THIS MUST BE THE PLACE

27 10 2011

 

L’accoppiata Penn – Sorrentino crea un film capolavoro su un nuovo personaggio-simbolo 

 
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Il passo è lento, quasi esasperante, strascicato. Anfibi. Capelli neri, tinti, lunghi e cotonati. Sarà il solito punk drogato. Di sicuro è così. Occhiali da sole, a qualunque ora e con qualunque tempo,  nascondono occhi azzurri segnati da una pesante matita nera, labbra rosso sangue sul cerone di un pallore surreale. Dietro il trucco un reduce di una generazione di trasgressioni e follie, di musica commerciale e non, di “rivoluzione” e bestemmia. Un gioco di ruolo, una “recita “ a beneficio del pubblico osannante (ma anche del proprio io irrisolto) si è trasformato in tragica realtà: loro sono morti e lui è rimasto vivo, inchiodato a quel momento, a quella maschera, a quel non essere. Ma dietro il cerone e gli occhiali impenetrabili ci sono gli occhi di un grandissimo Sean Penn, vivi, indagatori, intelligentissimi e silenziosi. Cheyenne è diventato un altro uomo, ma ancora non lo sa: troppi ricordi, troppe azioni senza rimedio lo tengono ancorato al passato. Lui alcolizzato che sniffava eroina ora sembra aver rinunciato a tutto. Troppo perfetto per essere vero oppure solo troppo rassegnato: si è ritirato in Irlanda in un paese di quattro anime, nessun vizio, neppure una sigaretta nella sua casa che pare un ospedale dalle pareti bianche e spoglie. Il suo aspetto può solo suscitare due sentimenti opposti: la repulsione di alcuni o la venerazione di altri, di coloro che vorrebbero che tornasse a cantare. Ma Cheyenne non può tornare, i suoi amici sono morti e forse per colpa sua. Sembra in un perenne stato di stordimento, ma non ci si deve lasciar confondere, tant’è che è diventato una specie di “mago” dell’investimento in borsa, al quale si dedica per ingannare il tempo. In realtà la sua è solo noia, per i prevedibili comportamenti della gente, ipersensibilità e anche disgusto per chi corre corre senza pensare e non sa veramente dove stia andando. Il suo fardello di ricordi si traduce nel correlativo oggettivo di quel carrello della spesa che si porta sempre dietro e che poi cambierà in un trolley inseparabile quando se ne andrà in giro per l’America.

 

 



 “Home is where I want to be”, la mia casa è dove voglio essere, ripete la canzone dei Talking Haeds che dà il titolo al film di Paolo Sorrentino, ma Cheyenne nella sua mente non ha una casa, il suo carrello, la sua valigia sono la sua casa, sebbene abbia una moglie, parenti e amici.
Poi succede qualcosa: lo chiamano dagli Stati Uniti perché suo padre è in fin di vita e parte, nonostante non prenda più un aereo da trent’anni, e da tutto quel tempo non veda la sua famiglia. Così improvvisamente si ritrova catapultato in una realtà diametralmente opposta alla sua: tra gli ebrei ortodossi americani e alle prese con i ricordi di un padre che non lo amava. O forse sì, ma non si erano mai capiti, e adesso, come sempre nella sua vita, è tardi. E’ troppo tardi. Ma forse c’è qualcosa che si può ancora fare per quell’uomo così diverso da lui e fargli vedere quanto è diventato bravo suo figlio, dimostrando a lui e a se stesso, per una volta, di saper fare “la cosa giusta”. Suo padre aveva cercato per tutta la vita il suo aguzzino ad Auschwitz senza riuscirci, ma adesso lui lo troverà. Diversi? Opposti? Può darsi, però suo padre era un testardo come lui, rimasto ancorato al passato come lui, un reduce, in fondo, come lui; ecco il terreno sul quale si incontrano seppure solo virtualmente.
Ciò che colpisce di questo incredibile personaggio creato da Sorrentino e da Sean Penn è lo sguardo non convenzionale, la capacità di darsi il tempo per riflettere, la pazienza infinita nell’osservare e trarre conclusioni. Cheyenne è un “contemplatore” che proprio per questo assorbe come una spugna ciò che vede e sente nella realtà e lo fa proprio rielaborandolo. La sua mente è libera e vuota, cristallina: per questo gli bastano poche foto dell’Olocausto per capire di che si trattava, per poi turbarsi al punto da andarsene per non volerle più guardare. Per uno come lui che pare aver vissuto al limite per tanto tempo ora il bene e il male appaiono per evidenza, senza tante parole. La sua purezza di cuore lo salva perché lo pone costantemente in contatto con la sua coscienza. “Qualcosa mi ha disturbato, ma non so esattamente che cosa” ripete spesso quando si trova di fronte ad azioni o affermazioni negative.


Rispetto al precedente film “Il Divo” potrebbe sembrare che i punti in comune non siano molti, ma, ad una lettura più attenta, ci si accorge che non solo lo stile di Sorrentino non è cambiato, ma anche la tendenza a concentrarsi su un individuo da studiare minuziosamente quasi isolandolo dal contesto è la stessa. Troviamo sicuramente qualcosa di autobiografico in questo film, soprattutto per i riferimenti al difficile rapporto con il padre e per la sorprendente e originalissima capacità di osservazione tipica di Sorrentino, il quale, nella vita assume spesso questo aspetto talvolta trasognato e quasi incerto, almeno a giudicare dalle sue interviste. C’è soprattutto una filosofia di vita, la filosofia dell’artista che sotto il travestimento dell’arte resta un po’ bambino e un po’ “dio” capace di capire il mondo meglio di chiunque altro.
This must be the place: deve essere questo il posto, quello dove si era sempre vissuti, il luogo della propria coscienza restituita a se stessa

 

 



BALLO IN MASCHERA CON DELITTO

13 10 2011
Il dramma del potere e della giustizia in scena al Festival Verdi di Parma
 

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Il 9 ottobre al Festival Verdi di Parma è stato il giorno del Ballo in maschera (repliche il 13-23-27-30 ottobre), opera complessa anche per la sua tormentata genesi dovuta alle grandi difficoltà affrontate da Verdi a causa della censura che si scatenò contro l’argomento prescelto: un fatto storico realmente accaduto ovvero l’uccisione di Gustavo II di Svezia da parte del suo migliore amico per questioni di gelosia. La censura borbonica prima e pontificia poi, vi lesse, però, soltanto l’aborrito tema del “regicidio” e bocciò senza appello l’ambientazione e la scelta dei protagonisti. L’opera, quindi, dopo un lungo travaglio venne ambientata in America all’epoca del governo inglese, prima della guerra di Indipendenza e re Gustavo divenne Conte Riccardo, governatore di Boston. L’argomento di discussione che stava a cuore a Verdi resta, però, alla fine invariato: le tentazioni e le contraddizioni del potere assoluto, che spinge chi governa da solo o verso l’ingiustizia e la crudeltà o verso la morte sicura, vittima della violenza degli oppositori. Argomento sempre di attualità, se consideriamo che all’ultimo festival di Venezia è stato presentato un film come Le Idi di marzo. Ma Verdi non è mai così schematico nella scelta dei suoi soggetti, ama quello che egli stesso chiama “il disordine” tragico, perciò la colpa non ricade soltanto su chi governa, ma, come vedremo, anche sul popolo. Altro elemento interessante, tipico del compositore bussetano, e senz’altro ispirato alle teorie del Machiavelli, è la negazione degli affetti privati del Principe, per ragioni diverse, ma sempre legate al drammatico conflitto tra istanze individuali e ragioni della politica.

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Per quanto riguarda la messa in scena odierna, gli appassionati sono stati piuttosto delusi dall’allestimento vecchio di oltre vent’anni – opera, peraltro pregevole, di Pierluigi Samaritani – che effettivamente risulta per noi oggi troppo classico. Stupisce, tra l’altro, la mancanza di qualunque riferimento concettuale e registico all’ambiguità della maschera parallela a quella dei protagonisti. L’unico elemento sottolineato, e questo efficacemente, è stato il ruolo delle potenze infernali che anche qui, come poi sarà nel Macbeth, risultano fondamentali, sebbene in questo caso il tentativo di fuggire il proprio destino porti la protagonista femminile, Amelia, tra le braccia di chi voleva evitare ad ogni costo (un caso tipo leggenda di Samarcanda, insomma). L’evocazione dei demoni risveglia sempre qualcosa di maledetto e guai a chi si prende gioco delle potenze dell’Ade; la maga Ulrica, infatti, è una riedizione dell’Azucena del Trovatore, ma spinta alle estreme conseguenze, ritratta mentre evoca senza alcuna remora le potenze sataniche.

Dall’altra parte c’è solo un re  – diventato poi il conte Riccardo – che non vuole essere sanguinario, crede nella stima e nell’amore del proprio popolo e perciò si rifiuta di reagire alle congiure contro di lui. Ma non sa che la vita spesso è proprio un  ballo in maschera dove ciò che si vede non è ciò che sembra: talvolta il caso crea orribili travestimenti che travisano la realtà e distruggono stima e amicizia. Dopo Les Vêpres siciliennes di quattro anni prima (1855) Verdi affronta la figura di un altro governatore che viene colpito proprio nel momento del suo cedimento. Anzi, in questo caso è anche peggio perché Riccardo – Gustavo è un animo generoso che ama veramente il proprio paese, ma questo non basterà a salvarlo (ricordiamo, tra l’altro, anche il soggetto simile del Simon Boccanegra). Ancora una volta notiamo una certa sfiducia da parte di Verdi nei confronti del popolo che appare incosciente e defilato, più attento alle malie della maga Ulrica, che a conservare un governatore giusto e clemente. Hanno il sopravvento, invece, le trame dei cortigiani e la situazione del Rigoletto viene ribaltata: mentre l’arrogante e insulso Duca di Mantova trova mille alleati per le sue scelleratezze, per il generoso e sincero Riccardo non c’è scampo.
Neppure il sacrificio del suo amore e il senso di responsabilità che lo spinge a rinunciare alla donna amata, saranno sufficienti: così, come nel Devereux di Donizetti, l’amico più caro si trasformerà nel più implacabile dei nemici. Il paragone, tra l’altro, non è casuale, perché, effettivamente, il carattere di Riccardo somiglia molto agli idealisti, romantici eroi, leali e vinti, del compositore bergamasco.
Intanto nell’ombra le “maschere” agiscono e sono il motore dell’azione:  sono i lupi travestiti da agnelli, i congiurati,  quelli che Riccardo troppo ottimisticamente non ha voluto colpire . Proprio i suoi spietati e occulti avversari lo perderanno con le loro continue trame notturne, i pedinamenti e i tentativi di ucciderlo.

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La musica dell’opera si muove tra due poli nettamente diversi e apparentemente opposti, ma in realtà è questa l’anima del Ballo in maschera: tutto inizia per scherzo accompagnato da una musica giocosa, allegra e irridente… troppo allegra, come spesso capita  in Verdi, prefigurando con lo sberleffo le disgrazie peggiori. Il primo a mascherarsi per mettere alla prova la maga Ulrica è proprio Riccardo: così fin dall’inizio cominciano per gioco i travestimenti e gli inganni che dureranno fino alla fine, quando sarà nuovamente il Conte a dare il ballo in maschera. Ma nell’opera spesso repentinamente la musica giocosa si trasforma prima in ritmi cadenzati e ironici (come il famoso “E che baccano, che caso strano”) poi in momenti incalzanti carichi di tensione e di attonito stupore, per esaltare infine i toni foschi della tragedia. La presenza dell’elemento amoroso interrompe solo per poco tempo l’atmosfera dominante. Come già in alcuni momenti della Traviata, la maschera entra in scena sempre con spirito irridente, ma tetro (non dimentichiamo la sfilata di carnevale sotto le finestre di Violetta poco prima della sua morte).

Tornando alla messa in scena del Festival, anche il maestro Gianluigi Gelmetti non è piaciuto molto, perché considerato piuttosto superficiale e schematico nella direzione.
Il cast nell’insieme  ha offerto una prova abbastanza buona anche se con alcuni distinguo: Francesco Meli, che debuttava nel ruolo, ha creato un vero personaggio giovane e passionale, inguaribile ottimista e idealista, dai grandi slanci di generosità e sacrificio. Molto bene nelle arie e nei duetti, qualche perplessità nella barcarole “Dì tu se fedele” dove i repentini passaggi dall’acuto al registro grave (una vera “perfidia” verdiana per l’indubbia difficoltà)  sono apparsi carenti.  Interpretazione emozionante e incantata del duetto con Amelia nel secondo atto e in crescendo con l’ottimo “Forse le soglie attinse” e la successiva romanza “Ma s’è m’è forza perderti”del terzo, fino all’epilogo tutto cuore del “No, no… lasciatelo, lasciatelo” e dell’Addio… miei figli”.
Serena Gamberoni ha interpretato brillantemente (voce tecnicamente precisa, ma non molto potente) un Oscar giustamente al centro della trama come un folletto shakespeariano angelico e demoniaco insieme, sempre incosciente, che considera la realtà come un bellissimo e semplice gioco senza rendersi conto veramente delle conseguenze. Senza Oscar l’azione non andrebbe avanti e anche l’assassinio finale di Riccardo ha luogo a causa della sua incapacità di tenere la bocca chiusa sul travestimento del Conte.
Vladimir Stoyanov è stato bravo nell’interpretazione di Renato, anche se talvolta è apparso in qualche difficoltà nelle note più alte. Anche l’Ulrica di Elisabetta Fiorillo  ha presentato una voce piena e “scura” nelle note basse, appropriata al personaggio, ma ha incontrato non poche difficoltà negli acuti. Molto attesa Kristin Lewis anche lei al debutto nel ruolo di Amelia, ma questo non è  sembrato particolarmente congeniale alle sue caratteristiche. Mentre quest’estate è stata un’ottima Aida all’Arena di Verona, in un’edizione giustamente applauditissima, nel ruolo della protagonista del Ballo in Maschera non è sembrata a suo agio: i passaggi di registro sono apparsi aspri e non graduali, gli acuti accentati decisamente difficoltosi, faticoso il fraseggio, nell’insieme, insomma, non bene, anche se  i mezzi vocali di per sé sarebbero notevoli. Tra le voci degli altri personaggi, da tenere d’occhio soprattutto Filippo Polinellinel ruolo di Silvano (basso) che probabilmente in futuro farà ancora parlare di sé.  



MESSA DA REQUIEM AL FESTIVAL VERDI

13 10 2011
 Un evento nell’evento
 
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Non potevamo mancare al Festival Verdi di Parma che ogni anno in autunno (1- 28 ottobre 2011) si trasforma in rito collettivo cittadino e internazionale, richiamando i melomani italiani e stranieri. Per noi sono stati due giorni di full immersion nella musica del grande compositore bussetano in compagnia di un pubblico attento e competente come pochi. Lungi dalle ostentazioni griffate di certi teatri, qui negli intervalli si parla animatamente di opera, e i veterani del loggione canticchiano le arie più famose o discutono di stile, voci, interpretazione. Un’atmosfera irripetibile e tutta da vivere.L’8 ottobre ci attende la Messa da Requiem nella spettacolare cornice del Teatro Farnese all’interno del palazzo della Pilotta. Meraviglia delle meraviglie di un vero teatro seicentesco, progettato da Giovanni Battista Aleotti fra 1618 e 1619, completamente in legno, articolato in gradinate semicircolari e in due piani di loggiato decorati con  affreschi. Nonostante i danni subiti nel 1944, la parziale ricostruzione, unita alle parti originali, ci restituisce qualcosa di semplicemente unico al mondo.
Il direttore Yuri Temirkanov, giustamente osannato dal pubblico, con l’orchestra del Regio, crea un Verdi modernissimo dalle sonorità formidabili e originali, ricordando a tratti suggestioni wagneriane, e, in generale, precorrendo perfino Stravinskij. Interpreti delle grandi occasioni: il soprano Dimitra Theodossiou, il tenore Francesco Meli (che sostituiva l’indisposto Roberto Aronica) Sonia Ganassi, autorevolissimo mezzosoprano e il basso Riccardo Zanellato. Senza contare il coro del Teatro Regio, diretto da Martino Faggiani che ha eseguito magistralmente i diversi brani della partitura, passando dall’incalzante e disperata evocazione del Dies irae alla trepidante musica celeste del Sanctus. I solisti non sono stati da meno, creando un’emozione palpabile, una concentrazione di armonia malinconica e compianto, di dolore e implorazione che ha lasciato il pubblico veramente senza fiato e talvolta con le lacrime agli occhi. 
 
Le voci, tutte molto belle, hanno fatto brillare la meravigliosa e drammatica partitura verdiana. Il Kyrie è una spada che trafigge l’anima, dove i solisti e, in particolare, tenore e basso ci danno un primo saggio della loro forza espressiva.

Il Liber scriptus di Sonia Ganassi ha tutta la severa e  tetra solennità del Giudizio finale, fino alla domanda angosciosa: “Che cosa potrò dire, misero me?”(quid sum miser tunc dicturus?) e all’ossessivo ripetersi dell’invocazione Salva me cantata dal coro e dai solisti in successione.L’Ingemisco di Francesco Meli ci ha regalato un ‘invocazione dolente e malinconica fino alla vista della luce del  Sed tu bonus”e all’immagine del gregge dei giusti nel quale, però, si dispera di essere prescelti.  E infatti, subito dopo, torna l’evocazione dell’ora del terribile Giudizio nel Confutatis di  Riccardo Zanellato, seguito dal Voca me che pare uscito quasi dalla fossa stessa del defunto. Anche qui, dopo la lunga accorata preghiera, si apre un accento di speranza, ma il momento della morte per Verdi è il campo di battaglia tra le forze delle tenebre e della luce, una lotta all’ultimo sangue e senza esclusione di colpi. Nonostante l’opera sia stata scritta per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, la presenza salvifica della Provvidenza divina non è affatto scontata, anzi. Così, quando sembra riaffacciarsi la possibilità della salvezza e della misericordia, ecco le minacciose note iniziali del Dies irae nuovamente scatenarsi in tutta la loro potenza. Le forze infernali della perdizione eterna sono dunque sempre in agguato fino alla fine. Il momento di svolta è dato dal libera animas, libera eas del Domine Jesu sussurrato, invocato, implorato da tenore, basso e mezzosoprano a cui segue l’attacco dolcissimo del sed tenuto per sette battute dal soprano, la brava Dimitra Theodossiou, che, accompagnato dalle note rarefatte dei violini sul tema portante, apre finalmente l’anima alla visione della luce angelica. Anche l’accostamento delle due voci femminili di Dimitra Theodossiou e Sonia Ganassi è risultato particolarmente azzeccato per le loro caratteristiche vocali che si completano vicendevolmente. Il dolcissimo Requiem aeternam intonato dalla Theodossiou ci accompagna alle ultime battute. Alla fine, insomma, occhi lucidi e un diluvio di applausi e chiamate, per uno spettacolo da ricordare, mentre ancora ci risuonano nella mente le note conclusive: Libera me, libera me, Domine, de morte aeterna…



IL RITORNO DI ULISSE… IN ARCADIA

2 10 2011

La curiosa rielaborazione dell’eroe omerico nell’opera di Claudio Monteverdi recentemente presentata alla Scala

ulisse Il ritorno di Ulisse in patria è un grande affresco degli ultimi dieci libri dell’Odissea ideato da Giacomo Badoaro e Claudio Monteverdi nel 1640 per il pubblico di Venezia, opera di grande successo all’epoca come dimostra la ripresa dell’anno successivo nella stessa città, fatto eccezionale, visto che allora le messe in scena duravano in genere solo una stagionePer noi oggi, invece, non altrettanto facile da apprezzare, anche per la presenza di molti personaggi e soprattutto di lunghi monologhi lirici. Se ne rese conto forse Monteverdi stesso, vista la sua continua ricerca di colpi di scena e situazioni capaci di movimentarel’insieme. Una favola antica riveduta e corretta a beneficio di un pubblico aristocratico, raffinato e sentimentale, attento soprattutto alla presenza dell’elemento amoroso.
Per chi conosce l’originale omerico alcuni aspetti appaiono immediatamente evidenti: è stato valorizzato soprattutto l’aspetto elegiaco e bucolico, “arcadico”, insomma, dove il personaggio appare spesso solo con i suoi pensieri di nostalgia, di rimpianto e di preoccupazione per il presente, pervaso dai suoi dubbi e dai lamenti. Il canto e la musica piuttosto che far avanzare l’azione, in realtà, danno voce soprattutto alle reazioni psicologiche dei protagonisti e manifestano apertamente i loro pensieri segreti. In questo senso è Penelope la figura chiave dell’opera, contrapposta volutamente alla serva Melanto la quale intrattiene con Eurimaco una relazione amorosa felice e appassionata e incita Penelope a lasciarsi andare. Ma la sposa di Ulisse risponde disprezzando l’amore sentimento infido che porta il dolore e la disillusione.
Sembra così che Monteverdi – Badoaro pensino alla risolutezza di Penelope come ad un elemento negativo non dovuto al sentimento di fedeltà, ma piuttosto alla sua paura di amare, perché colei che si sente abbandonata non sa più lasciarsi andare al sentimento, nonostante i numerosi corteggiatori. Questo ci porta effettivamente ad uno degli elementi centrali dell’opera dove tutto ciò che è legato alla bellezza femminile e alla esaltazione dei sensi viene posto in grande evidenza, mentre le parti propriamente epiche ed eroiche vengono decisamente sminuite e rese, per così dire, “inoffensive” agli occhi dello spettatore. L’elemento tragico, quindi, viene molto limitato, per lasciar spazio a sentimenti più leggeri e cortigiani. I Proci, ad esempio, da un centinaio diventano tre, e la loro uccisione da parte di Ulisse è poco più che virtuale, elemento questo enfatizzato ancor di più, nello spettacolo della Scala dalla regia surreale e astratta di Robert Wilson. Inoltre, se l’uccisione dei Proci è l’elemento risolutivo dell’originale omerico, descritto anche negli aspetti più violenti e sanguinari, nel Ritorno di Ulisse il motivo dominante è l’ostinazione di Penelope che si rifiuta di riconoscere il marito, nonostante le molte prove, portate anche dalla nutrice Ericlea (una brava Marianna Pizzolato sacrificata in una parte veramente minima). Telemaco lungi dall’aver conseguito nel suo viaggio a Sparta uno spirito eroico, esalta invece nel dialogo con la madre la bellezza di Elena, anche qui volutamente contrapposta alle virtù di fedeltà e pudicizia. L’opera è costruita, quindi, in modo problematico soprattutto sui pro e i contro di amare o non amare – riflesso delle dotte discussioni della veneziana Accademia degli Incogniti – anche se alla fine, c’è un omaggio proprio alla “verginità” pudica di Penelope: come prova risolutiva della sua identità Ulisse, infatti, non ci parla dell’ulivo entro il quale è costruito il suo letto nuziale, ma di una coperta tessuta dalla stessa Penelope dove viene raffigurata Artemide (irriducibile vergine) con le sue ninfe a caccia. Elemento alquanto curioso per un letto matrimoniale, ma, appunto, l’opera è tutta giocata sul contrasto tra passione e fedeltà coniugale tra la solitudine che ne deriva e l’edonismo delle altre donne. Monteverdi e Badoaro creano quindi un dramma per musica che intende esaltare entrambe le ragioni quelle della giovinezza, del cuore e, soprattutto, seguendo i poeti latini, dell’attrazione fisica e quella, invece, dell’etica e del giuramento da mantenere. La musica segue lo struggimento di Penelope, le sue incertezze, la sua triste vita eternamente in lutto, così come indugia con Ulisse sulla spiaggia di Itaca mentre, risvegliatosi dopo il viaggio con i Feaci, si lamenta disperato non riconoscendo la sua patria. L’impostazione musicale sembra voler favorire soprattutto l’ascolto e l’esaltazione della parola poetica con ridondanze e rallentamenti. Monteverdi si sofferma sulle parole-chiave, e talvolta perfino sulle sillabe, sfruttando appieno il potenziale sonoro dell’unione musica-parola.
ulisse-8-492x329Certo, per un’opera del genere ci vuole un pubblico avvezzo a questo tipo di melodramma, capace di apprezzare la meravigliosa fusione degli elementi in questa sorta di “recitazione cantata”, un pubblico preparato e attento anche alle singolari varianti della trama rispetto al modello omerico. Altro elemento interessante sono i concili degli dei che, invece, vengono inseritia piene mani all’interno dell’opera e che ricordano quelle trattative tra statisti, ministri e re dell’epoca dal fare vagamente annoiato, un po’ sciattamente alle prese con i destini del mondo. Anche questo fa parte del tormentone barocco: l’idea del fato che viene deciso sempre altrove tra i potenti in un’altra dimensione, in un altro mondo contro il quale si può fare ben poco, come dimostrano le quattro figure allegoriche del prologo che si spartiscono insieme il potere del mondo: Fragilità umana, Fortuna, Amore e Tempo.

La regia di Robert Wilson di certo non ha aiutato il movimento scenico, seguendo se è possibile ancor di più l’aspetto meditativo e surreale dell’opera, creando delle atmosfere sospese e nitide con scene dalla spazialità geometrica e luci fredde. Viene esaltata la fissità dei personaggi in pose estremamente espressive, ma statuarie, in contrasto con i ricercati costumi, frutto della commistione tra abbigliamento aristocratico seicentesco e reinterpretazione baroccadell’antico. Di sicuro una regia così concentra ancora più di quanto già non faccia la partitura tutto l’interesse sulla musica e sul canto e mortifica veramente troppo l’azione scenica creando, nonostante le indubbie suggestioni formali, una specie di spettacolo-concerto.
Il direttore Rinaldo Alessandrini e l’orchestra, coadiuvata dal gruppo Concerto italiano, sono stati davvero magistrali nel rendere compiutamente le atmosfere barocche di Monteverdi, nel seguire le aperture liriche del testo poetico e nell’eseguire i crescendo dei concitati drammatici. I cantanti nella recita del 28 settembre, invece, sono risultati piuttosto anonimi, forse anche perché quest’opera non lascia grande spazio a nessuno di essi, ognuno ha la sua parte, ma nessuno emerge in modo particolare. L’unica che in genere dovrebbe distinguersi di più è appunto Penelope, interpretata da Sara Mingardo, ma la sua esecuzione è apparsa piuttosto incolore. Più riuscito il personaggio di Iro interpretato da Gianpaolo Fagotto, originale creazione monteverdiana del primo personaggio comico dell’opera lirica.

Rossana Cerretti