L’EDIPO RE DI FRANCO BRANCIAROLI – Gloria e disfatta di un uomo che credeva di conoscere se stesso

28 04 2010

Franco Branciaroli ci ha abituato a interpretazioni originali dei grandi classici del teatro, scelti anche per la loro caratterizzazione simbolica e filosofica che scandaglia le radici stesse  della vita umana e del mondo. Il suo Edipo è tragico ed ironico allo stesso tempo: vittima ridicola e megalomane della propria hybris, ma anche condannato a pagare per colpe non sue, incestuoso assassino dei parenti, perché per primo condannato a morte dai suoi stessi genitori.

 

Libero di camminare, ma in realtà viandante legato al suo destino di identità perduta come indica l'emblema di quei piedi forati mai del tutto guariti.  Impotente, dunque, nonostante la sua continua pretesa onnipotenza, evidenziata ironicamente da quell'ossessiva pretesa: "Penso a tutto io". Edipo risolve enigmi, tutti quelli che la ragione può capire, ma poi ci sono quelli che né la ragione né la società possono accettare e proprio sulla realtà che supera qualunque umana previsione che Apollo colpisce a morte Edipo. Il re è finalmente e dolorosamente nudo, come qualunque essere umano di fornte al proprio destino.

 


 


 



TANNHAUSER E LA “MANO” DI DIO – La Fura dels Baus e il suo allestimento super tecnologico alla Scala

13 04 2010
Un’Ouverture come quella del Tannhauser, andato in scena alla fine di marzo alla Scala, fa subito pensare alle visioni più solenni, ai grandi misteri della nostra esistenza, alle passioni, all’energia vitale che pervade ogni fibra dell’essere umano, al suo slancio verso un mondo «altro», cosmico, forse incomprensibile e irraggiungibile se non attraverso l’arte e la sua conoscenza profonda e onirica dell’essere. Riconoscendosi nelle affermazioni di Schopenhauer, nella musica Wagner cercava l’espressione stessa della Volontà di vita, il misterioso motore del mondo, perpetuo ed eterno come la sua «Melodia infinita», da trascendere attraverso l’arte nella visione degli archetipi universali della Bellezza e dell’Amore. Tannhauser rappresenta l’autonomia dell’artista rispetto alla società, ma anche alla divinità e la sua certezza di non appartenere ad alcun mondo e ad alcun potere, proteso nella ricerca di una propria via, la via della libertà, quella che né il Venusberg né la Wartburg gli consentono. Il leggendario cantore intende levarsi oltre e al di sopra del divino se per divinità si intende un’entità che mira ad imbrigliare l’uomo nei meccanismi di una rivelazione, di una conoscenza data per acquisita e quindi, in qualche modo, non conquistata e né cercata.
Tutti gli chiedono di accettare quella conoscenza e quel limite, lo implorano di fermarsi, di non continuare il suo cammino, ma Tannhauser, il trovatore profetico, non appartiene né al platonismo senz’anima né a Venere, perché ciò che davvero lo spinge è lo spirito dionisiaco che unisce indissolubilmente le più grandi esperienze mistiche e i più estremi piaceri carnali. L’artista deve conoscere tutto, solo così potrà apprendere ciò che esiste al di là. La Fura dels Baus e il regista Carlus Padrissa hanno colto pienamente questo aspetto del Tannhauser, tutto proteso verso la rivelazione delle grandi verità sul mondo e sull’uomo in un affascinante viaggio alle origini della vita attuato non con i mezzi della scienza, ma con quelli dell’arte. Se poi alle immagini sublimi che vorticano davanti agli occhi dello spettatore aggiungiamo la direzione del maestro Zubin Metha, che valorizza pienamente la meravigliosa varietà del cromatismo wagneriano, l’effetto è assicurato. La musica di Wagner con le sue molteplici sonorità, con il tipico andamento a spirale che galvanizza lo spettatore fino al parossismo assume così una potenza trascinante, si riempie di suoni evocativi, di vento, di acque, di ninfe e di abissi del tempo e dello spazio, per poi ritornare ai richiami della terra, ai prati e ai boschi, alle danze e agli armenti. Intanto sulla mano della divinità che sempre sovrasta la scena (sofisticato gioiello di automazione meccanica) viene scritto incessantemente, racchiuso in una serie infinita di simboli, il destino dell’uomo e del mondo.
Sono state ideate visioni e «macchine» altamente tecnologiche per questo allestimento, utilizzando costantemente proiezioni dietro e davanti alla scena, evocando così un paesaggio sempre surreale, sia all’interno della grotta del Venusberg sia all’esterno di essa nel cosiddetto «mondo reale». Cosiddetto perché per La Fura del Baus forse è più reale il Venusberg di ciò che noi consideriamo «vero». Un omaggio a tutti i grandi visionari del passato, coloro che con le loro ardite innovazioni hanno permesso allo spirito umano di procedere nella civiltà. Giunto nel mondo fenomenico, infatti, Tannhauser si ritrova prima in un deserto popolato da strani cavalieri primitivi, poi deve fronteggiare la gara della Wartburg ambientata in una sorta di corte di un antico maraja, una bollywood coloratissima e vacua che nulla ha della solennità drammatica dell’arte del grande trovatore.
L’amore cantato dagli altri poeti non ha carne né sangue, non è sofferto né vissuto. Soprattutto nessuno è consapevole che esso con la sua primitiva e ancestrale energia è il vero e unico motore del mondo, ciò che suscita la tragica quanto insopprimibile, perché profondamente umana, volontà di vita. Per tutti gli altri l’amore è uno stilema senza corpo né anima, una fredda entità platonica. Questo emerge dall’allestimento geniale della Fura del Baus: il mondo reale è il vero velo di Maya assai più del Venusberg da dove si sprigiona la vita di ogni essere. Anche la grotta di Venere, il luogo dell’immortalità, sta però stretto al grande cantore erede di Orfeo. Egli lo afferma chiaramente fin dall’inizio dell’opera: come un novello Ulisse dell’arte egli ha bisogno di soffrire e morire, toccando così l’essenza del mondo. Di fronte alla sua poesia «scandalosa», perché vera, soltanto Elizabeth applaude, perché forse ella rappresenta l’elemento apollineo che sempre si accompagna al dionisiaco, perfetto, ma inscindibile dal suo compagno sotterraneo e nascosto che ne è l’anima stessa. Così, alla fine, Tannhauser si salverà morendo, non per il perdono della divinità, ma per la sua stessa capacità di sublimarsi e andare oltre il pensiero, insieme alla perfezione celeste di Elizabeth. Il prezzo da pagare è il passaggio nel mondo dello spirito, il raggiungimento di un’altra dimensione. Come sempre in Wagner la sublimazione e l’inscindibilità finale avvengono attraverso l’unione con l’assoluto che può compiersi pienamente solo con la morte. Se l’allestimento e la regia – ingiustamente fischiati dal pubblico alla prima per le loro caratteristiche così innovative – e la direzione di Metha hanno fatto di questo Tannhauser una versione da ricordare, non altrettanto si può dire, purtroppo, dei cantanti (almeno nello spettacolo che abbiamo seguito il 27 marzo scorso). Innanzitutto perché il tenore Robert Dean Smith, mancava della potenza necessaria per sostenere il ruolo del protagonista che dovrebbe essere dotato di grande energia comunicativa ed emotiva. Del resto il personaggio di Tannhauser richiede delle capacità di tenuta vocale ai limiti dell’eccezionalità. Tra le interpreti femminili la migliore è stata sicuramente Anja Harteros una Elizabeth sensibile e di notevole espressività, ma anche Julia Gertseva (Venus) si è distinta seppure con qualche incertezza. Non altrettanto si può dire di Roman Trekel (Wolfram) che è apparso spesso in difficoltà e ha interpretato il famosissimo «O du, mein holder Abendstern» senza alcuna passione né chiaroscuro.
Più che gli interpreti, insomma, è stato interessante l’allestimento in generale e l’immaginoso susseguirsi di colori e suoni in una continua sarabanda di visioni che si esprimono in modo metafisico e surreale e interpretano egregiamente quella mistica pagana e decadente, estetizzante ed eroica tipica dell’universo poetico wagneriano. Da questo punto di vista si può parlare senz’altro di un’occasione perduta.


LA DANZA MACABRA DELLE NUVOLE DI ARISTOFANE – Un giudizio universale alla rovescia firmato Antonio Latella

4 04 2010

Tra i titoli più interessanti di questa Stagione di prosa spiccano Le nuvole di Aristofane, testo complesso e di difficile lettura, portato magistralmente in scena di recente al Sociale di Brescia dalla Compagnia del Teatro Stabile dell’Umbria per la regia di Antonio Latella.
Un Latella geniale affronta Aristofane da un punto di vista molto attuale e, come già in altri suoi allestimenti, particolarmente attento nella scelta delle simbologie capaci di mettere in crisi il pubblico e coinvolgerlo in uno spettacolo interattivo e provocatorio.
L’indiscussa maestria degli attori che collaborano con il noto regista è ormai assodata e anche questa volta Marco Cacciola, Annibale Pavone, Maurizio Rippa e Massimiliano Spezianinon si smentiscono, capaci, come sono, di sostenere ritmi scenici forsennati, in un mix riuscitissimo e molto ben interpretato di mimo, parola, danza e canto. Un tentativo di far rivivere nella modernità il connubio delle varie arti tipico del teatro greco in una messa in scena veramente ingegnosa e straordinaria.
Il tema di fondo dell’opera è noto: da un lato il pensiero dell’ultra conservatore Aristofane e dall’altro la corruzione della democrazia impersonata da Socrate, che, come si sa, era particolarmente inviso al commediografo ateniese della seconda metà del V secolo. Socrate viene ritratto come un sofista che mette in crisi completamente i miti e i valori del passato per sostituirli con il nulla, cioè con le nuvole al posto degli dei. Adesso, sostiene Aristofane, anziché l’ordine del Fato e del mito governa il turbine ovvero il caos, e le nuvole rappresentano il crollo di ogni moralità, i residui della democrazia, le mummie viventi di un sistema obsoleto espressione di potentati e di «saggi» capaci ribaltare il significato stesso della legge. Un concetto espresso dal regista in uno stile millenaristico da «cripta dei Cappuccini»: scheletri su scheletri del pensiero e della società piovono sul palcoscenico e lo sovrastano appesi davanti agli occhi degli spettatori allibiti in una sorta di giudizio universale al contrario (perché i giudici sono i morti e non gli dei) al quale nessuno può restare indifferente. Tra colte reminiscenze del Giudizio finale del Signorelli, le mummie obsolete sono quelle che governano lo Stato e si autogiustificano, manipolando il giusto e l’ingiusto in un vuoto gioco dialettico, eppure, sembra sottolineare il regista, una volta eliminate, dopo di loro ci sarà solo il diluvio.
Latella, infatti, sceglie di dare un particolare taglio ad Aristofane: rispetto al testo evidentemente schierato, la sua interpretazione fa notare, invece, che l’alternativa alla democrazia, sia pur corrotta e imperfetta può essere soltanto una brutale dittatura ammantata di pensieri convenzionali, di «valori» fittizi ma, infine, eliminate l’una e l’altra, ci sarà solo il ritorno alla società delle scimmie in una citazione allucinata e imprevedibile di 2001 Odissea nello spazio.

 

Le nuvole siamo noi si dice degli scheletri ed è appunto questa la contraddizione: se le eterne domande sul bene e sul male non ci abbandonano che fare? Ritirarci nelle comode certezze del «discorso giusto», che però nasconde la falsa ipocrisia del perbenismo tipico di ogni potere assoluto, oppure buttare
all’aria ogni cosa cercando di costruire su basi nuove, sempre che ci siano, considerando che l’uomo sembra essere corrotto alla radice? Il tutto si consuma come una farsa in una sorta di eterno talk show che non ispira alcuna drammaticità. Ma proprio questo contrasto colpisce al cuore gli spettatori: contemplare la propria vita come un inconsistente balletto macabro verso il nulla anche quando crediamo di enunciare profonde verità appare un monito per tutti. Quegli scheletri sospesi sul palcoscenico ci guardano come il nostro specchio, interrogandoci sull’inconsistenza del pensiero e di ogni tentativo di civiltà.
Tolti gli dei restiamo noi gli unici referenti di noi stessi, gli unici arbitri in balia della crudeltà della natura e quindi della morte. Questo è ciò che, in un certo senso, la maieutica di Socrate ha effettivamente creato, cercando le risposte nella ragione umana, rafforzata, due millenni più tardi, dal metodo scientifico di Galileo. L’uomo che rivendica il proprio pensiero deve essere pronto ad accettare anche la solitudine di fronte al proprio destino.
Esseri fragili e caduchi come siamo, potremo mai dare risposte al bene e al male? Eppure è proprio questo ciò che ci viene richiesto dalla nostra natura di esseri sociali: tentare la sfida delle sfide, andare oltre, in qualche modo, alla propria fragilità intrinseca per cercare un senso in tutto questo ed una verità che non dipenda, appunto, dagli dei, ma dalla sola nostra ragione, un discorso che Aristofane non può ovviamente accettare, ma che è sottinteso nella messa in scena di Latella ed è anche il rebus che egli pone agli spettatori.
Il vero problema è che ci manca una visione culturale e sociale della vita e, di conseguenza, ellenicamente, una visione dell’uomo come soggetto politico, in una decadenza che pare inarrestabile. Il pensatoio di Socrate ha la forma di un teatrino dei burattini, per dimostrare che anche le forme più alte
di cultura appaiono oggi svilite e svuotate. Il pubblico si divide in due: i fautori del «giusto» di Aristofane (il pensiero dogmatico) e dell’«ingiusto» di Fidippide (il pensiero trasformista), ma, alla fine, entrambi mostrano tutti i limiti e i difetti di un sistema errato in sé. Il pubblico, del resto, nell’opera originale è insultato in maniera assai colorita e triviale, perché è costituito, secondo l’autore, da una massa di stupidi, di gente del tutto priva di cervello che il potere riesce facilmente a turlupinare.

Il messaggio di Latella è chiaro: da un lato ci sono i sofisti, gli uomini del trash televisivo – di cui spesso riecheggia in scena anche lo stacco pubblicitario tipico – che con le parole, i talk show, i distinguo, sono capaci di ribaltare la giustizia per continuare nella loro squallida gestione del potere e dall’altro ci sono gli uomini d’ordine che porteranno alla dittatura, quelli che sostengono la tradizione e «gli eroi di Maratona». Il regista sembra ritenere che entrambi siano in qualche modo facce della stessa medaglia e che senza un vero cambiamento dell’ordine sociale qualunque tentativo di riformare questo sistema sarà impossibile. Anche perché i padri sono troppo vecchi e ancorati a concetti di moralismo dogmatico e imposto mentre i giovani sono dei bamboccioni come Fidippide, la marionetta, nudo e crudo, mai andato a scuola, privo di qualunque consapevolezza di sé, tutto muscoli e niente cervello. La sua nudità ha qualcosa di selvaggio come i suoi cavalli, da ricoprire di etichette e di dialettica, ma sempre incapace di pensieri propri..Come potremo sperare da lui un reale cambiamento sociale?
Così i vecchi (rappresentati dal padre Strepsiade) bruceranno il pensatoio, ultimo residuo di democrazia, e i giovani, cresciuti a pane e tv, Grande fratello e Uomini e donne, contesteranno i padri e pure il sistema delle nuvole ormai inutili, butteranno giù gli ultimi scheletri per creare un nuovo pianeta delle scimmie, una società degli scimpanzé con tanto di primo cittadino ominide fregiato di fascia tricolore. Nessun epilogo positivo, dunque, ci aspetta.per questa società corrotta alle radici.
Dopo la danza macabra e beffarda degli scheletri sulle note del Va pensiero leghista, il Requiem dell’Italia, vittima di tutti i poteri che la stanno distruggendo, è scandito per Latella dalle parole di Povera patria di Franco Battiato, unica voce, ormai, in un vuoto, irrevocabile silenzio.



SHUTTER ISLAND, L’ISOLA DELLA FOLLIA – Di Caprio e Scorsese perduti nel labirinto della mente

1 04 2010

COMPLOTTO O FOLLIA?
Uno Scorsese senza via d’uscita, dove le ombre della dittatura nazista e della manipolazione psichica sono ancora fra noi o forse fanno parte delle nostre stesse anime, creando un mondo di violenza e di orrore.
Un uomo solo, l’agente dell’FBI, Teddy Daniels, brillante investigatore ed eroe della seconda guerra mondiale,
si trova a misurarsicon il ritorno degli incubi del passato dove il ricordo dei campi di sterminio e le terribili esperienze della sua vita privata si collegano e si confondono, in un continuo passaggio tra visioni e realtà. Per seguire l’andamento di questo film geniale, ma tutt’altro che facile, si deve subito comprendere che è girato completamente seguendo il punto di vista soggettivo del protagonista. Lo spettatore viene messo volutamente in una condizione di incertezza perché conosce soltanto ciò che nel corso della narrazione Daniels scopre di se stesso e di ciò che lo circonda. Si vive in un perenne dubbio sulla verità e sulla sostanza della realtà in una dolorosa sospensione e angoscia da «grande fratello». Il regista vuole che anche noi come il protagonista ci «ammaliamo» di fantasmi, ci perdiamo nel labirinto, cominciamo a dubitare di noi stessi all’interno dei sotterranei di Shutter Island
La vicinanza con la violenza all’inizio sembra aver attraversato Daniels lasciandolo indenne, ma poi ci si chiede, in modo sempre più incalzante, fino a che punto, ormai, essa faccia parte di lui. Per tutto il film si resta in bilico tra l’idea di un complotto dai connotati neonazisti, una sorta di rigurgito dei mostri del passato, ritornati per fomentare l’atmosfera di paura del mondo attuale, e l’angosciosa e graduale scoperta dei propri demoni privati ai quali non si è saputo far fronte e che si è scelto semplicemente di rimuovere.
La coscienza di Teddy Daniels non viene piegata, ma la società, ormai, sta andando in un’altra direzione e per lui non c’è più scampo. E’ la conclusione amara e definitiva di Scorsese, che, contrariamente ad altri suoi film, non ipotizza alcuna via d’uscita possibile che ripristini la giustizia e la legge.

UNA CONTINUITA’ POETICA
Se in Gangs of New York si raccontava la genesi degli States in modo violento e insensato e si ritraeva la società americana, fin dai suoi fondamenti, come una compagine di esseri volti alla sopravvivenza ferina e totalmente privi di umanità; se in The Departed c’era, comunque, la possibilità di scoprire l’assassino e il traditore sebbene a prezzo della morte dell’eroe positivo, in Shutter Island le vie d’uscita si sono ridotte completamente a zero per l’unico che vuole opporsi alla dittatura strisciante esercitata con metodi nuovi e, se possibile, ancora più temibili: Scorsese appare durissimo, al punto che sembra quasi che Teddy Daniels (un allucinato, emozionante e bravo Di Caprio) si trovi alle prese con un nuovo progetto di creazione di una società governata dall’alto attraverso il controllo di tutte le reazioni umane per mezzo di farmaci. Un controllo invisibile e capillare già pienamente in atto al punto che ormai è impossibile fermarlo e l’unica cosa che si può ancora fare è accettare di morire da uomini, ovvero pirandellianamente da folli. Questa almeno, sembra essere la spiegazione più logica del film, considerando i punti fondamentali della poetica di Scorsese e del loro svolgimento in questi anni. Ma il fascino di quest’opera sta, comunque, proprio nella sua voluta ambiguità, affinché lo spettatore continui a chiedersi se il protagonista si trovi a misurarsi con un male interno o esterno alla natura umana stessa: sembra, infatti, che il male attraversi l’uomo e lo colpisca irrimediabilmente impedendogli poi di ritrovare la salute. Tutti cercano di dissuadere il protagonista dalla ricerca della verità, tentano di fargli capire che si tratta di un tranello creato apposta perché lui da quell’isola non se ne vada mai più. Partito l’ultimo traghetto sarà finita, ma l’agente Daniels, il grande investigatore, non molla la presa e le visioni, forse dovute ai farmaci, che sempre più ferocemente lo martellano si impossessano di lui, fino, probabilmente, a deformare il contenuto stesso dei suoi ricordi. Esiste un senso di colpa non solo per ciò che si è fatto, ma anche per quello che non si è riusciti a fare, per chi non è stato possibile salvare. E gli psichiatri di Shutter Island lo sanno molto bene. Con la crudeltà di una terribile tortura psicologica, la mente di Daniels viene smontata e rimontata distorcendo il suo vissuto e inserendovi altri elementi ex novo, congruenti con i traumi già provati e quindi credibili sia per noi sia per il protagonista. Eppure Daniels rivendica fino alla fine se stesso e si rifiuta di diventare un altro di coloro che non vedono, non sentono e non parlano all’interno di questo ospedale psichiatrico situato su quest’isola irraggiungibile e lontanissima dalla civiltà. Piuttosto che rendersi complice preferisce morire. Anche se il suo sacrificio non servirà a nulla a livello sociale, rappresenterà almeno il suo disperato tentativo di restare fino in fondo uomo. Daniels tornerà ad essere Daniels e preferirà «morire da uomo che vivere da mostro», cioè senza quegli orribili ricordi, veri o presunti, che hanno distorto ormai per sempre la sua mente.

L’OMBRA DEL MACCARTISMO

 Che il film sia un tentativo di mostrare come il potere possa influenzare le menti al punto da pilotarle completamente è evidente anche nel commento di Dennis Lehane, l’autore del libro da cui Scorsese ha tratto la sceneggiatura: «Ho cercato di analizzare quello che succede quando la libertà di parola viene
messa in discussione. Ho trovato paralleli inquietanti fra il 2003 e il 1953, l’apice del maccartismo. Se qualcuno – mi riferisco in particolare al governo – riesce a farti preoccupare di ciò che dici, prima o poi riuscirà anche a farti preoccupare di ciò che pensi e, e a quel punto, la tua mente rischia di subire un tracollo.». C’è da tener conto, però che dato il cambiamento di clima politico verificatosi negli States tra il 2003, in pieno governo Bush, ed oggi, il regista potrebbe aver voluto ritrarre un caso emblematico a finale aperto, proprio per non calcare la mano sul tema originario dell’oppressione politica, ma puntando sul fascino del viaggio stesso all’interno dei proprio demoni. Tesi che potrebbe essere avvalorata anche
dalla strana decisione di posticipare di alcuni mesi l’uscita del film da ottobre 2009 a febbraio 2010. Forse per modificare la parte finale dell’opera? In ogni caso, questo viaggio nella coscienza è realizzato a livello registico in maniera esemplare, con immagini che toccano nel profondo e ci accompagnano ben oltre l’uscita dalla sala., come quando la cenere che continuamente pioveva sui campi di sterminio nazisti si trasforma nelle foglie rosso sangue del giardino della casa sul lago dei Daniels.

UN GENIALE MANIERISMO
Il film è organizzato come un thriller, in cui la forza degli elementi infuria accompagnando lo scatenarsi delle componenti più segrete della coscienza e dei suoi sensi di colpa. La potenza distruttiva dell’acqua risulterà, infatti, l’elemento chiave e discriminante dei ricordi del protagonista.
Le visioni che Scorsese crea in relazione alla forza del male sono paragonabili all’atmosfera oppressiva ed allucinata di Apocalipse Now, ma più ancora agli incubi della coscienza e al ritorno inquietante dei morti tipici di Stanley Kubrick. C’è moltissimo cinema in questo film, anche di Hichcok, ad esempio, ma sempre in funzione della narrazione e della potenza espressiva della vicenda. L’eccezionale uragano che si scatena sull’isola e l’ossessione dell’acqua che impedisce al protagonista di riemergere dai suoi orrori
rappresenta forse il terribile viaggio dentro se stessi, una seconda rinascita non alla vita ma alla morte. Seguendo dall’interno la mente del protagonista, lo spettatore si trova a sua volta catapultato in un labirinto di indizi e controindizi ambigui, perché ognuno di noi non sappia mai quanto sia manipolato
dal potere e quanto, invece, la propria infelicità sia dovuta alle violenze private e inconfessabili sepolte nei recessi più oscuri della memoria. O forse non sa quanto i due piani finiscano per confondersi in un unico insondabile groviglio, perché chi ha vissuto accanto alla violenza e al sangue o ne è stato in qualche modo protagonista vivrà per sempre in compagnia dei propr

 

Rossana Cerretti

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