Memoria per i Cavalieri di Cristo

2 09 2019

Dedicato a Temple

Là non esiste né giorno né notte, là il tempo si è fermato ed esiste solo il dominio dell’eternità. I due cavalieri continueranno a cavalcare insieme per sempre perché eterno è ciò che rappresentano: il primato dello spirito e della nobiltà dell’animo su ogni nostra folle azione malvagia.

Temple Church – Londra

Il primato del coraggio e della tenacia anche sulla morte e la distruzione. Sono ancora là a cavalcare insieme nel luogo sacro del Tempio tra i loro compagni.

Di Filippo il Bello non è rimasto che il suo sepolcro di dannato e le sue ossa risorgeranno solo per la Geenna, ma loro, loro sono ancora là, tutti vivi, a testimoniare con Ugo de Payns, Gualdim Pais, Guglielmo il Maresciallo

che così sarà per sempre e il valore dell’amicizia e del coraggio, della bellezza e del bene potrà essere oscurato e anche ucciso, ma risorgerà sempre e il male non vincerà mai. Sarà sepolto e cancellato nel gorgo della sua stessa folle illusione di onnipotenza.

Chi visse per gli altri e non per se stesso, chi accumula tesori nel suo cuore e non nelle sue mani, questi vivrà in eterno.
Non nobis, Domine, non nobis sed nomini tuo da gloriam



CUPRESSI Carmina in memoriam LUDOVICII II REGIS BAVARIAE

7 02 2019

Questa è la mia traduzione dei Carmina di Karl Heinrich Ulrichs pubblicati nel 1887 in onore del re, come compianto per la sua prematura e tragica scomparsa. Ulrichs scrisse l’opera in gran parte a L’Aquila dove si era trasferito per sfuggire alle persecuzioni di cui era oggetto a causa della sua coraggiosa rivendicazione della propria omosessualità e della propria libertà di pensiero.

 

CUPRESSI

Carmina
in memoriam

LUDOVICII II REGIS BAVARIAE

13 Junii 1886


1.His, sine, me moestis tumulum redimire cupressis,
His hederae sertis cingere busta tibi!

Lascia
che io consoli il tumulo con questi mesti cipressi,
con queste corone di edera lascia che io cinga per te i simulacri!


2.PAX FUIT UNDA TIlBI. SUBLIMIA MENTE TULISTI. TE SEQUITUR PULCHRUM,
VICTURUM CARMINE, NOMEN.

 

L’ONDA
PER TE FU LA PACE. LE VISIONI SUBLIMI RECASTI NELLA MENTE.
TI SEGUE UN NOME GLORIOSO, DESTINATO AD ESSERE VITTORIOSO NELLA POESIA.

 


3. “Cur
 tam
dura tuli! Fatorum fulmine stratus
Occubui. Lacrimis ossa piate mea!”

 


Perché dovetti sopportare prove così dolorose! Caddi prostrato dal
fulmine dei fati. Con le lacrime consolate le mie ossa!

 

 

 

4. Caerulei fuerat tibi porta suprema salutis Unda lacus. Illic patuit
tibi janua pacis.
E’ stato per te il passaggio supremo della salvezza
l’onda del lago azzurro. Là si aprì per te la porta della
pace.


5. Undis aeternum, rumpens tua vincula, somnum
Quaeris et indomitus conculcas sub pede fatum.


Spezzando le tue catene, il sonno eterno nell’onde
cerchi e indomito calpesti sotto il piede il fato.

6.
“Rex fueram
!
Nec ero rex umbra!” Meare
sub umbras: Hoc decet. Indignans regna tremenda petis
.


“Sono stato re! Non sarò mai l’ombra di un re (un re ombra)!”
Andare alle ombre: questo ormai conviene. Furente di sdegno, ricerchi i
regni terribili.


Murmurat unda canens. Sonat, et sua littora pulsans
Volvitur ad flexas leni cum carmine ripas.
Murmurat unda QUIES. REQUIES levis unda susurrat.
Num fortasse tibi sua mollia murmura fundit?
Spuma sonans crispis allabitur alba coronis,
De tacito cantans somno mitique sopore.
Stat lacus ex alto fulgens et ab aethere tinctus,
Caeruleo condens arcana silentia velo.
Nansque lacu, liquidis canit humida Nais in undis:
HIC EST PAX. Canit unda: VENI! Audisne? VENITO!
HIC PATET AD LETHES OBLIVIA JANUA CORDI.
HIC SUB AQUIS ITER EST. Audisti. Caerula linter
Ad libertatem sic fuit unda tibi.”

Mormora
l’onda cantando. risuona e le  sue
sponde battendo rivolge alle ricurve rive con lieve canto
Mormora l’onda Quiete. Riposa sussurra la lieve onda.
Forse per te riversa i suoi dolci mormorii?
La spuma bianca risuonante si insinua piano con ondeggianti corone,
cantando del tacito sonno e del mite torpore.
Sta immobile il lago, rifulgendo dalle cime, tinto del colore del cielo,
nascondendo dietro un ceruleo velo arcani silenzi.
Fluttuando nel lago canta un’umida Naiade nelle liquide onde:
“Qui è la pace.” Canta l’onda:  “Vieni!” Hai sentito? “Andiamo!”
“Qui si apre al cuore la porta agli oblii del Lete.
Qui sotto le acque è la via.” Ascoltasti.
Navicella azzurra verso la libertà così fu per te l’onda.

7.
Castellum Hohenschwangau.

In
penetrale tuum penetrant sceptrumque paternum Extorquent tibi, Rex,
manibus.
Qui sceptra gerebat, Qui modo cinctus erat diademate, cingit eundem
Nunc vigilum sepes. Tua corda fidelia cuncta
Eripuere tibi. Quo prostravere frementem! Nescit septa pati sentitque
latentia frena. “Jam captivus ero ? Torquent mihi sub juga collum?
Me credunt, me, frena pati ? Docilem fore sperant?” Frenduit in
dentes, expalluit ingemuitque. Tunc gemitus omnes quassato pectore
claudit. “Non erit ulla mihi, non erit ulla salus?”

Il
Castello di Hohenschwangau

Nel
tuo interno più recondito penetrano e strappano a te dalle mani, o re,
lo scettro paterno.
Colui che sosteneva il regno, colui che era cinto del diadema, ora una
schiera di sorveglianti imprigiona.
Hanno rapito a te tutti i tuoi cuori fedeli.
Come ti hanno abbattuto, fremente!
Non sa sopportare le barriere e percepisce le catene nascoste. “Dunque
sarò prigioniero
?
Costringono il mio collo sotto il giogo?
Sperano che sarò docile?
Batte i denti , impallidìsce e geme.
Infine tutti i gemiti racchiude nel petto tormentato: “Non ci sarà
per me, non ci sarà per me alcuna salvezza?”

9.
Ultimum matri

Ultimum
salve tibi dicit ejus Naïs. Haec pax est cecinit sub undis; Haec et
extremus gemitus valeque audiit ejus.

L’ultimo
canto alla madre

 

L’ultimo
saluto ti dice la sua Naiade. “Questa è la pace” cantò sotto le
onde. Queste parole e i suoi estremi lamenti udì e l’addio.

Tectum
paternum de quo loquor st villa Westerfeld in Frisia. Ex his carminibus
duodecimum est quies, ultra Alpes connexui, iam anno 1879, cetera hoc
ipso anno 1886 citra illa, sub coelo Italiae, hic, ut alio loco dixi

UBI
SACRA MIRTUS

 

GERMINAT
SERTISQUE VIRET RACEMUS,

 

HIC
UBI FULGENS PATET ALTUS AETHER

 

INTUENS
MARMOR VETUS ET RUINAS

 

DORICAS
CINCTAS HEDERA COLUMNAS

 

TEMPLAQUE
VESTAE

 

Aquilae
ad flumen Aternum, inter montes scopulosque Appennini mense Dec 1886.

Carlo
Arrigo Ulrichs

l
tetto paterno di cui parlo è il villaggio di Westerfeld in Frisia. Di
questi canti il dodicesimo “Est Quies” lo composi al di là delle
Alpi già nell’anno 1879, gli altri, al di qua di quelle (le Alpi)
questo stesso anno 1886, sotto il cielo d’Italia, qui, come ho detto
in altro luogo:

 

 

DOVE IL SACRO MIRTO GERMOGLIA E IN SERTI
VERDEGGIA LA VITE

QUI DOVE SPLENDENTE SI APRE L’ALTO CIELO,
CONTEMPLANDO IL MARMO ANTICO E LE ROVINE,

LE DORICHE COLONNE CINTE DI EDERA E I TEMPLI DI VESTA.

L’Aquila, presso il fiume Aterno, tra i monti e le rupi
dell’Appennino, Dicembre 1886.
Carlo Arrigo Ulrichs

 

 

 

 

 



LUDWIG II e EDGAR ALLAN POE – PERSONALITA’ PARALLELE

15 02 2016

Perché il re di Baviera

si riconosceva nella
personalità

del grande giornalista e
scrittore americano

 Il ricordo del
giornalista Lew Vanderpoole

apparso sul “Lippincott’s
Monthly Magazine” nel 1886

dopo la morte del sovrano

(traduzione a cura di Rossana
Cerretti)

 

 

 

Louis_II_25.8.1845_-_13.6.1886_King_of_Bavaria_10.3.1864_-_13.6.1886_portrait_wood_engraving_by_Adolf_Neumann_circa_1875

LUDWIG OF BAVARIA: a personal reminiscence

The adjustment of the estates of three of my French ancestors, who died in Rouen about eight years ago, necessitated my going to Bavaria. As the three deaths, being almost simultaneous, resulted in unprecedented complications, it was manifest, from the very first, that audience must be had with the Bavarian king. So, in leaving France, I bore with me, to Ludwig, a letter of introduction from M. Gambetta, which fully explained my mission and requested the king to facilitate my endeavors as far as possible. Arriving in Munich, I sent my letter to his royal highness, expecting, of course, to be turned over to the tender mercies of some deputy, after his usual custom. To my surprise, Gambetta’s letter resulted in my being requested to wait upon the king at the royal palace the next morning at ten o’clock. Punctual to the second, I was shown into a
beautifully-decorated sitting- room, where the monarch joined me after a brief delay.
To others he may have always been brusque, morose, and taciturn, but no one could have been more affable and gracious than he was that morning. He examined my papers with the most courteous interest, and weighed the whole matter with as much thoughtful consideration as if it had been something of vital concern to him. Waiving several Bavarian customs, for my convenience, and setting me straight in every possible direction, he was about ending the interview, when he suddenly caught sight of something which prolonged my audience with him for two of the most delightful hours which were ever owed to royal clemency. Leaving France, as I did, a day earlier than I had intended, in my haste I accidentally packed with my legal documents the proof-sheets of a paper which I had been writing for Figaro on Edgar Allan Poe. The proofs were left unnoticed with the other papers until the whole package was opened and spread out on the king’s table. Until then his manner had been quiet and gentle, almost to effeminacy; but the moment he saw Poe’s name be became all eagerness and animation. His magnificent eyes lit up, his lips quivered, his cheeks glowed, and his whole face was beaming and radiant.

“Is it a personal account of him?” he asked. “Did you know Poe? Of course you did not, though: you are too young. I cannot tell you how disappointed I am. Just for a moment I thought I was in the presence of someone who had actually known that most wonderful of all writers, and who could, accordingly, tell me something definite and authentic about his inner life. To me he was the greatest man ever born, -greatest in every particular. But, like many rare gems, he was fated to have his brilliancy tarnished and marred by constant clashings and chafings against common stone. How he must have suffered under the coarse, mean indignities which the world heaped on him ! And what harsh, heartless things were said of him when death had dulled the sharpness of his trenchant pen ! You will better understand my enthusiasm when I tell you that I would sacrifice my right to my royal crown to have him on earth for a single hour, if in that hour he would unbosom to me those rare and exquisite thoughts and feelings which so manifestly were the major part of his life.”
His voice softened into a low monotone – almost a wail – as he approached the end of his sentence, and his head kept settling forward until his chin rested upon his breast. He kept this attitude, in dead silence, for several minutes, his face wearing an expression of the most intense sorrow. Suddenly arousing himself, he glanced at me in startled surprise, as if he had for the moment forgotten my presence. Then his eyes beamed pleasantly, and he laughed-clear, merry, ringing laugh-at being caught in a day-dream.

“Will you be good enough to let me read, what you have written?” he asked. “I see that it is in French, the only language I know except my own.”
I handed him the proofs, and watched him as he read them. As the paper was chatty and gossipy, rather than critical, he seemed to enjoy it.

 

“I see by this that you, also, are fond of Poe,” he said, handing the proofs back to me; “and so I will tell you of a little fancy which I have cherished ever since I first began reading the works of your great fellow-American. At first, because of my respect for his genius and greatness, the lightest thought of what I am going to tell you would make my cheeks burn with shame at my presumption. After a time, I would occasionally write out my fancy, only to burn it, always, as soon as finished. Eventually I confided it to two trusted and valued friends; and now, in some unaccountably strange way, moved, perhaps, by the sympathy born of our common interest in Poe, I am going to take you into my confidence in this particular, stranger though you are. What I have to say is this : I believe, for reasons which I will give you, that there is a distinct parallel between Poe’s nature and mine. Do not be misled by assuming that I mean more than I have said. I but compared our natures: beyond that the parallel does not hold. Poe had both genius and greatness.
I have neither. He had, also, force and strength, so much of both that he could defy the world, sensitive and shrinking as he was. That I never can do. Not that I am a coward, as the word is generally understood, because pain and death can neither shake nor terrify me. Yet any contact with the world hurts me. The same as Poe’s, my nature is abnormally sensitive.

 

Injuries wound me so deeply that I cannot resent them : they crush me, and I have no doubt that in time they will destroy me. Even the laceration my heart received from indignities which I suffered as a child are still uneffaceable. A sharp or prying glance from the eyes of a stranger, even though he be only same coarse peasant, will annoy me for hours; and a newspaper criticism occasions me endless torture and misery. The impressionable part of me seems to be as sensitive as a photographer’s plate : everything with which I come in contact stamps me indelibly with its proportions. My impulses, it can be no egotism to say, are generous and kindly; yet I never, in my whole life, have done an act of charity that the recipient did not in some way make me regret it. People disappoint me; life disappoints me. I meet some man with a fine face and fine manner, and believe in the sincerity of his smile. Just as I begin to feel certain of his lasting love and fidelity, I detect him in some act of treachery, or overhear him calling me a fool, or worse.”

 

 

Arising, he began to walk slowly up and down the room.
“Apparently,” he continued, after a brief silence, “there is no place in the economy of life except for one kind of man. If one would be respected, he must be coarse, harsh, and phlegmatic. Let him be anything else, and friends and foes alike unite in declaring him eccentric. Much as I despise the gross, sensual creatures who wear the form and receive the appellation of man, I sometimes regret that I am not more like them, and, so, more at ease. They plunge into excesses with no more concern than a duck feels in plunging into a lake. With me the thought, or rather the dread, that I may some day so far forget myself as to debase and degrade myself, according to the common custom of man, is in itself sufficient cause for the most excruciating torture. When I look upon men as they average and see the perfect nonchalance with which they commit this, that, or the other abuse from which I would recoil with utter repugnance, I wonder if, after all, they are not really to be envied.

My condition is as much of a puzzle to me as it possibly can be to you. Logically, there is no reason for it. My father and mother were neither abnormally sensitive nor excessively moral. So far as I am able to ascertain, they regarded things in life very much as every one else does. It was the same, I believe, with the parents of Poe. Things he has written prove to me that he felt the same disgust for whatever demoralizes that I have always felt, only he saw how the world would behave towards him if he did not seem in sanction and approve of its rottenness. I do not blame him. His way was wisest. Deceit is best in such a case, if it can only be
assumed.
With his sensitiveness were associated force and defiance,-two traits which I seriously lack. Perhaps, though, he could endure the world more easily than I can, because his childhood was less dreadful than mine. All through my infancy things were done which stung and wounded me. Not that I was treated more harshly than children commonly are, but because my nature was so unlike that of children in general that the things which never disturbed them were offensive to me. I soon learned that companionship meant pain, and that I could never know or feel anything like content unless I held myself aloof from every one. This, for a man, is hard enough to do; for a child it is next to impossible.


I was forced to subject myself to the will of harsh, unfeeling teachers, and to the society of those who, scarcely more than animals themselves, accredited me with no instincts finer than their own. Most of the studies thrust upon me seemed dull, stupid, and worthless: because they so jarred upon me that my understanding faculties were dulled and blunted with pain, I was declared half-witted. For hours I would sit and dream beautiful day-dreams; and that won for me similar epithets. It is a misfortune to be organized as I am; yet I am what I am because a stronger will and power than mine made me so. In that lie my sole solace and comfort for having lived at all. If my reading and observation have not been in the wrong direction, much of the phenomenon which is called insanity is really over-sensitiveness. It is often hinted, and sometimes openly declared, that I am a madman. Perhaps I am; but I doubt it. Insanity may be self-hiding. An insane man may be the only person on earth who is not aware of his insanity.

Of course I, for such reasons, may not be able to comprehend my own mental condition, except in an exaggerated and unnatural way. But I believe myself a rational being. That, though, may be proof of my insanity. Yet I doubt if any insane person could study and analyze himself as I have done and still do. I am simply out of tune with the majority of my race. I do not enter into man’s common pleasures, because they disgust me and would destroy me. Society hurts me, and I keep out of it. Women court me, and for my safety I avoid them. Were I a poet, I should be praised for saying these things in verse; but the gift of utterance is not mine, and so I am sneered at; scorned, and called a madman. Will God, when he summons me, adjudge me the same?”

 

With tearful eyes, he pressed my hand, smiled, and left the room. The learned doctors have already declared Ludwig of Bavaria insane, and kindlier judgment from those who loved him would very likely be counted wasted sympathy by the world.

Lew Vanderpoole

76652-004-60D7B595

LUDWIG DI BAVIERA: un
ricordo personale

La sistemazione delle
proprietà di tre dei miei antenati francesi, che erano morti a Rouen circa otto anni fa, ha reso necessaria la mia visita in Baviera. Visto che le tre morti, essendo state quasi simultanee, avevano determinato delle
complicazioni senza precedenti, era evidente, fin dall’inizio, che si doveva avere un’udienza con il re bavarese. Così, nel lasciare la Francia, portai con me, per Ludwig, una lettera di presentazione da parte di M. Gambetta, che ampiamente spiegava la mia missione e chiedeva al re di facilitare i miei sforzi, per quanto possibile. Arrivato a Monaco di Baviera, inviai la mia lettera a Sua Altezza Reale, in attesa, naturalmente, di essere consegnato alla discrezione
di qualche funzionario, secondo il suo usuale comportamento. Con mia grande sorpresa, la lettera di Gambetta sortì l’effetto che io fossi invitato ad attendere il re a Palazzo Reale la mattina seguente alle dieci. Puntuale al secondo, fui ammesso in un salottino finemente
arredato, dove il monarca mi raggiunse, dopo un breve ritardo.

Con altri egli può essere sempre stato brusco, cupo, e taciturno, ma quella mattina nessuno avrebbe potuto essere più affabile e gentile di lui. Esaminò i miei documenti con l’interesse più cortese, e pesava l’intera questione con la stessa considerazione pensierosa come se fosse stato qualcosa di importanza vitale per lui. Rinunciando a diverse consuetudini bavaresi, a mio vantaggio, e avendo messo le cose in chiaro in ogni possibile direzione, era sul punto di terminare il colloquio, quando improvvisamente vide qualcosa che prolungò la mia udienza con lui per due delle più deliziose ore che siano mai state concesse dalla clemenza reale. Lasciando la Francia, come avevo fatto, un giorno prima di quanto avessi previsto, nella fretta avevo accidentalmente impacchettato con i miei documenti legali una bozza di un pezzo che avevo scritto per Le Figaro su Edgar Allan Poe. La bozza era passata inosservata tra le altre carte fino a quando l’intero pacchetto era stato aperto e sparso sul tavolo del re. Fino ad allora il suo modo di comportarsi era stato tranquillo e gentile, quasi effeminato; ma nel momento in cui vide il nome di Poe divenne pieno di entusiasmo e animazione. I suoi magnifici occhi si illuminarono, le labbra tremavano, le guance brillavano, e tutto il suo volto era raggiante e luminoso.

 

 

“Si tratta di un ricordo personale di lui?” Egli chiese. «Conosceste personalmente Poe? Naturalmente non è possibile, comunque: siete troppo giovane. Io non so dirvi quanto sono dispiaciuto da ciò. Solo per un attimo ho pensato che ero in presenza di una persona che nella realtà aveva conosciuto il più meraviglioso degli scrittori, e che avrebbe potuto, di conseguenza, dirmi qualcosa di preciso e autentico della sua vita interiore. Per me egli è stato il più grande uomo mai nato, il più grande in ogni particolare. Ma, come molte gemme rare, è stato destinato a vedere il suo splendore appannato e segnato da colpi costanti e scalfitture contro la pietra comune. Come deve aver sofferto sotto le grossolane, crudeli umiliazioni che il mondo ha riversato su di lui! e che cose dure, senza cuore si dicevano di lui quando la morte ebbe offuscato la nitidezza della sua penna tagliente! Voi potete capire meglio il mio entusiasmo quando vi dico che sacrificherei il mio diritto alla corona regale per averlo sulla terra una sola ora, se in quell’ora confidasse a me quei pensieri e sentimenti rari e raffinati, che così palesemente costituivano la maggior parte della sua vita”.
La sua voce si addolcì in una nota bassa monotona, quasi un gemito, mentre si avvicinava la fine del suo discorso, e la sua testa continuava a abbassarsi in avanti fino a quando il suo mento poggiò sul petto. Mantenne questo atteggiamento, in un silenzio di tomba, per alcuni minuti, mentre il suo volto assumeva un’espressione del più intenso dolore. improvvisamente risollevandosi, egli mi guardò estremamente sorpreso, come se avesse dimenticato, in quella circostanza, la mia presenza. Poi i suoi occhi splendettero piacevolmente, e lui rise con una risata chiara, allegra, squillante per essere stato catturato in un sogno ad occhi aperti.

 “Sareste così gentile da farmi leggere, quello che avete scritto?” egli chiese. “Vedo che è in francese, l’unica lingua che conosco, oltre alla mia.” Gli porsi la bozza, e lo osservai mentre la leggeva. Appena il pezzo diventava ciarliero e pettegolo, piuttosto che critico, sembrava divertirsi.

 

 

“Vedo da questo che anche voi siete un appassionato di Poe”, disse, restituendomi la bozza “E così vi racconterò una piccola fantasia che ho vagheggiato fin da quando cominciai a leggere per la prima volta le opere del vostro grande compagno americano. In un primo momento, a causa del mio rispetto per il suo genio e la sua grandezza, il più lieve
pensiero di quello che sto per dirvi avrebbe reso le mie guance brucianti di vergogna per la mia presunzione. Dopo un po’, ho voluto occasionalmente scrivere la mia fantasticheria, solo per bruciare il foglio, sempre, non appena terminato. Alla fine l’ho confidata a due amici fidati e valutati; ed ora, in qualche inspiegabilmente strano modo, commosso, forse, dalla sintonia nata dal nostro comune interesse in Poe, sto per rivelarvi una mia confidenza riguardo questo particolare, sebbene voi siate un estraneo. Quello che ho da dire è questo: credo, per ragioni che vi illustrerò, che vi sia un netto parallelo tra la natura di Poe e la mia. Non lasciatevi ingannare dal presupposto che io voglia dire più di ciò che ho detto, ma confrontate la nostra natura: al di là che il parallelo non regge. Poe aveva sia il genio sia la grandezza. Io non ho nessuno dei due. Aveva, anche, la forza e la resistenza, entrambe in modo così cospicuo che avrebbe potuto sfidare il mondo, sensibile e chiuso come doveva essere. Cosa che io non potrò mai fare. Non che io sia un codardo, come la parola è generalmente intesa, perché il dolore e la morte non possono scuotermi né mi terrorizzano. Eppure, ogni contatto con il mondo mi fa male. Come lo stesso Poe, la mia natura è sensibile in modo abnorme.

Le offese mi feriscono così profondamente che non posso restituirle: mi schiacciano, e non ho alcun dubbio che nel tempo finiranno per distruggermi. Anche le lacerazioni che mio cuore ha ricevuto da umiliazioni che ho sofferto da un bambino sono ancora incancellabili. Uno sguardo tagliente o indiscreto dagli occhi di un estraneo, anche se egli sia solo lo stesso contadino rozzo, può disturbarmi per ore; e le osservazioni critiche di un giornale causano in me una miseria e tortura senza fine. La parte impressionabile di me sembra essere sensibile come una lastra fotografica: tutto ciò con cui vengo in contatto si imprime in me in modo indelebile con le sue proporzioni. I miei impulsi, non può essere considerata immodestia dirlo, sono generosi e gentili; eppure non ho mai, in tutta la mia vita, compiuto un atto di carità del quale il destinatario non mi abbia fatto, in qualche modo pentire. Le persone mi deludono; la vita mi delude. Incontro un uomo con un viso raffinato e maniera elegante, e credo nella sincerità del suo sorriso. Appena inizio a sentirmi certo del suo amore duraturo e della sua fedeltà, lo colgo in qualche atto di tradimento, o lo sento mentre mi chiama stupido, o peggio “.

Alzatosi, cominciò a camminare lentamente su e giù per la stanza.
“A quanto pare” continuò, dopo un breve silenzio,” non c’è posto nell’economia della vita se non per un solo tipo di uomo. Se un uomo vuole essere rispettato, deve essere rozzo, duro e flemmatico. Lascialo essere qualsiasi altra cosa, e sia gli amici sia i nemici allo stesso modo si uniscono nel dichiararlo un eccentrico. Per quanto io disprezzi le laide creature sensuali che vestono la forma e ricevono l’appellativo di uomo,  a volte mi dispiace di non essere maggiormente come loro, e, quindi, più a mio agio . Essi si gettano negli eccessi senza una preoccupazione maggiore di quanto ne senta una papera nell’immergersi in un lago. Per me il pensiero, o meglio la paura, che io possa un giorno per quanto lontano dimenticare me stesso fino a svilirmi e a degradarmi, secondo l’abitudine comune dell’uomo, è di per sé motivo sufficiente per le torture più atroci. Quando guardo agli uomini come media e vedo la disinvoltura perfetta con la quale commettono questo, quello o un altro abuso da cui mi ritrarrei con ripugnanza assoluta, mi chiedo se, dopo tutto, in realtà non siano da invidiare.

La mia condizione è come  un rompicapo per me come, eventualmente, può esserlo per voi. Da un punto di vista logico, non vi è alcuna ragione per questo [mio modo di essere]. Mio padre e mia madre non erano né anormalmente sensibili né eccessivamente moralisti. Per quanto io sono in grado di accertare, essi consideravano le cose nella vita moltissimo come ogni altro fa. E’ stato lo stesso, credo, con i genitori di Poe. Le cose che ha scritto mi dimostrano che egli provava lo stesso disgusto per qualsiasi corruzione come quello che ho sempre sentito, solo che lui si rese conto di come il mondo si sarebbe comportato verso di lui, se non avesse dato l’impressione di autorizzare e approvare la sua putredine. Io non lo biasimo. Il suo modo di reagire era più saggio. La finzione è la scelta migliore in un caso del genere, se è l’unico atteggiamento possibile da assumere. Con la sua sensibilità sono state associate forza e sfida, – due caratteristiche di cui sento seriamente la mancanza. Forse, però, avrebbe potuto sopportare il mondo più facilmente di me, perché la sua infanzia fu meno terribile della mia. Durante tutta la mia infanzia sono state fatte cose, che mi hanno angosciato e ferito. Non che io sia stato trattato più duramente rispetto a come comunemente sono trattati i bambini, ma perché la mia natura era così diversa da quella dei bambini, in generale, che le cose che non li disturbavano erano offensive per me. Ho imparato presto che compagnia voleva dire dolore, e che non avrei potuto mai sapere o sentire alcun piacere a meno che io mi tenessi in disparte da tutti. Questo, per un uomo, è abbastanza difficile da fare; per un bambino è quasi impossibile. Sono stato costretto ad assoggettarmi alla volontà di duri, insensibili insegnanti, e alla compagnia di coloro che, poco più che animali essi stessi, mi ritenevano con istinti non più raffinati dei loro. La maggior parte degli studi imposti a me sembrava noioso, stupido e inutile: poiché mi mettevano in una tale agitazione che le mie facoltà di apprendimento erano offuscate e limitate dal dolore, io fui dichiarato praticamente stupido. Per ore avrei potuto sedere e immaginare bei sogni ad occhi aperti; e per questo mi sono guadagnato epiteti simili. E’ una disgrazia essere impostato come lo sono io; eppure io sono quello che sono perché una volontà e una potenza più forte di me stesso mi ha reso così. In quella illusione sta il mio unico sollievo e conforto per non aver vissuto affatto. Se la mia lettura e osservazione non sono andate nella direzione sbagliata, la maggior parte del fenomeno chiamato pazzia consiste in realtà un eccesso di sensibilità. Si è spesso accennato, e talvolta apertamente dichiarato, che io sono un pazzo. Forse lo sono; ma ne dubito. La pazzia può nascondersi a se stessa. Un uomo folle può essere l’unica persona sulla terra che non è a conoscenza della propria follia. Certo che, per tali motivi, io potrei non essere in grado di comprendere la mia condizione mentale, se non in modo esagerato e innaturale. Ma io credo di essere un individuo razionale. Questa, però, potrebbe essere la prova della mia pazzia. Eppure dubito che qualsiasi persona folle potrebbe studiare e analizzare se stesso come ho fatto e ancora faccio io. Sono semplicemente fuori sintonia con la maggior parte della mia razza. Non mi dedico ai piaceri comuni dell’uomo, perché mi disgustano e mi distruggerebbero. La società mi fa male, e io mi tengo fuori da essa. Le donne mi corteggiano, e per la mia sicurezza le evito. Se fossi un poeta, sarei lodato per il fatto di esprimere queste cose in versi; ma il dono della parola non mi appartiene, e quindi sono deriso; disprezzato, e chiamato pazzo. Dio, quando mi chiamerà, mi giudicherà nello stesso modo?”

Con gli occhi pieni di lacrime, strinse la mia mano, sorrise e lasciò la stanza. I dottori hanno già dichiarato Ludwig di Baviera pazzo, e un giudizio più gentile da parte di coloro che lo hanno amato avrebbe molto
probabilmente messo in evidenza la sensibilità frustrata dal mondo.

Lew Vanderpoole “

 

 



GIOCANDO A SCACCHI CON I PROPRI INCUBI – Il mondo virtuale in “Finale di partita” di Samuel Beckett nell’originale interpretazione di Massimo Castri

13 02 2012

Tra gli spettacoli più interessanti di questi ultimi due anni (tuttora in tournée, vincitore del premio UBU 2010 e Alabarda d’oro 2011) è senz’altro da segnalare “Finale di partita” di Samuel Beckett per la regia di Massimo Castri, interpretato dagli ottimi Vittorio Franceschi (Hamm), Milutin Dapcevic (Clov), Diana Hobel (Nell), Antonio Giuseppe Peligra (Nagg). Tra le novità introdotte dal regista nell’interpretazione di quest’opera particolarmente complessa, capolavoro del “Teatro dell’assurdo”, c’è il ruolo centrale giocato dalla realtà virtuale, creata dalla coscienza stessa dei protagonisti. Secondo questa chiave di lettura, la vicenda, inizialmente ispirata agli ultimi giorni di Hitler nel suo bunker di Berlino, può essere anche intesa come il paradigma delle deformazioni mentali dell’uomo contemporaneo, che preferisce la creazione di una realtà virtuale, per quanto deserta, anziché confrontarsi col mondo reale. Se per Beckett, oltre 50 anni fa, era già possibile immaginare una coscienza chiusa completamente in se stessa perché “al di là c’è l’altro inferno”, oggi la possibilità di vivere completamente rinchiusi anche materialmente in una sola stanza, ignorando totalmente ciò che avviene fuori, appare ancor più concreta: almeno in teoria, si potrebbe sopravvivere affidandosi soltanto ad una realtà totalmente digitale.
La scena si apre su una stanza grigia di una casa vagamente retro, ma incredibilmente spoglia e priva di arredi: un pavimento a scacchiera, due finestre poste in alto sulle pareti laterali – l’una rivolta verso il mare, l’altra verso la spiaggia – un quadro sopra il caminetto, girato però verso il muro, e due grandi bidoni della spazzatura. Al centro della scacchiera su una sedia a rotelle è seduto Hamm, metafora dell’uomo al centro dell’universo, che ha fallito totalmente il compito di “signore” della creazione. Il re sotto scacco di questo “finale di partita” (ispirato effettivamente al gioco di cui Beckett era appassionato) è, infatti, un vecchio signore cieco e paralitico il quale ha bisogno di essere accudito in tutto e per tutto da Clov (la regina), il servo fedele, zoppo, ma incapace di stare seduto. Clov è stanco di questa vita, ha il forte desiderio di scappare, ma il vuoto che sembra circondarli e il rapporto simbiotico con il proprio padrone lo costringeranno a rimanere nella casa fino alla fine. Nei bidoni vivono i genitori di Hamm (i pedoni), che a loro volta non possono muoversi, perché hanno perso entrambe le gambe, “in un incidente nelle Ardenne”, vale a dire, durante le sanguinose battaglie della prima guerra mondiale. Hamm sembra ossessionato dal desiderio di annientare tutto ciò che è vivo, compresi i propri genitori, che egli odia, ritenendoli responsabili di averlo messo al mondo.

Sia Hamm sia Clov sostengono che ormai si è giunti alla fine, che qualcosa “sta facendo il suo corso” ed è arrivato alla conclusione, probabilmente perché Beckett intende riprodurre gli ultimi attimi di vita di un cervello pensante, ma ormai bloccato, non sappiamo se dalla morte fisica o dalle sue errate convinzioni sul mondo.
E’ come se il tempo si fosse fermato e tutto ciò che si trova al di là delle pareti della casa fosse stato eliminato, tagliato fuori fisicamente ed escluso anche dal ricordo, come testimonia, appunto, il dipinto voltato al contrario.
In quest’opera Beckett immagina un folle dittatore o un Logos maligno, che sarebbe riuscito ad attuare la “soluzione finale”, distruggendo la vita dell’intero pianeta, ma lo interpreta poi in senso metaforico e astratto, mettendolo in relazione con la coscienza dell’uomo contemporaneo. La distruzione totale, affermata da Clov e Hamm, non appare, infatti, veritiera, come dimostra il bambino avvistato, ad un certo punto, fuori dalla casa. Massimo Castri accentua questa interpretazione dell’opera poiché quando Clov apre una delle finestre della stanza si sentono voci di bambini che si divertono come se fuori ci fosse un parco, ma i due protagonisti si ostinano a dire di non sentire nulla. Sembra, perciò, che Hamm e Clov si siano volutamente rinchiusi in un luogo che essi stessi hanno isolato dal mondo, creando un loro deserto mentale, mentre fuori esiste la vita vera. In tal caso sarebbe il personaggio stesso di Hamm ad essersi autosegregato, seguendo un impulso nichilista di autodistruzione o un inutile tentativo suicida di non soffrire: infatti, per quanto sia chiuso in un luogo isolato e non venga in contatto pressoché con nessuno, a parte le figure dei genitori, chiede continuamente il suo calmante perché è preso ugualmente dall’angoscia esistenziale e non sa stare solo con se stesso. E’ come se egli avesse eliminato tutti gli esseri viventi dalla propria esistenza, ritenendoli responsabili del malessere che prova, per poi accorgersi che l’origine di esso risiede fondamentalmente nel suo stesso io. Hamm chiede continuamente a Clov di essere spostato avanti e indietro di una casella sulla scacchiera, proprio come il pezzo del re negli scacchi, ma è tutto inutile perché la situazione appare ormai senza via d’uscita.
Il Logos maligno è il superstite dei due conflitti mondiali e dei regimi totalitari e spietati del primo Novecento, ma secondo Beckett, esso influirà anche sulla società successiva, forse perché è insito nella natura umana: dopo essere stato irrimediabilmente minato dalle guerre, diffonderà una violenza nichilista che accomunerà tutti, perché la coscienza umana non sarà più in grado di vedere la positività dell’esistenza, ma resterà segnata da pulsioni autodistruttive. L’uomo diventerà malato e, in preda alle sue paure ed ossessioni, cercherà di isolarsi dal mondo, smettendo di riprodursi e condannando chi ha dei figli. La vita sarà considerata una malattia, al punto che Hamm insulta i propri genitori perché l’hanno fatto nascere e condannato a vivere.
Il dolore di Hamm è però controllato da Clov, che utilizza diversi oggetti (i mezzi tecnologici) per compiere la volontà del padrone, poiché quest’ultimo, ormai immobilizzato, non è in grado di usarli da solo: per osservare il paesaggio il servo guarda dalle finestre con un cannocchiale che ci ricorda la scienza galileiana, mentre è spesso presente in scena una sveglia che simboleggia la misura del tempo. Tutti questi oggetti, però, non servono per vedere e capire se la mente nega ogni evidenza. Il rampino usato da Hamm nell’inutile tentativo di muoversi rappresenta probabilmente il rapporto di causa ed effetto, ma anch’esso è inutilizzabile, perché, avendo distrutto ogni cosa, non esistono più né gli effetti né le cause. L’unica cosa che il protagonista riesce ancora a fare è raccontare storie sebbene il suo passato sia confuso e i ricordi risultino incompleti, anche perché il linguaggio si sta deteriorando e impoverendo, come tutto il resto. In altre parole la sola esistenza possibile a questo punto è soltanto raccontata, inventata dalla sua mente cioè virtuale; ecco delinearsi, quindi, il collegamento con il mondo di oggi, di cui secondo Castri, quest’opera diventa metafora, al di là del rapporto con le grandi catastrofi del Novecento.
Hamm racconta di aver distrutto ogni cosa, convinto com’era che per il mondo, condannato alla sofferenza, fosse meglio l’annientamento totale. In seguito, però, ricorda e rimpiange ciò che egli stesso ha cancellato: per esempio, ha sterminato il genere umano, ma poi, avendo bisogno di un servo ha fatto da padre a Clov, strappandolo all’affetto del suo vero genitore e ingiungendo probabilmente a quest’ultimo di sacrificare la propria vita per la salvezza del figlio.
In quest’ambiente dove dominano la paura di ogni cosa viva e il conseguente desiderio di sterminarla, anche la speranza del cambiamento, rappresentata dal bambino avvistato fuori della casa, appare piuttosto inconsistente, almeno secondo Hamm: se, infatti, in un primo momento il protagonista ordina a Clov di ucciderlo, in seconda battuta pensa che se esiste davvero e sopravviverà, prima o poi giungerà lì. Il bambino. infatti, sta seduto per terra ad osservarsi l’ombelico, sentendosi evidentemente anche lui al centro dell’universo come Hamm; oppure sta guardando il suo sesso, simbolo del desiderio di perpetuare la specie e se stesso. Anche il bambino, perciò, secondo Beckett, quando crescerà arriverà nella casa e prenderà semplicemente il posto di Hamm come se le pulsioni autodistruttive del genere umano fossero inguaribili.
L’ultima chance, ovviamente fasulla, è rappresentata dalla religione, creata da Clov in modo piuttosto maldestro, e simboleggiata dal cane di pezza a tre zampe, che Hamm getta via, dopo che, al termine di una sua “ispirata” preghiera, Dio non risponde…
Alla fine Clov trova il coraggio di fare le valigie e andarsene, ma prima di raggiungere l’uscita resta bloccato, immobile di fronte ad Hamm. La sveglia non suona più. Il tempo è finito…



Franco Branciaroli e l’invincibile follia del teatro

12 12 2011
Parte dal Sociale di Brescia la lunga tournée di “Servo di scena” di R. Harwood con Tommaso Cardarelli
Siamo nei primi anni ’40, Londra è sotto i bombardamenti tedeschi che si susseguono martellanti, ma un gruppo di attori continua a recitare in un teatro di periferia dall’aria scalcinata. Tutti sono lì perché dall’altra parte del sipario il pubblico non molla e li segue imperterrito anche rischiando la pelle sotto le bombe insieme a loro. Il teatro è il loro modo per resistere, per riaffermare il diritto di pensare e di sognare o, semplicemente, di divertirsi e dimenticare, almeno per un momento, la guerra. L’autore più richiesto, infatti, è sempre Shakespeare, per gli inglesi un simbolo dell’unità nazionale e dei suoi valori.
Ma la guerra può davvero distruggere qualcosa di fondamentale anche per l’arte e il primo attore e capocomico della compagnia, Sir Ronald, forse di fronte alla distruzione, sotto le ennesime bombe di Hitler, del teatro in cui aveva debuttato molti anni prima, ha una crisi psico-fisica e in un momento di follia si immedesima completamente nel ruolo di re Lear che dovrà recitare di lì a poco. Tutta la città è ferita mortalmente, ma forse per la prima volta Sir Ronald si accorge che la sua arte non è affatto immune dalla morte e dalla devastazione.
In preda al delirio e ad un pianto dirotto, viene portato all’ospedale, ma non vi rimane per molto; dopo un po’ lo vedono tornare in teatro, malfermo sulle gambe, esausto, ma deciso: quello è il suo posto, perché sulla porta del suo camerino, c’è scritto il suo nome ed è lì che deve stare. Ad aiutarlo nell’impresa improba di renderlo presentabile per lo spettacolo interviene Norman, il servo di scena che ha immolato la propria vita al suo servizio, identificandosi nello smisurato ego di Sir Ronald e idolatrandolo in modo ossessivo. Intorno al capocomico comincia il balletto degli altri membri della compagnia propensi a sospendere lo spettacolo e a non farlo recitare, ma il servo insiste e si prodiga, perché la sua unica ragion d’essere sta nel suo idolo amato e odiato allo stesso tempo, visto che attraverso di lui può vivere quella vita che non è riuscito a realizzare, come se la sua celebrità e il suo talento lo illuminassero di luce riflessa. “Avevo un amico che…” è l’esordio ricorrente delle sue storielle sugli attori, ma “l’amico” sarà forse lui stesso, muto testimone dei propri fallimenti?
Franco Branciaroli nel doppio ruolo di attore e regista, mette in scena questo testo del drammaturgo inglese Ronald Harwood, giocando sull’ironia in un contrasto efficace tra dramma e commedia, leggerezza e senso della fine, comicità e disperazione. Fondamentale l’apporto della scenografia di Margherita Palli evidentemente metateatrale, “a sipario aperto”, che da sola chiarisce e determina le scelte registiche. Il pubblico che applaude Sir Ronald al di là del palcoscenico è, infatti, lo stesso che si trova al di qua, in platea. Non si aspetta forse che il primo attore “porti a casa” egregiamente l’opera? Franco Branciaroli lo interpreta come un uomo sfinito forse più emotivamente che fisicamente, uno che ha dato tutto al teatro e che ora vorrebbe solo ritornare se stesso e andarsene a casa, ma ciò non è possibile, perché senza pubblico non è nessuno. Il servo di scena dell’ottimo Tommaso Cardarelli non è certo simile ad un compassato maggiordomo inglese, ma è piuttosto mobilissimo, isterico, geloso di Sir Ronald come un amante e totalmente votato al suo idolo, incapace di esistere al di fuori di quel mondo e dello spettacolo da mettere in scena. Il resto del cast, costituito da Lisa Galantini, Melania Giglio, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Valentina Violo ha accompagnato con efficacia lo svolgersi del dramma tra il capocomico e il servo di scena, mantenendo un certo distacco emotivo che fa da chiaroscuro all’azione.
Harwood non ci parla del teatro in modo edulcorato: anzi lo descrive come un luogo spietato perché il grande attore è un narcisista e, come tale, sempre solo, così come lo sono coloro che gli hanno dedicato la vita perché tutti tesi al soddisfacimento del loro idolo-vittima sacrificale. Il primo attore è oppresso dalla solitudine, schiacciato dalla resa dei conti con il pubblico che lo vuole per sempre personaggio immortale e dalle responsabilità di tirare avanti da solo tutto lo spettacolo; d’altra parte, però, nessuno deve rubargli il proscenio, malato com’è dello sguardo del pubblico su di sé, dell’applauso, dei riflettori, dell’essere ammirato e osannato.
Il teatro per Harwood, il quale effettivamente avuto modo di lavorare come servo di scena, è una realtà vorace che risucchia ogni cosa, soprattutto la vita dei protagonisti. Sir Ronald, consapevole di essere giunto ormai alla fine della sua esistenza, cerca di lasciare ai suoi compagni di avventura qualcosa di sé, ma non sono sentimenti, perché quelli sono tutti vissuti più sulla scena che nella vita, piuttosto è il testimone del teatro stesso: l’anello del grande attore shakespeariano Kean che egli consegna alla direttrice di scena la quale l’aveva sempre amato senza alcuna speranza per vent’anni. L’unica vera grandezza che Sir Ronald poteva regalare a qualcuno, lo stesso anello con il quale affronta consapevolmente la sua ultima recita di Re Lear. Il suo testamento spirituale è un capolavoro di narcisismo e mancanza di sensibilità, poiché tutti i suoi più stretti collaboratori non vengono ricordati se non genericamente, ultimo segno appunto che, a volte, il teatro è quasi un vizio o una malattia, qualcosa che può uccidere anche solo con le parole. Eppure il messaggio finale è proprio quello della direttrice di scena Madge. Sir le chiede alla fine: “Sei stata felice? Ne è valsa la pena?” E lei risponde: “No, non sono stata felice, ma ne è valsa la pena”.
La propria vita può essere anche come una città bombardata e intorno si può scatenare anche la peggiore delle tempeste, ma la forza del teatro è invincibile perché è una pura energia della mente: rituale collettivo, catartico e liberatorio o magari droga e malattia da cui non si vuole guarire, perché a volte è più facile essere personaggi che uomini…
Rossana Cerretti


La selva oscura di Faust

14 11 2011

 L’impietosa meditazione di Aleksandr Sokurov, vincitore del Leone d’oro a Venezia, sul destino umano 

Il Faust di Sokurov non è un film per signorine, non risparmia allo spettatore alcun ostacolo o ferita emotiva, semplicemente ci pone di fronte alla nostra intrinseca fragilità, alla caducità fisica ineluttabile e, allo stesso tempo, alla schiavitù del desiderio, questo sì inesauribile – al contrario del tempo assegnatoci – che ci divora e ci dilania fino all’ultimo respiro della nostra esistenza. La storia del Faust di Goethe (ma si potrebbe far riferimento anche a Marlowe per lo spirito dell’opera e per l’epilogo) diventa una vera e propria discesa agli inferi che prende ben presto l’aspetto e il tono di un inferno dantesco. Sokurov non solo ha capito tutto di Faust, ma si inventa in modo geniale anche il linguaggio adatto per esprimerlo.
Il film, che conclude la tetralogia del potere dedicata dal regista russo a Hitler, Lenin e alla fine dell’Impero del Sole di Hirohito, si apre su un paesaggio fiammingo degno di Bruegel nel quale regna una follia collettiva che non ha nulla da invidiare a Bosch.

 

Ispirandosi alla visione dell’aldilà tipica di Dante, il regista sa bene che l’inferno prima di materializzarsi in una condanna eterna è un luogo interiore, un senso di insoddisfazione, di “fame” continua che impedisce di ragionare e di vivere. Non a caso il film si apre con l’orribile visione di una dissezione anatomica umana nella quale Faust (interpretato da un ottimo Johannes Zeiler ) non sa neanche lui che cosa stia cercando. L’anima forse? Ma quella proprio non si trova. E allora seziona organi, estrae e taglia in una orrenda confusione di visceri sanguinolenti. Ma nessuna scienza può trovare ciò che egli cerca né lo può la medicina: tutti vogliono qualcosa perché “hanno fame”, fame di desideri che li perderanno, che li divoreranno fino ad ucciderli e solo allora tutto si acquieterà, contenti della morte al punto da provare riconoscenza per il proprio assassino. 
Meglio “non esser mai” piuttosto che “non esser più”: meglio sarebbe stato non essere mai nati, perché la nascita e il dolore sono uniti per sempre, fino all’ultimo secondo di vita. La meditazione su Faust porta dunque Sokurov ad attingere alle vette del pensiero umano, al senso finale della tragedia individuale e collettiva insita nella vita e nella morte. Il film è estremamente “parlato” e ricco come un copione teatrale e, allo stesso tempo, poiché siamo in un mondo di “già dannati” anche la parola è disturbata, spiata, sempre interrotta da qualcuno o qualcosa. Non c’è mai una vera comunicazione tra gli uomini perché tutti sono troppo presi dalla loro stessa sofferenza per ascoltare veramente gli altri. Tutti si spingono, si scontrano, si battono per nulla. L’ambiente è sempre troppo stretto, troppo caotico per poter ragionare e ogni cosa sfugge prima ancora di essere compresa. Le prospettive cambiano e si deformano tra realtà e pensiero, tra visione e desiderio, anche alternando i formati della pellicola proiettata tutta in un piccolo 1:37, che sembra il 4/3 televisivo. Proprio il contrario del grande formato HD a cui ci siamo abituati e di sicuro non è una scelta casuale. La dimensione ricercata dal regista è solo quella della coscienza e dell’aldilà, claustrofobica come un girone della Commedia.

 

Il Mefistofele raccontato da Sokurov non ha nulla di affascinante: è uno dei tanti inservienti di Lucifero, un lurido usuraio, uno che prende sempre in pegno qualcosa promettendo il soddisfacimento di qualche desiderio, ma poi ogni obiettivo raggiunto nasconde una terribile contropartita. Ciò che prende è ben altro del pegno richiesto, un prezzo altissimo per un nulla, ma la folle speranza degli uomini fa credere loro anche l’impossibile pur di vivere per un istante nell’illusione di poter padroneggiare il proprio destino.
Alla fine Mefistofele trascina Faust con sé nell’inferno, ormai materializzato, “in caldo e in gelo”, e sarà del tutto illusorio sperare di sfuggire al proprio demone seppellendolo sotto un mucchio di pietre. Faust nel suo ultimo atto di inutile superbia procederà da solo sempre più in alto, verso quello che crede sia l’estremo limite dell’uomo, ma ad attenderlo ci sarà solo il bianco ghiacciato di un gelido deserto. Traditore, dunque, come il conte Ugolino, della propria anima e di chi lo ha amato.

Rossana Cerretti



La vita è un gioco, ma non per tutti

14 11 2011

La commedia tragica delle “Nozze di Figaro” alla Fenice di Venezia  

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Quando si esce da un’opera come le Nozze di Figaro in scena nei giorni scorsi alla Fenice di Venezia,  ci si perde tra le calli e l’onnipresente folla di turisti col cuore leggero e gratificato sentendosi n armonia col mondo in continuità con la partitura mozartiana così complessa e brillante. Di sicuro si è rassicurati sul futuro della lirica in Italia, nonostante tutto, visto che ci sono ancora cantanti e direttori così, un  pubblico giustamente entusiasta e tanta passione palpabile nel “fare squadra”. La commedia La folle journée ou Le mariage de Figaro di Beaumarchais (continuazione dell’opera dello stesso autore che poi sarà materia del rossiniano Barbiere di Siviglia) è stata trasformata nel 1786 in sei settimane dall’imbattibile coppia Da Ponte- Mozart in un‘opera straordinaria, con ritmi comici forsennati, meravigliose arie e, per giunta, con un sottotesto di notevole complessità.

Come poi faranno anche nel Così fan tutte, i due autori indagano sulla vera natura dell’amore e sulle sue mille sfaccettature: il legame lecito frutto del matrimonio, il tradimento, la gelosia, il divertimento e il gioco; la ricerca anche dell’amore mercenario pur di soddisfare la propria passione, il desiderio di vendetta e la disperazione. Naturalmente, Mozart e Da Ponte affrontano questi temi anche con sguardo sorridente e ironico, ma senza dimenticare il dramma che si consuma nella casa del Conte: Almaviva che si era battuto disperatamente per la mano della bella Rosina, ora la tradisce con tutte e lei è sempre più disperata ed afflitta.

Senza dubbio qui affiorano le idee di Mozart e Da Ponte sul matrimonio: di certo pare che proprio il legame ufficializzato sia la tomba dell’amore e che il sentimento stesso non possa vivere se non della propria trasgressione. Non per niente il personaggio di Cherubino, anche per l’ironica scelta del nome, adombra non certo un angioletto del paradiso, ma piuttosto un demonietto, un Cupido lazzaroncello che con la sua presenza fatata contribuisce a creare intrighi, sotterfugi ed equivoci di ogni tipo. Che sia alato, almeno metaforicamente, lo rivela anche il balzo dalla finestra dal quale esce assolutamente indenne. Il regista Damiano Michieletto ha voluto vestire questo sbarazzino seduttore da ragazzino impertinente con una grande C disegnata sul petto come se fosse un piccolo supereroe che crea scompiglio nella compagnia. Quasi certamente questo personaggio era il più vicino al giovane Mozart, giocoso libertino, totalmente innamorato dell’amore. L’interpretazione di Marina Comparato è stata molto applaudita, veramente godibile anche nella recitazione. Dal punto di vista vocale leggera, dolce e giocosa, come richiede il personaggio e dotata di una buona tecnica.

 

Un altro elemento interessante dell’opera è quello politico, per noi oggi di importanza forse trascurabile, ma che all’epoca di Mozart venne giudicato così significativo da costringere gli autori ad eliminare le scene della commedia originale che a giudizio dell’imperatore Giuseppe II istigavano all’odio tra le classi sociali. Ovviamente ci si riferiva alla questione delloius primae noctis, usanza feudale, abolita dallo stesso Conte di Almaviva nelle sue terre, ma adesso rimpianta da quando si è invaghito della sua serva Susanna, la futura sposa di Figaro. Mozart e Da Ponte si rivelano quindi sempre all’avanguardia, anche politicamente, con quello sberleffo finale all’aristocrazia, quando si scopre che anche Figaro è un nobile rampollo della famiglia abbandonato dalla madre. Insomma, anche questi servi che diventano improvvisamente  nobili contribuiscono a mettere in ridicolo il Conte – che abusa della propria posizione di potere per comprare l’amore di Susanna – e creano la sensazione di una gran confusione tra le classi e di collettiva follia sentimentale. Il motore dell’azione è dato dai travestimenti, dalle battute con evidenti doppi sensi in qualunque direzione come la leggendaria “Se vuol ballare signor Contino il chitarrino le suonerò” cantata da Figaro. Riguardo a questo personaggio dobbiamo dire che Alex Esposito è stato veramente bravissimo nei panni del factotum del Conte escogitando terribili tranelli contro il suo padrone per vendicarsi delle sue pretese su Susanna. Ma gli uomini della compagnia verranno entrambi gabbati dalle loro donne che vorranno metterli alla prova, invertendo quindi la situazione che troveremo poi nel Così fan tutte. La follia collettiva della giornata viene materialmente resa dal regista attraverso una tavola riccamente apparecchiata che però, per un motivo o per l’altro, a più riprese viene letteralmente “devastata” dai commensali prima ancora che riescano a pranzare. Non per niente il demonietto amoroso Cherubino non fa che nascondersi proprio lì sotto. Ad accompagnare egregiamente la parte di Figaro troviamo la Susanna di Rosa Feola che ha dato buona prova di sé anche se a volte la sua voce è sembrata mancare un  po’ di volume. Markus Werba nei panni del Conte è risultato ottimo nell’interpretazione, alternando abilmente  l’affettata solennità della sua posizione al ridicolo nel quale cade invariabilmente; dal punto di vista vocale ha dato buona prova di sé, ma con qualche durezza. I comprimari hanno offerto una interpretazione accettabile, ma senza eccellenze.

 A fare da contrappunto alla comicità  generale sono le due donne mature dell’opera: da un lato la Contessa e dall’altra Marcellina, quest’ultima interpretata in modo non entusiasmante da Elisabetta Martorana con la sua rabbia e la sue trame di vendetta che poi si stempereranno nell’amore materno. Rosina, invece,  è presa drammaticamente dalla tristezza per l’amore perduto del Conte, il quale si confermerà infedele fino alla fine. Questo contrasto tra tragedia e commedia enfatizzato dal regista, è stato magnificamente realizzato da una Carmela Remigio con grandi doti interpretative e vocali che hanno reso intense ed emozionanti le sue arie. Inutile e abbastanza fastidiosa la pioggia battente che accompagnava la cantante proprio in una delle melodie più belle e struggenti. Non serve la pioggia vera per mostrare il pianto: la musica di Mozart è il pianto, la pioggia, l’abbandono e tutto il resto! A volte ci si chiede come i registi possano peccare di simili ingenuità. E, d’altra parte, una certa sovrabbondanza si nota anche in generale nella messa in scena  con il materializzarsi sul palcoscenico dei pensieri dei personaggi e dei loro ideali interlocutori. Se questa in alcuni casi potrebbe essere un’operazione anche riuscita, in altri rende la rappresentazione sovraccarica e perfino eccessiva. Nota positiva: attraverso questo espediente, però, l’opera appare veramente recitata e interpretata dai cantanti All’opposto le scenografie erano spoglie e pressoché tutte uguali tanto che ci si chiede perché siano state ideate girevoli se poi prevedevano solo pochissime variazioni nel corso della recita. Forse perché tutto girava avvolgendosi solo su se stesso senza evoluzione? Può darsi. Ottimo il direttore Antonello Manacorda con un Mozart dai ritmi veloci, brillante e di grande effetto, perfetto anche nell’alternanza tra tragedia e commedia. Proprio di tragedia, infatti, dobbiamo parlare poiché, se all’inizio del primo atto durante l’Ouverture troviamo Carmela Remigio – Rosina riversa a terra e intorno a lei i protagonisti attoniti, alla fine dell’opera scopriamo il motivo dell’enigmatico esordio: la Contessa si è uccisa gettandosi dalla finestra dopo aver scoperto che il marito non la ama più. Da quella stessa finestra in precedenza era “volato via” Cherubino,  ma la Contessa non potrà fare altrettanto perché le sue ali sono state strappate insieme ai suoi sogni. Ultimo ingegnoso colpo di scena del regista Damiano Michieletto.  


 



THIS MUST BE THE PLACE

27 10 2011

 

L’accoppiata Penn – Sorrentino crea un film capolavoro su un nuovo personaggio-simbolo 

 
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Il passo è lento, quasi esasperante, strascicato. Anfibi. Capelli neri, tinti, lunghi e cotonati. Sarà il solito punk drogato. Di sicuro è così. Occhiali da sole, a qualunque ora e con qualunque tempo,  nascondono occhi azzurri segnati da una pesante matita nera, labbra rosso sangue sul cerone di un pallore surreale. Dietro il trucco un reduce di una generazione di trasgressioni e follie, di musica commerciale e non, di “rivoluzione” e bestemmia. Un gioco di ruolo, una “recita “ a beneficio del pubblico osannante (ma anche del proprio io irrisolto) si è trasformato in tragica realtà: loro sono morti e lui è rimasto vivo, inchiodato a quel momento, a quella maschera, a quel non essere. Ma dietro il cerone e gli occhiali impenetrabili ci sono gli occhi di un grandissimo Sean Penn, vivi, indagatori, intelligentissimi e silenziosi. Cheyenne è diventato un altro uomo, ma ancora non lo sa: troppi ricordi, troppe azioni senza rimedio lo tengono ancorato al passato. Lui alcolizzato che sniffava eroina ora sembra aver rinunciato a tutto. Troppo perfetto per essere vero oppure solo troppo rassegnato: si è ritirato in Irlanda in un paese di quattro anime, nessun vizio, neppure una sigaretta nella sua casa che pare un ospedale dalle pareti bianche e spoglie. Il suo aspetto può solo suscitare due sentimenti opposti: la repulsione di alcuni o la venerazione di altri, di coloro che vorrebbero che tornasse a cantare. Ma Cheyenne non può tornare, i suoi amici sono morti e forse per colpa sua. Sembra in un perenne stato di stordimento, ma non ci si deve lasciar confondere, tant’è che è diventato una specie di “mago” dell’investimento in borsa, al quale si dedica per ingannare il tempo. In realtà la sua è solo noia, per i prevedibili comportamenti della gente, ipersensibilità e anche disgusto per chi corre corre senza pensare e non sa veramente dove stia andando. Il suo fardello di ricordi si traduce nel correlativo oggettivo di quel carrello della spesa che si porta sempre dietro e che poi cambierà in un trolley inseparabile quando se ne andrà in giro per l’America.

 

 



 “Home is where I want to be”, la mia casa è dove voglio essere, ripete la canzone dei Talking Haeds che dà il titolo al film di Paolo Sorrentino, ma Cheyenne nella sua mente non ha una casa, il suo carrello, la sua valigia sono la sua casa, sebbene abbia una moglie, parenti e amici.
Poi succede qualcosa: lo chiamano dagli Stati Uniti perché suo padre è in fin di vita e parte, nonostante non prenda più un aereo da trent’anni, e da tutto quel tempo non veda la sua famiglia. Così improvvisamente si ritrova catapultato in una realtà diametralmente opposta alla sua: tra gli ebrei ortodossi americani e alle prese con i ricordi di un padre che non lo amava. O forse sì, ma non si erano mai capiti, e adesso, come sempre nella sua vita, è tardi. E’ troppo tardi. Ma forse c’è qualcosa che si può ancora fare per quell’uomo così diverso da lui e fargli vedere quanto è diventato bravo suo figlio, dimostrando a lui e a se stesso, per una volta, di saper fare “la cosa giusta”. Suo padre aveva cercato per tutta la vita il suo aguzzino ad Auschwitz senza riuscirci, ma adesso lui lo troverà. Diversi? Opposti? Può darsi, però suo padre era un testardo come lui, rimasto ancorato al passato come lui, un reduce, in fondo, come lui; ecco il terreno sul quale si incontrano seppure solo virtualmente.
Ciò che colpisce di questo incredibile personaggio creato da Sorrentino e da Sean Penn è lo sguardo non convenzionale, la capacità di darsi il tempo per riflettere, la pazienza infinita nell’osservare e trarre conclusioni. Cheyenne è un “contemplatore” che proprio per questo assorbe come una spugna ciò che vede e sente nella realtà e lo fa proprio rielaborandolo. La sua mente è libera e vuota, cristallina: per questo gli bastano poche foto dell’Olocausto per capire di che si trattava, per poi turbarsi al punto da andarsene per non volerle più guardare. Per uno come lui che pare aver vissuto al limite per tanto tempo ora il bene e il male appaiono per evidenza, senza tante parole. La sua purezza di cuore lo salva perché lo pone costantemente in contatto con la sua coscienza. “Qualcosa mi ha disturbato, ma non so esattamente che cosa” ripete spesso quando si trova di fronte ad azioni o affermazioni negative.


Rispetto al precedente film “Il Divo” potrebbe sembrare che i punti in comune non siano molti, ma, ad una lettura più attenta, ci si accorge che non solo lo stile di Sorrentino non è cambiato, ma anche la tendenza a concentrarsi su un individuo da studiare minuziosamente quasi isolandolo dal contesto è la stessa. Troviamo sicuramente qualcosa di autobiografico in questo film, soprattutto per i riferimenti al difficile rapporto con il padre e per la sorprendente e originalissima capacità di osservazione tipica di Sorrentino, il quale, nella vita assume spesso questo aspetto talvolta trasognato e quasi incerto, almeno a giudicare dalle sue interviste. C’è soprattutto una filosofia di vita, la filosofia dell’artista che sotto il travestimento dell’arte resta un po’ bambino e un po’ “dio” capace di capire il mondo meglio di chiunque altro.
This must be the place: deve essere questo il posto, quello dove si era sempre vissuti, il luogo della propria coscienza restituita a se stessa

 

 



BALLO IN MASCHERA CON DELITTO

13 10 2011
Il dramma del potere e della giustizia in scena al Festival Verdi di Parma
 

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Il 9 ottobre al Festival Verdi di Parma è stato il giorno del Ballo in maschera (repliche il 13-23-27-30 ottobre), opera complessa anche per la sua tormentata genesi dovuta alle grandi difficoltà affrontate da Verdi a causa della censura che si scatenò contro l’argomento prescelto: un fatto storico realmente accaduto ovvero l’uccisione di Gustavo II di Svezia da parte del suo migliore amico per questioni di gelosia. La censura borbonica prima e pontificia poi, vi lesse, però, soltanto l’aborrito tema del “regicidio” e bocciò senza appello l’ambientazione e la scelta dei protagonisti. L’opera, quindi, dopo un lungo travaglio venne ambientata in America all’epoca del governo inglese, prima della guerra di Indipendenza e re Gustavo divenne Conte Riccardo, governatore di Boston. L’argomento di discussione che stava a cuore a Verdi resta, però, alla fine invariato: le tentazioni e le contraddizioni del potere assoluto, che spinge chi governa da solo o verso l’ingiustizia e la crudeltà o verso la morte sicura, vittima della violenza degli oppositori. Argomento sempre di attualità, se consideriamo che all’ultimo festival di Venezia è stato presentato un film come Le Idi di marzo. Ma Verdi non è mai così schematico nella scelta dei suoi soggetti, ama quello che egli stesso chiama “il disordine” tragico, perciò la colpa non ricade soltanto su chi governa, ma, come vedremo, anche sul popolo. Altro elemento interessante, tipico del compositore bussetano, e senz’altro ispirato alle teorie del Machiavelli, è la negazione degli affetti privati del Principe, per ragioni diverse, ma sempre legate al drammatico conflitto tra istanze individuali e ragioni della politica.

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Per quanto riguarda la messa in scena odierna, gli appassionati sono stati piuttosto delusi dall’allestimento vecchio di oltre vent’anni – opera, peraltro pregevole, di Pierluigi Samaritani – che effettivamente risulta per noi oggi troppo classico. Stupisce, tra l’altro, la mancanza di qualunque riferimento concettuale e registico all’ambiguità della maschera parallela a quella dei protagonisti. L’unico elemento sottolineato, e questo efficacemente, è stato il ruolo delle potenze infernali che anche qui, come poi sarà nel Macbeth, risultano fondamentali, sebbene in questo caso il tentativo di fuggire il proprio destino porti la protagonista femminile, Amelia, tra le braccia di chi voleva evitare ad ogni costo (un caso tipo leggenda di Samarcanda, insomma). L’evocazione dei demoni risveglia sempre qualcosa di maledetto e guai a chi si prende gioco delle potenze dell’Ade; la maga Ulrica, infatti, è una riedizione dell’Azucena del Trovatore, ma spinta alle estreme conseguenze, ritratta mentre evoca senza alcuna remora le potenze sataniche.

Dall’altra parte c’è solo un re  – diventato poi il conte Riccardo – che non vuole essere sanguinario, crede nella stima e nell’amore del proprio popolo e perciò si rifiuta di reagire alle congiure contro di lui. Ma non sa che la vita spesso è proprio un  ballo in maschera dove ciò che si vede non è ciò che sembra: talvolta il caso crea orribili travestimenti che travisano la realtà e distruggono stima e amicizia. Dopo Les Vêpres siciliennes di quattro anni prima (1855) Verdi affronta la figura di un altro governatore che viene colpito proprio nel momento del suo cedimento. Anzi, in questo caso è anche peggio perché Riccardo – Gustavo è un animo generoso che ama veramente il proprio paese, ma questo non basterà a salvarlo (ricordiamo, tra l’altro, anche il soggetto simile del Simon Boccanegra). Ancora una volta notiamo una certa sfiducia da parte di Verdi nei confronti del popolo che appare incosciente e defilato, più attento alle malie della maga Ulrica, che a conservare un governatore giusto e clemente. Hanno il sopravvento, invece, le trame dei cortigiani e la situazione del Rigoletto viene ribaltata: mentre l’arrogante e insulso Duca di Mantova trova mille alleati per le sue scelleratezze, per il generoso e sincero Riccardo non c’è scampo.
Neppure il sacrificio del suo amore e il senso di responsabilità che lo spinge a rinunciare alla donna amata, saranno sufficienti: così, come nel Devereux di Donizetti, l’amico più caro si trasformerà nel più implacabile dei nemici. Il paragone, tra l’altro, non è casuale, perché, effettivamente, il carattere di Riccardo somiglia molto agli idealisti, romantici eroi, leali e vinti, del compositore bergamasco.
Intanto nell’ombra le “maschere” agiscono e sono il motore dell’azione:  sono i lupi travestiti da agnelli, i congiurati,  quelli che Riccardo troppo ottimisticamente non ha voluto colpire . Proprio i suoi spietati e occulti avversari lo perderanno con le loro continue trame notturne, i pedinamenti e i tentativi di ucciderlo.

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La musica dell’opera si muove tra due poli nettamente diversi e apparentemente opposti, ma in realtà è questa l’anima del Ballo in maschera: tutto inizia per scherzo accompagnato da una musica giocosa, allegra e irridente… troppo allegra, come spesso capita  in Verdi, prefigurando con lo sberleffo le disgrazie peggiori. Il primo a mascherarsi per mettere alla prova la maga Ulrica è proprio Riccardo: così fin dall’inizio cominciano per gioco i travestimenti e gli inganni che dureranno fino alla fine, quando sarà nuovamente il Conte a dare il ballo in maschera. Ma nell’opera spesso repentinamente la musica giocosa si trasforma prima in ritmi cadenzati e ironici (come il famoso “E che baccano, che caso strano”) poi in momenti incalzanti carichi di tensione e di attonito stupore, per esaltare infine i toni foschi della tragedia. La presenza dell’elemento amoroso interrompe solo per poco tempo l’atmosfera dominante. Come già in alcuni momenti della Traviata, la maschera entra in scena sempre con spirito irridente, ma tetro (non dimentichiamo la sfilata di carnevale sotto le finestre di Violetta poco prima della sua morte).

Tornando alla messa in scena del Festival, anche il maestro Gianluigi Gelmetti non è piaciuto molto, perché considerato piuttosto superficiale e schematico nella direzione.
Il cast nell’insieme  ha offerto una prova abbastanza buona anche se con alcuni distinguo: Francesco Meli, che debuttava nel ruolo, ha creato un vero personaggio giovane e passionale, inguaribile ottimista e idealista, dai grandi slanci di generosità e sacrificio. Molto bene nelle arie e nei duetti, qualche perplessità nella barcarole “Dì tu se fedele” dove i repentini passaggi dall’acuto al registro grave (una vera “perfidia” verdiana per l’indubbia difficoltà)  sono apparsi carenti.  Interpretazione emozionante e incantata del duetto con Amelia nel secondo atto e in crescendo con l’ottimo “Forse le soglie attinse” e la successiva romanza “Ma s’è m’è forza perderti”del terzo, fino all’epilogo tutto cuore del “No, no… lasciatelo, lasciatelo” e dell’Addio… miei figli”.
Serena Gamberoni ha interpretato brillantemente (voce tecnicamente precisa, ma non molto potente) un Oscar giustamente al centro della trama come un folletto shakespeariano angelico e demoniaco insieme, sempre incosciente, che considera la realtà come un bellissimo e semplice gioco senza rendersi conto veramente delle conseguenze. Senza Oscar l’azione non andrebbe avanti e anche l’assassinio finale di Riccardo ha luogo a causa della sua incapacità di tenere la bocca chiusa sul travestimento del Conte.
Vladimir Stoyanov è stato bravo nell’interpretazione di Renato, anche se talvolta è apparso in qualche difficoltà nelle note più alte. Anche l’Ulrica di Elisabetta Fiorillo  ha presentato una voce piena e “scura” nelle note basse, appropriata al personaggio, ma ha incontrato non poche difficoltà negli acuti. Molto attesa Kristin Lewis anche lei al debutto nel ruolo di Amelia, ma questo non è  sembrato particolarmente congeniale alle sue caratteristiche. Mentre quest’estate è stata un’ottima Aida all’Arena di Verona, in un’edizione giustamente applauditissima, nel ruolo della protagonista del Ballo in Maschera non è sembrata a suo agio: i passaggi di registro sono apparsi aspri e non graduali, gli acuti accentati decisamente difficoltosi, faticoso il fraseggio, nell’insieme, insomma, non bene, anche se  i mezzi vocali di per sé sarebbero notevoli. Tra le voci degli altri personaggi, da tenere d’occhio soprattutto Filippo Polinellinel ruolo di Silvano (basso) che probabilmente in futuro farà ancora parlare di sé.  



MESSA DA REQUIEM AL FESTIVAL VERDI

13 10 2011
 Un evento nell’evento
 
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Non potevamo mancare al Festival Verdi di Parma che ogni anno in autunno (1- 28 ottobre 2011) si trasforma in rito collettivo cittadino e internazionale, richiamando i melomani italiani e stranieri. Per noi sono stati due giorni di full immersion nella musica del grande compositore bussetano in compagnia di un pubblico attento e competente come pochi. Lungi dalle ostentazioni griffate di certi teatri, qui negli intervalli si parla animatamente di opera, e i veterani del loggione canticchiano le arie più famose o discutono di stile, voci, interpretazione. Un’atmosfera irripetibile e tutta da vivere.L’8 ottobre ci attende la Messa da Requiem nella spettacolare cornice del Teatro Farnese all’interno del palazzo della Pilotta. Meraviglia delle meraviglie di un vero teatro seicentesco, progettato da Giovanni Battista Aleotti fra 1618 e 1619, completamente in legno, articolato in gradinate semicircolari e in due piani di loggiato decorati con  affreschi. Nonostante i danni subiti nel 1944, la parziale ricostruzione, unita alle parti originali, ci restituisce qualcosa di semplicemente unico al mondo.
Il direttore Yuri Temirkanov, giustamente osannato dal pubblico, con l’orchestra del Regio, crea un Verdi modernissimo dalle sonorità formidabili e originali, ricordando a tratti suggestioni wagneriane, e, in generale, precorrendo perfino Stravinskij. Interpreti delle grandi occasioni: il soprano Dimitra Theodossiou, il tenore Francesco Meli (che sostituiva l’indisposto Roberto Aronica) Sonia Ganassi, autorevolissimo mezzosoprano e il basso Riccardo Zanellato. Senza contare il coro del Teatro Regio, diretto da Martino Faggiani che ha eseguito magistralmente i diversi brani della partitura, passando dall’incalzante e disperata evocazione del Dies irae alla trepidante musica celeste del Sanctus. I solisti non sono stati da meno, creando un’emozione palpabile, una concentrazione di armonia malinconica e compianto, di dolore e implorazione che ha lasciato il pubblico veramente senza fiato e talvolta con le lacrime agli occhi. 
 
Le voci, tutte molto belle, hanno fatto brillare la meravigliosa e drammatica partitura verdiana. Il Kyrie è una spada che trafigge l’anima, dove i solisti e, in particolare, tenore e basso ci danno un primo saggio della loro forza espressiva.

Il Liber scriptus di Sonia Ganassi ha tutta la severa e  tetra solennità del Giudizio finale, fino alla domanda angosciosa: “Che cosa potrò dire, misero me?”(quid sum miser tunc dicturus?) e all’ossessivo ripetersi dell’invocazione Salva me cantata dal coro e dai solisti in successione.L’Ingemisco di Francesco Meli ci ha regalato un ‘invocazione dolente e malinconica fino alla vista della luce del  Sed tu bonus”e all’immagine del gregge dei giusti nel quale, però, si dispera di essere prescelti.  E infatti, subito dopo, torna l’evocazione dell’ora del terribile Giudizio nel Confutatis di  Riccardo Zanellato, seguito dal Voca me che pare uscito quasi dalla fossa stessa del defunto. Anche qui, dopo la lunga accorata preghiera, si apre un accento di speranza, ma il momento della morte per Verdi è il campo di battaglia tra le forze delle tenebre e della luce, una lotta all’ultimo sangue e senza esclusione di colpi. Nonostante l’opera sia stata scritta per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, la presenza salvifica della Provvidenza divina non è affatto scontata, anzi. Così, quando sembra riaffacciarsi la possibilità della salvezza e della misericordia, ecco le minacciose note iniziali del Dies irae nuovamente scatenarsi in tutta la loro potenza. Le forze infernali della perdizione eterna sono dunque sempre in agguato fino alla fine. Il momento di svolta è dato dal libera animas, libera eas del Domine Jesu sussurrato, invocato, implorato da tenore, basso e mezzosoprano a cui segue l’attacco dolcissimo del sed tenuto per sette battute dal soprano, la brava Dimitra Theodossiou, che, accompagnato dalle note rarefatte dei violini sul tema portante, apre finalmente l’anima alla visione della luce angelica. Anche l’accostamento delle due voci femminili di Dimitra Theodossiou e Sonia Ganassi è risultato particolarmente azzeccato per le loro caratteristiche vocali che si completano vicendevolmente. Il dolcissimo Requiem aeternam intonato dalla Theodossiou ci accompagna alle ultime battute. Alla fine, insomma, occhi lucidi e un diluvio di applausi e chiamate, per uno spettacolo da ricordare, mentre ancora ci risuonano nella mente le note conclusive: Libera me, libera me, Domine, de morte aeterna…