentemente che si tratti o meno di suo marito, per puro sentimento di compassione e fratellanza. Questo messaggio universale si estende però idealmente a tutti gli esseri umani, alla loro condizione, in cui solo la fratellanza e la solidarietà possono concorrere al raggiungimento della felicità. Basta un solo uomo per spingere gli altri verso il bene, purché essi manifestino un minimo di apertura verso l’altro, come nell’opera è dimostrato dal vecchio capocarceriere Rocco, che si lascia impietosire dalle richieste di Fidelio in favore dei prigionieri. Una società che non sia basata su questi presupposti, per Beethoven non ha vere speranze. Molto interessante in questo senso anche l’interpretazione del personaggio di Jaquino, che resta sordo ad ogni richiamo di sensibilità umana, come invece richiederebbe il continuo bussare alla porta del carcere nella prima scena. Con questa immagine l’autore ha voluto simboleggiare da un lato le ragioni dell’umanità che bussano continuamente alla porta di ogni uomo e dall’altro anche il rifiuto di chi intende la vita solo come possesso e personale interesse. Marzelline, infatti, si innamora di Leonora- Fidelio, per le sue qualità morali, le stesse che Jaquino non possiede.
La musica esprime in maniera mirabile i sentimenti e le idealità dei personaggi con i magistrali chiaroscuri, i momenti lirici, l’esaltazione della luce e del bene, nonostante la drammaticità della condizione umana, aprendo una visione quasi mistica sull’idea di libertà che accomuna tutti gli esseri umani, sebbene all’epoca la società fosse ancora autoritaria e rigidamente divisa in caste chiuse.

Come anticipavamo, altro elemento interessante, che distingue Beethoven da Verdi, è la fiducia tutta illuminista del primo nella possibilità di avere un monarca che sapesse governare con giustizia; questo nelle opere di Verdi non può più verificarsi perché i governi assoluti descritti dal compositore di Busseto sono figli della Restaurazione e non certo della Ragione, animati da cupidigia, corruzione, sopruso, al punto tale da aver diseducato il popolo, mosso solo dall’incoscienza e dalla paura; così anche il sovrano clemente non viene rispettato, ma eliminato. In questo senso nelle opere di Verdi domina una sostanziale sfiducia nel governo e/o nel suo rapporto con il popolo; pessimismo che non troviamo in Beethoven, segno che purtroppo i tempi erano cambiati e c’era stata una sostanziale regressione rispetto agli alti ideali della Rivoluzione francese al punto che tutto sembrava perduto.
Nel “Fidelio”, invece, il positivo epilogo finale è dovuto alla provvidenza e al diritto, poiché si ritiene che Dio non possa abbandonare l’uomo, ma anche che possano trionfare le ragioni della civiltà contro la barbarie. In questo senso l’opera di Beethoven è un miracolo, l’alba di un nuovo giorno dell’uomo che ancora oggi possiamo in gran parte solo immaginare.
Non c’è da stupirsi che un’opera così moderna e all’avanguardia fosse poi trascurata a lungo nell’Ottocento, e che sia stata riscoperta solo piuttosto di recente, pur avendo ispirato anche grandi compositori come Wagner e Mahler. Ciò spiega anche la condizione di Beethoven, che sempre si sentì isolato, esiliato nella propria epoca, amato dai contemporanei, ma, come un secondo Michelangelo, mai fino in fondo compreso, per l’universalità e l’idealità sovrumana delle sue visioni.
Il nuovo allestimento del Regio di Torino, in coproduzione con Opera Royal de Wallonie, per la regia di Mario Martone (autore del bel film sul Risorgimento italiano “Noi credevamo”) ha valorizzato in modo significativo le tematiche dell’opera sia nella scenografia di Sergio Tramonti, sia per la scelta di smorzare i possibili toni da commedia del primo atto e di esaltare, invece, l’elemento drammatico e le parti corali dove maggiormente si dispiega il messaggio universale dell’autore. La scelta di inaugurare con quest’opera la nuova stagione del Regio si inquadra perfettamente nelle celebrazioni conclusive dei 150 perché ricorda non solo gli ideali risorgimentali e ciò che è stato realizzato, ma anche quanto resta da fare, ciò che ancora di quegli ideali resta incompiuto o tradito.
Ci è capitato di sentire tra il pubblico anche qualcuno che ancora oggi non sa comprendere la bellezza del Fidelio definendolo “la solita opera tedesca, pesante”. Questo, sia detto senza mezzi termini, significa non capire la musica e forse neppure la funzione della lirica e del teatro e limitarsi alle storielle sentimentali che a prima vista il melodramma racconta. Fortunatamente ad assistere alla rappresentazione c’era anche un pubblico colto e attento che ha partecipato con calore e si è sinceramente commosso.
Per quanto riguarda gli interpreti dello spettacolo del giorno 11 dicembre, il soprano Ricarda Merbeth è stata molto applaudita dal pubblico per le qualità vocali e per la grande espressività con la quale ha dato vita ad un efficacissimo personaggio di Leonore; notevoli i mezzi vocali di Lucio Gallo che ha interpretato magistralmente il “cattivo” della storia, cioè Don Pizzarro; ottimo il soprano Talia Or (Marzelline) che ha tratteggiato il proprio personaggio con intelligenza e profondità, senza cedere a tentazioni macchiettistiche; buone anche le interpretazioni del basso Franz Hawlata nei panni del capocarceriere Rocco, di Robert Holzer (Don Fernando e del tenore Alexander Kaimbacher che impersonava il portinaio Jaquino. Unico caso in controtendenza il tenore Ian Storey che è apparso in grave difficoltà nella parte di Florestan: la voce è risultata poco timbrata, con acuti compromessi e problemi di intonazione.
Il direttore Gianandrea Noseda, che già in altre occasioni ci ha entusiasmato per le sue doti interpretative, su questa straordinaria partitura di Beethoven ha, se è possibile, superato se stesso, esprimendo lo spirito romantico del grande compositore tedesco, la sua filantropia illuministica, la luce della speranza, l’elegia dolcissima dell’amore come l’ira e la disperazione, lo sforzo titanico per affermare la verità contro tutti, il grande sogno della salvezza dell’umanità e della civiltà; tutto questo attraverso le innumerevoli sfumature dell’interpretazione musicale che con sapienza sono state raccolte e comunicate in un’unica grande e complessa unità concettuale e stilistica.

Rossana Cerretti



Sapientia ad cognoscendam veritatem

6 01 2012

La festa dei Magi è sempre un momento di meditazione per me.
Il primo aspetto che mi ha colpito oggi è il valore dello studio: questi saggi solo attraverso l’esercizio della scienza, l’approfondimento della meditazione e la ricerca della verità, hanno conosciuto Dio e l’hanno amato al punto da partire dai loro palazzi per affrontare un lunghissimo viaggio di cui

certamente non conoscevano fino in fondo il destino finale. Forse non venivano neppure tutti e tre dallo stesso luogo, quindi avevano intuito la grandezza dell’evento anche partendo da presupposti e da componenti culturali forse diversi. Il sapere è fondamentale, la via del sapere rende fedeli e non fa disperare della meta, rende saldi i presupposti dell’azione e del cammino, la certezza del viaggio.

Il sapere fa conoscere il destino buono di ogni cosa, e sconfigge la disperazione, anche di fronte alla drammaticità del presente. E’ straordinario ciò che essi riconobbero in quel bambino nato da poco: i doni che gli portarono testimoniano che, pur non avendo alcun indizio esteriore essi giunsero a tutte le giuste conclusioni, furono i primi teologi di Cristo: coloro che riconobbero la regalità, la sacralità e il sacrificio fino al martirio, ma anche l’immortalità del corpo stesso di Gesù, poiché la mirra era usata per imbalsamare i corpi. Videro tutto. Lo videro con gli occhi della mente e con la certezza straordinaria che il cielo, il macrocosmo, era rispecchiato nel microcosmo, come un’unica entità universale che chiedeva solo di essere adorata e compresa.

I magi sapevano guardare il destino all’interno del grande Disegno dell’universo, sapendo che ogni passo, ogni particolare, ogni minuscolo essere concorre alla grande meravigliosa unità nella mente divina. Perciò le stelle narrano la gloria di Dio, le opere sue proclama il firmamento. Lo capirono solo guardando i segni della creazione, studiandoli, amandoli, facendoli propri, traducendoli in cammino e traccia. Miracolo della rivelazione. Non si deve disperare del tempo, il tempo è solo l’opera misteriosa della sua manifestazione.
Tutto è già dentro di noi, ma la nostra mente non deve mai smettere di cercare e osservare. Amare il cammino, questa è la vera sapienza.

Dedicato ai saggi di ogni cultura e ogni tempo



Don Giovanni l’immortale

2 01 2012

L’apertura della Stagione alla Scala tra stelle in crisi e “trovate” del regista Robert Carsen

Il “Don Giovanni” con il quale la Scala ha aperto la stagione 2012 si annunciava con un primo cast prestigioso: da Peter Mattei a Ildebrando D’Arcangelo (e/o Bryn Terfel), da Barbara Frittoli a Giuseppe Filianoti fino a Anna Netrebko, al punto da far registrare il tutto esaurito già all’apertura delle vendite (con immancabili polemiche annesse e connesse) e code interminabili per aggiudicarsi nei giorni di spettacolo i tradizionali 140 posti di loggione. Anche la regia di Robert Carsen era molto attesa perché presentata come decisamente innovativa e originale, secondo lo stile dell’estroso regista canadese. Perplessità, invece, già dall’inizio sul nome di Barenboim come direttore, notoriamente non molto amato dai loggionisti della Scala se non nel repertorio wagneriano e affini. L’esito finale ha in parte deluso le aspettative, almeno a giudicare dalla recita del 23 dicembre, ma ha anche fornito interessanti conferme e proposto ingegnose novità nell’interpretazione dell’opera.
Protagonista fin troppo invasivo, proprio il regista Carsen con tutte le sue trovate più o meno originali, coadiuvato da Michael Levine per le scene. L’idea di fondo consiste nell’ambientare il personaggio di Don Giovanni e le sue infinite storie di trasgressione in uno spazio metafisico per eccellenza, cioè nel teatro stesso, sottolineato prima da uno specchio che riflette l’interno della Scala, poi rompendo la finzione scenica attraverso le luci di sala accese in diversi momenti dello spettacolo. Le strutture dietro le quinte irrompono spesso sul palcoscenico, per poi ricomporsi in pannelli mobili che riproducono, creando infinite prospettive, il sipario rosso del teatro, volutamente ispirati alla tradizionale copertina dei libretti scaligeri. Ma quale sarebbe il significato di questo strano apparato? Il tentativo di Carsen, in parte riuscito, è stato di dare vita al mito di Don Giovanni piuttosto che raccontare la sua storia. In effetti, questo personaggio va oltre le definizioni di uno o dell’altro scrittore: dalle prime caratterizzazioni dell’”Ateista fulminato” della Commedia dell’arte a “El Burlador de Sevilla” di Tirso de Molina, da Moliere a Mozart fino a Kierkegaard e Camus ognuno ha inventato per l’inguaribile libertino nuove vicende da raccontare, e altrettante interpretazioni; episodi che rappresentassero aspetti diversi della sua personalità ed esemplificassero il giudizio di ogni autore a riguardo, ponendo l’accento, a seconda delle epoche, su svariati elementi.

Così Mozart e Da Ponte, da buoni illuministi, in Don Giovanni criticano soprattutto l’eccesso, la “barbarie”, intesa come incapacità di vivere secondo regole comuni; Moliere, invece, vede in lui un prototipo della corruzione di alcuni profittatori sociali, simile in questo a Tartufo, un affabulatore imbroglione che usa la nuova scienza per scopi nient’affatto scientifici, anzi, del tutto prosaici, e si trincera dietro il privilegio nobiliare. Sta di fatto, però, che Don Giovanni è stato spesso accostato proprio al personaggio di Faust per il comportamento trasgressivo e delinquenziale, quanto irriducibile; in questo senso Don Juan appare privo di redenzione più ancora di Faust anche perché incapace di provare paura perfino di fronte alla morte. Don Giovanni, perciò, da alcuni, come, per esempio, Albert Camus, è stato identificato nel prototipo dell’uomo assurdo, il ribelle, cioè l’emblema della libertà senza limiti, slegata dal futuro, dall’interesse e dalla contingenza. In definitiva egli incarna un vero e proprio superuomo senza speranza che va incontro all’autodistruzione senza rimpianti. E in effetti, il suo mito per quanto esecrato, non solo sopravvive, ma prospera ancora oggi. Questi sono i presupposti da cui è partito Carsen contrapponendo il carpe diem di Don Giovanni e il suo desiderio di assaporare ogni aspetto della vita in tutte le sue forme, ai divieti del potere. Così si spiega la scelta di far comparire nel primo atto il Commendatore dietro gli spettatori del palco reale. Don Giovanni, quindi, continua ad abitare tra noi, amato-odiato dalle donne e ammirato-invidiato dagli uomini, al punto che entrambi i sessi non possono fare a meno di subirne il fascino.

Tutte sono Elvira, Anna o Zerlina, incapaci di resistere alle sue seduzioni, tutti sono un po’ complici, come Leporello che, pur criticandolo, si identifica in lui e lo imita appena può. L’intenzione di Carsen era appunto quella di dimostrare come Don Giovanni non abbia mai smesso di andare in scena: egli è dunque immortale, mentre i suoi detrattori sono solo piccoli uomini come tutti gli altri, destinati ad essere dimenticati dopo la loro breve vita. Questo il senso dell’operazione metateatrale dove il regista suggerisce che i personaggi sulla scena siano consapevoli di stare recitando il Don Giovanni o, addirittura, facciano parte del pubblico stesso dello spettacolo e assistano divertiti all’azione; questo spiega anche le frequenti incursioni in platea e nei palchi circostanti degli interpreti durante la rappresentazione. In definitiva, nonostante le donne e gli uomini di tutte le epoche abbiano sempre demonizzato Don Giovanni, questo personaggio continua ad essere a amato e ricercato come un archetipo del mondo moderno: incarnazione dell’individualismo e del materialismo della società post galileiana e antesignano della relatività soggettiva e scettica della morale. Nello stesso tempo, la sua irriducibilità lo pone proprio in un confronto-scontro di aspirazione e repulsione con l’assoluto: è talmente “anti” da diventare egli stesso un concetto metafisico. In questo senso Carsen ha creato un’elaborazione scenica ingegnosa e con diverse invenzioni interessanti. Il risultato, però, non è molto coeso e coerente, e a volte la macchinosità dell’impianto prende il sopravvento sulla rappresentazione che diventa eccessivamente caotica e invasiva rispetto alla musica e all’azione scenica.


Per quanto riguarda i cantanti, lo spettacolo è stato caratterizzato da luci ed ombre: Peter Mattei è stato un ottimo Don Giovanni sia dal punto di vista vocale sia per l’interpretazione del personaggio, cinico, dandy, temerario quanto basta. Mefistofelicamente attraente, esaltando l’aspetto della vita come gioco vitalistico. Ildebrando D’Arcangelo è stato un Leporello, ancora migliore, comico, divertente, esilarante caricatura del padrone. Le voci di entrambi, solide e di bel timbro, non hanno mostrato difficoltà o incertezze di rilievo. Barbara Frittoli si è distinta per essere una Donna Elvira di carattere, ma innamorata perdutamente di questo protagonista inafferrabile dei sogni femminili; dotata di una sicura tecnica, ben utilizzata nell’interpretazione. Per sottolineare la sua situazione di eterna innamorata-disperata Donna Elvira recita praticamente per tutto lo spettacolo in sottoveste, inizialmente nascosta sotto un impermeabile “da viaggio”: ironia del regista, come versione femminile dell’esibizionismo tradizionalmente maschile. Carsen del resto, immagina che tutte le donne di fronte a Don Giovanni comincino a spogliarsi anche senza volerlo – Donna Anna compresa – con grande scandalo dei puristi, che avrebbero voluto fosse ribadito il tentativo di violenza carnale del protagonista sulla figlia del Commendatore. Ma naturalmente, ciò non era consentito dalla lettura dell’opera data dal regista. A questo riguardo è da segnalare anche la presenza del nudo con la cameriera di Donna Elvira che, dopo aver amoreggiato con Don Giovanni, assistendo alla famosa scena dello scambio con Leporello, si alza dalla sedia e torna indietro, vestita delle sole autoreggenti, per portarsi via il libretto dell’opera.


Purtroppo Anna Netrebko, molto attesa come donna Anna, ha dato forfait alla recita del 23 dicembre come già si era verificato nella precedente. Così, con disappunto, qualche loggionista ironicamente ha commentato: “Insomma praticamente aveva già fatto le valigie”. Delusione del pubblico a cui non ha posto rimedio la sostituzione con Tamar Iveri. La sua performance è apparsa debole, come del resto la voce: l’emissione ha dato una generale impressione di difficoltà, con suoni spesso poco udibili oppure, nei momenti di maggiore impegno, quasi urlati e scarsamente controllati. Giuseppe Filianoti, noto interprete nel repertorio belcantistico è apparso in difficoltà negli acuti e con problemi di intonazione rilevati a volte anche con mormorii inequivocabili del pubblico. Molto applauditi da alcuni Anna Prohaska (Zerlina) e Štefan Kocán (Masetto). In realtà soprattutto Zerlina ci è parsa dotata di una voce veramente esile, poco aggraziata e piuttosto incolore nell’interpretazione. Abbastanza bene Kwangchul Youn nei panni del Commendatore, soprattutto nella parte finale della statua misteriosa e orrifica. La direzione di Barenboim, confermando i timori iniziali, non ha convinto: soprattutto è apparsa priva di brio, piuttosto pesante e lenta, tra l’altro in netto contrasto con le scelte registiche, che, come abbiamo visto, esaltavano l’ironia e l’aspetto giocoso della coppia Don Giovanni-Leporello. Tra il pubblico, c’è stato anche chi non ha digerito un finale controcorrente rispetto alla tradizione, ma non bisogna mai dimenticare che sia Mozart sia soprattutto Da Ponte incarnavano con la loro vita, fatta di genio e sregolatezza, proprio il mito di Don Giovanni, al di là dell’epilogo apparentemente moraleggiante dell’opera.

Rossana Cerretti