SHAME, LA TRISTE LIBERTA’

16 01 2012

Angoscia e sesso spazzatura in uno dei film più belli della stagione, interpretato da un grande Michael Fassbender


Brandon Sullivan è un uomo solo: niente veri amici, niente famiglia, solo un lavoro di successo, un appartamento minimalista vista Hudson, da cui si domina New York, e sesso freddo, asettico, brutale, reale o virtuale che sia; può essere la donna di una sera rimorchiata in un bar o la prostituta prezzolata. Non importa. Brandon, efficiente e brillante manager in ufficio, nella vita privata si aggira per New York come un animale randagio in cerca dei suoi simili, con l’incapacità di restare solo con se stesso e il desiderio di distrazione dall’ansia e dalla rabbia che cova in lui. Rifugge volutamente dal contatto umano, perché quello che vive tutti i giorni e le notti è solo un contatto di corpi dal quale non vuole essere realmente “toccato”. Tra Brandon e l’altro sesso, c’è un muro che egli stesso ha elevato, altissimo e invalicabile, fatto di regole ferree: una donna per non più di una sera, niente relazioni, irreperibile per chi lo cerca, soprattutto se donne; in realtà, però, non lo cerca nessuno, a parte sua sorella Sissy che gli chiede continuamente aiuto. Aiuto che Brandon non ha alcuna intenzione di darle.
Lui ha la sua tana da lupo, con le cene preconfezionate tirate fuori dal frigo, le chat erotiche, la masturbazione da quindicenne, le corse sfrenate nella notte per sfogarsi. Brandon, interpretato da un bravissimo Michael Fassbender (coppa Volpi al Festival di Venezia per questo ruolo), è un Don Giovanni triste, eppure le donne difficilmente resistono al suo sguardo ipnotico che emana eros da ogni parte, come un serpente che fissi la preda e la immobilizzi incantandola.

Steve McQueen (video artista inglese, passato brillantemente alla regia, omonimo del famoso attore degli anni ‘60 – ’70) fornisce un ritratto impietoso e obiettivo di uno dei tanti single incalliti di cui ormai la nostra società pullula: uomini volutamente isolati che rifuggono da qualunque responsabilità nei rapporti umani, che temono il sentimento e lo eliminano dalla loro vita, credendo di eliminare così anche la sofferenza; senza rendersi conto che in questo modo si privano semplicemente della vita stessa. Alla fine, però, la sorella Sissy, interpretata dalla brava Carey Mulligan, stanca di lasciare messaggi telefonici senza risposta, piomba a casa di Brandon senza avvisarlo. La scena che segue è tragicomica: la solitudine del protagonista, infatti, è talmente inveterata che, appena scopre la presenza di una persona in casa sua, egli pensa ci siano i ladri e la sua prima reazione è quella di cercare un’arma per difendersi. Giusto presentimento, visto che tra i due comincia una lotta psicologica senza quartiere. Sissy diventa per lui l’elemento nuovo nella sua esistenza incredibilmente robotizzata, una presenza che non sa gestire. Tanto più che la sorella, reduce dall’ennesima delusione amorosa, cerca in lui rifugio e protezione.

Di loro non sappiamo nulla, solo che sono del New Jersey e se ne sono andati molto giovani, probabilmente per sottrarsi ad una situazione difficile, nient’altro. Sono degli sradicati senza passato, almeno apparentemente, ma poi il loro vissuto è, di fatto, una zavorra insostenibile per entrambi. Al contrario del fratello, Sissy non è capace di badare a se stessa, è continuamente alla ricerca di conferme e di affetti che però durano una notte o poco più e poi scompaiono nel nulla. Rappresenta l’altra faccia della medaglia della vita di Brandon: schiacciata dall’ennesimo rifiuto, la sua urgenza di amore la fa diventare instabile, invadente, e inopportuna. Brandon sente una sua telefonata disperata all’ex fidanzato che la respinge ancora una volta. Mentre ascolta la conversazione, il suo viso è quello di un uomo che sa esattamente che cosa Sissi stia passando e che cosa lui abbia deciso di evitare come la peste: la possibilità di mettersi nuovamente in gioco e quindi di soffrire disperatamente. Quando invita a cena una sua collega di lavoro e cerca per una volta di cominciare un rapporto degno di questo nome, appare bloccato e impaurito come un novellino, terrorizzato; quando poi vuole provare a “fare l’amore” sul serio anziché semplicemente “sesso meccanico”, ad un certo punto non riesce più a continuare. Nel frattempo Sissy, sempre più incosciente è andata a letto con David, amico e capoufficio di Brandon, personaggio dalla vita squallida: classico pappagallo da bar, con moglie e figli, che non si fa scrupolo della fragilità di lei né del fatto che sia la sorella del suo collega e ne approfitta senza pietà. E pensare che aveva notato subito le braccia di Sissy piene di cicatrici, visto che non si sa neanche più quante volte la giovane abbia tentato il suicidio tagliandosi le vene. Brandon è arrabbiato con lei, è furioso perché Sissy fa riaffiorare in lui dei sentimenti che non voleva più ricordare; è una donna per la quale non può mostrare indifferenza, ma tra vittima e carnefice sceglie ancora il carnefice.

Davanti a loro c’è continuamente il deserto di una città lontana e triste, dove, parafrasando “New York New York” (cantata da Sissy in una originale versione malinconica) si sperava di arrivare al colmo del successo e ci si è ritrovati soli in riva all’Hudson come estranei a guardar scorrere la vita degli altri. L’emotività della sorella “stana” il protagonista dal suo mondo, lo mette davanti ad uno specchio: egli è diventato almeno esteriormente un insensibile cacciatore di emozioni e di possesso mentale (a proposito del sesso dice:“mi piace come mi fa sentire, come se esistessimo solo io e lei”); Sissy, invece, è sempre all’affannosa ricerca di un uomo che non la abbandoni, incapace com’è di vivere senza aver bisogno di qualcuno. Di fatto a causa del loro vissuto precedente, entrambi usano il sesso come unica forma di contatto con l’altro e come merce di scambio. Sono uguali, in realtà, simili al punto che tra loro esiste uno strano rapporto quasi simbiotico, sviluppatosi proprio nell’ambito di una famiglia con caratteri patologici. La loro relazione ricorda “Vaghe stelle dell’Orsa” di Luchino Visconti, ma il rapporto è invertito, visto che nel capolavoro del famoso regista italiano è il fratello Gianni l’anello debole della catena. C’è qualcosa di strano sicuramente nella loro storia, qualcosa che il regista non racconta, ma di cui vediamo gli effetti: “non siamo brutte persone è solo che veniamo da un brutto posto”… Durante un’intervista, ai giornalisti che chiedevano notizie sul passato dei due protagonisti, Fassbender non ha voluto rispondere per lasciare questo aspetto alla libera interpretazione dello spettatore, pur ammettendo di aver formulato diverse ipotesi a riguardo.  Forse alle spalle c’è una vicenda di violenza familiare, come dimostrerebbe la tendenza all’autodistruzione e l’incapacità di entrambi di riconoscersi sessualmente in modo maturo. Molti hanno interpretato il titolo Shame, “vergogna” come riferito alla vita che Brandon conduce da adulto, ma probabilmente rappresenta, piuttosto, quel senso di colpa e di paura da cui nasce la sua incapacità di rapportarsi col mondo. Il regista, infatti, più o meno consciamente descrive gli effetti a lungo termine di un abuso sessuale infantile: uno degli atteggiamenti tipici della vittima, infatti, è proprio la tendenza ad isolarsi e a rifiutare le relazioni affettive, oppure a fare di se stessa una merce di scambio sessuale. Probabilmente c’è un vissuto comune di fratello e sorella in cui, a fronte di una famiglia dai caratteri fortemente negativi, hanno cercato di creare un luogo mentale di protezione vicendevole, ma forse cadendo in una relazione morbosa.

 

Sissy riattiva in Brandon l’esigenza di sensazioni reali e non più solo virtuali; così il protagonista getta via il computer, ma non riesce ugualmente a imbastire una relazione con l’altro sesso e allora, in una specie di delirio autopunitivo, scende i gradini del suo vizio cercando emozioni sempre più forti e perverse. Fino al momento del brusco risveglio… Finalmente Brandon corre per un vero motivo, ma potrebbe essere troppo tardi. Il regista lascia il finale aperto: in uno scenario in cui domina un individualismo predatorio e ciascuno infligge agli altri continui traumi reciproci, fratello e sorella potranno salvarsi? Il sorriso di una sconosciuta veglia su di lui idealmente dall’inizio alla fine del film. Forse Brandon tenterà…

 



E QUESTA SAREBBE ANTIGONE? Uno spettacolo da dimenticare per le Belle Bandiere al Teatro Sociale di Brescia

12 01 2012

Ormai da parecchi anni il Teatro Stabile di Brescia ad ogni nuova Stagione di prosa ci infligge le uggiose performance delle Belle Bandiere, compagnia composta da Marco Sgrosso, Elena Bucci & C..
Già in altre occasioni ha destato un certo attonito stupore l’insistenza con la quale questo gruppo di attori venga riproposto in qualunque tipo di repertorio, anche in opere per le quali risulta assolutamente inadatto.
Se, infatti, su testi contemporanei come “L’amante” di A. Pinter o “Edda Gabler” di Ibsen, i loro spettacoli, con un tipo di recitazione piuttosto straniante e fredda, potevano anche avere un senso e in qualche modo funzionare, già con il “Macbeth” e ancor più con la “Locandiera” di Goldoni sono stati dolori: molto poco credibile Marco Sgrosso nel ruolo del crudele sovrano scozzese e, soprattutto, priva del temperamento necessario la Lady Macbeth di Elena Bucci.
Della “Locandiera”, poi, meglio non parlarne: negati completamente i presupposti dell’opera goldoniana, le Belle Bandiere sono andate semplicemente per conto loro, trasformando la protagonista da un’icona dell’intelligenza borghese ad una specie di insulso e riprovevole playboy in gonnella.
L’apoteosi negativa, però, è stata raggiunta mercoledì scorso con “Antigone”: in questo caso la compagnia ha veramente superato se stessa (in peggio ovviamente) creando un’opera lenta, senza ritmo, priva di qualunque drammaticità, svuotata completamente del suo contenuto.
E, a dire la verità, ce n’è voluto perché il capolavoro di Sofocle è veramente difficile da distruggere: generalmente riesce sempre ad imporsi per la forza straordinaria delle sue ragioni contrapposte e per il conflitto, ancora attuale, tra morale naturale e legge dello Stato. Da oggi, però, dovremo dire “quasi sempre”, visto che, alla fine, anche quest’opera è stata costretta a soccombere sotto il peso di una messa in scena a dir poco grottesca: movimenti scenici inesistenti o inutili, ritmi lenti e goffi, recitazione (?) pessima, gridolini, risolini e mossettine che, probabilmente, nelle intenzioni della regista Elena Bucci (ma parlare di regia in questo caso sembra davvero azzardato!) dovevano significare il coro… Che dire?
Dobbiamo senz’altro riconoscere alle Belle Bandiere la “gloria” di essere riusciti nell’impresa fino ad oggi ritenuta pressoché impossibile, di annichilire Sofocle e la sua immortale poesia.
Il pubblico, sbigottito, ha applaudito ben poco, lasciando la sala mentre gli attori ancora si profondevano negli inchini finali…
Rimane solo da fare un appello accorato ai direttori artistici: per gli anni a venire meditate, gente, meditate! Possibile che non ci si possa guardare un po’ più intorno?
Per adesso, intanto, chi se la sente continuerà a sorbirsi le Belle Bandiere e buon divertimento! Per parte nostra, a questo punto, abbiamo già dato…



Recensione: SCACCO AL RE – Il suicidio della coscienza moderna in “Finale di partita” di S. Beckett

28 02 2009

Per il Branciaroli fans club di Facebook, ho rispolverato questa recensione di  "Finale di Partita" di S. Beckett, scritta nel 2006 quando lo spettacolo è stato presentato dal Teatro degli Incamminati a Brescia.

Ho cercato di spiegare l’approccio di Branciaroli al testo di Beckett e anche le sue diverse possibili interpretazioni. Spero vi piaccia.

Lo scenario è da catastrofe post-atomica: una guerra suicida è scoppiata e il mondo è finito oppure è stato un uomo solo, un folle dittatore a promuovere l’intera distruzione del genere umano. Così Samuel Beckett, maestro del teatro dell’assurdo, immagina la definitiva scomparsa dell’umanità nel suo Finale di partita, presentato il 19 febbraio scorso (2006) al Teatro Sociale di Brescia dalla Compagnia degli Incamminati per la regia di Franco Branciaroli.
Solo il deserto regna intorno ad un bunker in cui gli ultimi sopravvissuti si sono rifugiati. Tutto è grigio, comprese le pareti che li circondano e anche il mare è senza onde, è fatto di piombo, intorno c’è solo sabbia. Anche gli esseri naturali, animali e piante, sono scomparsi.
I quattro sopravvissuti Hamm Clov, Nagg, Nell hanno nomi storpiati e simbolici. A cominciare proprio da Hamm (storpiatura di Hamlet), il re, vecchio, cieco e paralitico, inchiodato sulla sua sedia a rotelle, il quale governa il suo servo Clov stupido, privo di memoria e con una gamba di legno, che fa quel poco che c’è da fare con il poco rimasto. La coscienza dell’uomo moderno, quindi, con le sue domande è paralitica e cieca e può solo comandare al servo che probabilmente rappresenta la tecnica e la macchina.
Inoltre, sembra che sia stato proprio Hamm a decretare la fine del mondo, per odio della vita e per paura degli altri, sentimenti determinati anche dal suo essere un diverso. In realtà, la paralisi di Hamm è soprattutto un immobilismo interiore: è la paura di vivere e la convinzione che non ci sia nulla di buono nell’esistenza, ma, che, una volta nati, si entri inesorabilmente nel cerchio del dolore e della distruzione. La sua paralisi è il nichilismo della filosofia di fine Ottocento, ma le sue radici si trovano nella nuova scienza, soprattutto in Galileo, come sottolinea la presenza del cannocchiale. La scienza ha tolto all’uomo il suo antropocentrismo e ne ha fatto un essere insignificante vittima della natura.
Branciaroli sia nella regia sia nella recitazione aderisce perfettamente al testo di Beckett, valorizzandolo nelle sue molteplici sfaccettature e facendo apprezzare la complessità delle sue tematiche relative alla realtà dell’uomo.
Hamm ha spesso un fazzoletto che gli copre il volto come una salma ancor viva o come una sindone che sudi sangue, visto che il suo viso, come quello di Clov, è incredibilmente rosso. Il rosso allude forse all’esposizione alla radiazione atomica, ma soprattutto, si tratta del sudore di sangue dell’infelicità esistenziale assoluta dell’uomo, disancorato da se stesso: un cieco che brancola nel buio della negazione. Un ridicolo Prometeo che nonostante la sua miserabile condizione, si ostina a considerarsi al centro della terra e del cosmo, in una disperata e fallace affermazione di potere.
In scena da una parte ci sono poi due bidoni della spazzatura, nei quali vegetano Nagg e Nell, il padre e la madre di Hamm, senza gambe, caduti dal tandem sulle Ardenne, a Sedan, battuta di feroce sarcasmo contro la guerra franco prussiana e il primo conflitto mondiale. Essi ricordano i due protagonisti di Giorni felici: vorrebbero amarsi, ma le loro menomazioni li hanno resi egoisti e sciocchi come bambini.
Nel bunker si vivono gli ultimi giorni di tutti, ma forse proprio perché sono gli ultimi, vengono trascorsi come giorni qualsiasi; il padrone litiga con il servo, il servo con il padrone, i genitori con il figlio. Si spera di dormire un po’, anzi, di dormire sempre. Una delle battute ricorrenti di Hamm è appunto la continua richiesta delle «sue medicine», anche se è sempre troppo presto per prenderle.
Sorgono poi conflitti interiori: per esempio il servo non sa se abbandonare il padrone e andarsene oppure restare. Egli rappresenta il popolo sottoposto ad una dittatura, il quale fino alla fine non ha mai il coraggio di contestare il despota anche se quest’ultimo lo sta portando alla totale rovina.
Infine, con la comparsa di un bambino fuori dal bunker, il servo sembra deciso ad andarsene, ma non si muove, altrimenti il padrone lo sentirà e lo convincerà ancora a stare con lui. In questo campo appare anche Dio, nelle fattezze di un cane a tre gambe e con tre occhi, è di pezza, poiché si tratta di una creazione puramente umana e per giunta non è ancora finito. E’ un dio comodo, pregato da chi ha distrutto l’umanità, da chi non l’ha impedito e da chi in lui non crede, ma tutti si stupiscono, poi, di non trovarlo.
Del resto, tutta la realtà è frutto semplicemente di affabulazione ed assume consistenza solo nella narrazione: è l’uomo stesso che la rappresenta per sé, perché, in definitiva, ciò che sappiamo del mondo è un fatto puramente mentale. In verità, la realtà semplicemente non esiste e se guardassimo oltre le apparenze e le maschere troveremmo solo il nulla.
Non soltanto il luogo dove è ambientata l’opera è claustrofobico, ma anche l’atmosfera generale di repressione continua e sistematica della vita. Ad un certo punto, infatti, giunge il momento in cui Hamm deve raccontare la storia, perché ormai la storia si crea raccontandola più che «agendola», proprio perché anch’essa è vuota, non ha consistenza. Hamm racconta la storia del servo che egli avrebbe raccolto dalla strada con la promessa di farlo diventare giardiniere; una menzogna, ovviamente, considerando che poi la natura è stata completamente sterminata. In cambio, però, Clov ha dovuto abbandonare suo figlio, il suo bambino, nonostante abbia scongiurato inutilmente Hamm di non farlo. Scopriamo allora che quest’ultimo ha anche ucciso il dottore, quindi la scienza o la psicanalisi e Mother Pegg «di oscurità» perché non le ha dato olio per la lampada, metafora biblica per indicare, probabilmente, la speranza.
Branciaroli interpreta Hamm in modo molto originale, riproducendo la voce italiana dell’ispettore Clouseau: un investigatore fallito, cioè un investigatore cieco e immobile. Un re Sole in disarmo, un Napoleone a Sant’Elena nell’ultimo giorno, ma stizzoso come una vecchia zitella e sicuro ancora del proprio potere che sfoggia con superomismo ridicolo.
Come un despota antico o moderno (Hitler) egli distrugge in maniera scientifica ogni probabile o improbabile oggetto di resistenza, fosse pure un topo o una pulce. Il re deve sterminare con cura ogni forma di vita creando una «soluzione finale» per tutto il genere umano. La vera malattia, infatti, è la vita stessa e il vero problema è la nascita: Hamm a più riprese insulta duramente suo padre accusandolo di averlo messo al mondo per la sua libidine. A suo avviso, l’unico modo per eliminare l’infelicità del genere umano è la sua distruzione finale, la sua totale scomparsa.
Eppure il protagonista si trova a immaginare la natura, perché essa, pur essendo la fonte di tutte le illusioni, è anche l’elemento che può determinare almeno alcuni attimi di ingannevole felicità nell’uomo. Lo sterminio della natura è quasi peggiore, quindi, della stessa distruzione dell’essere umano.
Si avverano così in quest’opera, tutti i presentimenti dell’uomo moderno e della sua incapacità nichilistica di trovare un senso alla vita: dalla coscienza di Hamlet si passa alla coscienza-prosciutto di Hamm, dal cannocchiale di Galileo e dalla scoperta di molti mondi in movimento, ci si trova al centro soltanto con una coscienza cieca e paralitica, perché i punti di riferimento sono completamente saltati. Sono interessanti anche i rapporti dell’uomo con la donna, la quale, impersonata dalla madre (Nell) essendo in Beckett portatrice di vita, è la prima a perire, ennesima vittima del nichilismo maschile.
Si concretizza ciò che Leopardi e Svevo avevano profetizzato (Beckett, infatti, era un appassionato lettore del poeta dell’Infinito): l’uomo attraverso le sue follie affretterà la sua stessa fine, gli imperi scoppieranno come bolle, e un uomo solo un po’ più folle degli altri si porrà al centro della terra, e con un ordigno di potenza inaudita la libererà da tutti i suoi parassiti… Beckett si spinge oltre e distrugge completamente anche la natura.
Sembra quasi che ipotizzi in quest’opera un finale diverso della seconda guerra mondiale, nel caso in cui Hitler o un altro dittatore come lui avesse vinto e si fosse impossessato di tutto il pianeta. In altre parole, secondo Beckett si sarebbe, di fatto, suicidato distruggendo ogni cosa.
Anche il bambino che viene avvistato non avrà secondo Hamm un destino diverso: alla fine, se esiste, o morirà lì fuori o arriverà a quello stesso bunker; quindi la storia si perpetuerà come ha sempre fatto fino a quel momento, con tutti i suoi orrori e la sua cieca disperazione.
In realtà, il bambino non muore e continua a giocare, perciò Beckett sembra affermare che questa visione del mondo è sbagliata o potrebbe esserlo.
Da questo punto di vista l’opera può essere anche considerata come il suicidio della coscienza umana e del suo scetticismo.
La forza del testo di Beckett viene esaltata dalla recitazione di Branciaroli e di Tommaso Cardarelli, a causa del contrasto tra la gravità tragica di ciò che viene enunciato e il tono ironico, sarcastico e ridicolo della rappresentazione. Lo stridente chiaroscuro tragi-comico, come spesso avviene nei personaggi di Branciaroli, esalta la forza del testo e favorisce la comprensione profonda del sottotesto.

RIFERIMENTI E ULTERIORI INTERPRETAZIONI DELL’OPERA

In quest’opera di Beckett si incrociano e si sovrappongono diversi piani di lettura, per esempio risulta evidente il rapporto con Il signor Puntilla e il suo servo Matti di Brecht, sulla dialettica servo-padrone, ma in questo caso Beckett vuole dimostrare che finché il popolo si sentirà inferiore a qualcuno e bisognoso di essere indirizzato, la sua ignoranza verrà usata dal potere. Non potrà sconfiggere i ricchi, i detentori del potere da troppo tempo, finché si riterrà incapace di pensare e bisognoso di un capo.
Infatti al servo viene dato nome Clov che probabilmente è tratto dall’epiteto usato nell’Ulisse di Joyce «cloved» spaccato, tagliato, per indicare il sesso femminile. Il popolo, come diceva lo stesso Hitler si comporta come una donna: «Chi non comprende il carattere profondamente femminile delle masse non sarà mai un oratore efficace. Rifletti: che cosa si aspetta una donna da un uomo? Chiarezza, decisione, forza ed azione..[.]. »
Hamm invece, sarebbe un Hamlet diventato Ham cioè prosciutto, sempre, quindi, utilizzando il sarcasmo per evidenziare il degrado della coscienza umana, infatti viene sottolineato più volte che nel bunker si sente puzza di cadavere.
Per ideare l’ambientazione della sua opera Beckett ha usato una famosa acquaforte di Albrecht Durer cioè «Melencolia 1», la quale raffigura la conoscenza «saturnina» cioè in qualche modo votata alla distruzione. Come dalle due piccole finestre del bunker, anche qui vediamo sullo sfondo il mare e la terra; troviamo poi la presenza del cane e del bambino, la clessidra che diventerà sveglia, e il campanello che diverrà il fischietto. Infine troviamo un quadrato matematico, una sorta di scacchiera, come allude il titolo dell’opera: il finale di partita è in questo caso uno stallo, nel quale alla fine il re stesso sancisce la propria incapacità di muoversi dopo che quasi tutti i pezzi si sono sacrificati per la sua salvezza (o per il suo interessi?).
Non riesce a muoversi, ma è il pezzo più importante, senza di lui la partita sarebbe persa.
Il servo è la regina, il pezzo più potente, ma di questa potenza sembra essersi accorto solo Hamm, perciò non può ribellarsi. I due individui sono inconciliabili e allo stesso tempo indivisibili. I genitori sono i pedoni, deboli, ma tra i pochi pezzi rimasti, assumono grande importanza e quando il re li perde, prova quasi paura.
Il bunker, però, con le sue due finestre poste molto in alto, potrebbe essere considerato anche come l’interno di un teschio con due globi oculari.
In questo caso Hamm sarebbe l’io che pensa, ma essendo cieco e paralitico, le sue idee sono distorte.Il servo è l’io che agisce, o meglio obbedisce all’io che pensa. I genitori sono il super-io, l’educazione monca e gettata via.



Recensione: IL CORAGGIO DI UN UOMO SOLO – Operazione Valchiria

28 02 2009
Operazione Valchiria
Voi non avete partecipato alla vergogna
Voi avete reagito
Voi avete dato il grande
E per sempre inesausto
Segno del cambiamento
Sacrificando la vostra luminosa esistenza
Per la libertà
La giustizia e l’onore.
 
(dal Monumento alla Resistenza tedesca a Berlino)
 
Claus Stauffenberg con Albrecht Mertz von Quirnheim
 
Talvolta, per una serie di strane coincidenze, nello stesso periodo vengono programmati film che appaiono quasi complementari. E’ il caso di Operazione Valchiria e di The Reader. Essi rappresentano, infatti, due facce della stessa medaglia: se nel secondo si parla di una sorvegliante di Auschwitz assolutamente succube del sistema di condizionamenti messo in atto dal regime, in Operazione Valchiria troviamo, invece, uno sparuto gruppo di tenaci oppositori del nazismo, che tentano disperatamente di sovvertire la dittatura pur sapendo che molto probabilmente non riusciranno nell’intento, consapevoli fin dall’inizio che dovranno sacrificare la vita, forse inutilmente. Oltre all’interesse, quindi, per l’intrecciarsi di due identità e psicologie diverse del popolo tedesco, Operazione Valchiria è costruito anche come un thriller appassionante e amaro.
Riesce a tenere lo spettatore con il fiato sospeso dall’inizio alla fine e in modo quasi inspiegabile, dal momento che tutti, più o meno, sanno già come andrà a finire. Non per niente il regista Bryan Singer è stato considerato una delle più recenti rivelazioni del cinema hollywoodiano. Regista e sceneggiatore (Cristopher McQuarrie) suscitano abilmente una tensione crescente perché il pubblico viene spinto ad identificarsi con questo manipolo di uomini tanto eroici quanto soli.

operazione valchiria - von Stauffenberg prima dell
Tutti sanno bene che, alla fine, questo tentativo, uno dei più significativi tra i quindici effettuati nel corso della dittatura di Hitler, non andrà a buon fine: siamo, infatti, nel 1944 ed è ben noto che il fuhrer morirà nel suo bunker soltanto un anno dopo…
Come si fa, quindi, a raccontare un thriller di cui si conosce già l’epilogo? Eppure la tentazione, l’auspicio che ci venga narrata una storia diversa da quella che conosciamo e avvenga il miracolo, è troppo forte.
E’ lo stesso desiderio quasi suicida che ispirò il colonnello von Stauffenberg (interpretato da un Tom Cruise piuttosto prevedibile), conte di antica famiglia bavarese, eroe e mutilato di guerra, ad organizzare la missione Valchiria pur sapendo che avrebbe avuto poche possibilità di riuscita, perché troppi elementi del piano, abilmente ideato, si sarebbero potuti inceppare. Eppure bisognava tentare. Il protagonista è un uomo pieno di carattere, che non vuole dissimulare le ferite ricevute per la patria, né la mano recisa all’altezza del polso né il suo occhio perduto. E’ un uomo che conosciute le menzogne del regime non intende piegarsi e fa il saluto nazista proprio con quella mano mancante.

stauffenberg memorial

stauffenberg memorial berlino


Come in un’opera di Sofocle, la coscienza morale prevale sull’applicazione cieca della legge.
A questo punto non si trattava più di essere fedeli al fuhrer o alla patria in senso astratto, ma di fronte a così tante morti inutili tra i civili e militari, alla prospettiva dello sfacelo conclusivo che si stava di fatto avvicinando, il giuramento di fedeltà alla Germania assumeva tutt’altro valore. Per non tradire il proprio paese era necessario macchiarsi di alto tradimento di fronte al regime, questo era il paradosso, questo il prezzo altissimo richiesto dall’azione.
Certo, fa impressione vedere la «Tana del lupo» di Hitler immersa proprio in quei boschi di abeti dal fusto slanciato che sicuramente a Stauffenberg ricordavano quelli della sua terra natale. Foreste tanto amate da personalità come Ludwig II di Baviera, con le sue alte idealità e la ricerca del bene comune del popolo, dissacrate dalla presenza di un uomo che, di fatto, stava pianificando la distruzione finale della sua stessa patria.

Il vero Claus Stauffenberg con i suoi figli
Quella commovente natura diventa il luogo di un’impossibile redenzione del popolo tedesco, ancora troppo confuso e plagiato dal culto della personalità del dittatore per tentare in massa di emanciparsi. Ma bisognava provare, e, se non c’è stato il successo, una morte onorevole è stata comunque l’alternativa migliore al dover eseguire continuamente ordini suicidi e iniqui.
Se tanti in più lo avessero pensato… O forse, ne sarebbe bastato uno solo in più, perché talvolta anche un unico uomo che faccia la sua parte può risultare di vitale importanza in un senso o nell’altro.
La ricostruzione storica, proposta nel film, ricorda, infatti, come il meccanismo messo in moto da von Stauffenberg si sia inceppato per via di un uomo solo. Bastava forse quell’unico ufficiale della riserva per cambiare il corso della storia, ma ancora una volta, il carisma di Hitler, inspiegabile quanto oscuramente indiscutibile, ebbe il sopravvento.

Tom Cruise - von Stauffenberg nel film

A lui dedico la musica di Wagner più amata da Ludwig, l’opera del "puro folle" cavaliere del Graal



Recensione: LA RESA DEI CONTI DI DUE GENERAZIONI – The Reader – A voce alta dal romanzo bestseller di Bernhard Schlink

23 02 2009
the reader
Conoscere per caso una donna e innamorarsi di lei pur avendo meno della metà dei suoi anni, per vederla poi scomparire inspiegabilmente all’improvviso: così il primo amore diventa una condanna, un dolore, un trauma che segnerà tutta la vita. Questo, però, non è ancora nulla rispetto al segreto che Hanna nasconde. A distanza di anni Michael, il protagonista, durante un seminario della facoltà di Giurisprudenza a cui si è iscritto, scoprirà nel modo più traumatico – durante il processo – che la donna tanto amata è stata una sorvegliante ad Auschwitz, un’addetta alle selezioni, un’assassina.
Ancora peggio è scoprire, poi, che non aveva provato quasi nulla, almeno a parole, nel lasciar morire arse vive trecento persone. In realtà, quella di Hanna è una personalità bloccata completamente, al punto da non saper, non solo esprimere, ma neppure riconoscere, i propri sentimenti. Per Michael, però, le rivelazioni scioccanti si susseguono: scopre, infatti, che, come era capitato a lui durante la loro breve relazione, anche alle detenute del campo quella donna chiedeva di leggere ad alta voce dei libri per poi, abbandonarle al loro destino, ovvero alla morte.
Lo choc del protagonista è quasi il medesimo dello spettatore, ed è forse lo stesso di molti tedeschi delle passate generazioni, quando scoprivano che l’insospettabile vicino di casa, il mite vecchietto inoffensivo della porta accanto a suo tempo era stato uno spietato nazista.
Il regista Stephen Daldry ci ha abituato allo studio di psicologie complesse, talvolta criptiche, come in The Hours e anche qui la giovane sorvegliante dei campi di sterminio è una personalità complessa e dissociata.
Hanna è una donna capace di improvvise commozioni e traumatici flashback, ma, nel complesso, sembra non rendersi conto di ciò che ha fatto, tanto che si autoaccusa perché è incapace di comprendere la gravità dei suoi atti, perciò li racconta come se fossero scontati e ovvi: «Dovevamo sceglierle, non potevamo tenerle tutte, ne arrivavano in continuazione». Ad interpretarla un’enigmatica e poliedrica Kate Winslet (premio Oscar come migliore attrice protagonista) affiancata da un Ralph Fiennes (Michael da adulto) il quale esprime efficacemente le chiusure e i sensi di colpa di una personalità a sua volta «bloccata».
E’ una donna a cui il sadismo del regime ha risucchiato completamente la coscienza morale, lasciandola con i suoi «dovevo farlo, ero la sorvegliante, la responsabilità era mia».

kate-winslet-e-david-kross- the-reader
Una personalità fortemente condizionata che fa paura perché, in realtà, rappresenta quella parte esistente in ciascuno di noi davvero condizionabile, come ben ha messo in evidenza, tra gli altri, Erich Fromm nel suo Anatomia della distruttività umana, un libro ormai datato, ma sempre attuale, per la sua analisi sul nazismo e, più in generale, sul rapporto con il potere assoluto. Questo film traduce in una vicenda concreta ciò che è illustrato con dovizia di esempi ed esperienze nello studio di Fromm.

Al di là del banco degli imputati, tra il pubblico che assiste, si consuma il dramma di una o più generazioni di tedeschi: tentare di negare l’evidenza che molti, moltissimi erano colpevoli e fare invece in modo che qualcuno paghi, magari anche più del dovuto, per lavare un generale senso di colpa. Così farà il protagonista, così faranno le due sopravvissute ebree che la accusano. Esse si sono salvate probabilmente perché stavano leggendo per lei, ma su questo punto tacciono entrambe. Il protagonista, invece, sa che Hanna non sa leggere e quindi neppure scrivere. Questo la scagionerebbe in parte dall’accusa più grave, ma Michael viene preso da una smania di vederla punita più delle altre. La vuole condannata come la più colpevole di tutte, perché si sente tradito e quasi suo complice.
Di fronte ad una strage, assistiamo allo spettacolo di una generazione contro l’altra, di un muro contro muro senza alcuna comunicazione tra le due realtà; al punto che Hanna, per ascoltare la sentenza che la condannerà al carcere a vita, si presenta vestita in divisa come se fosse ancora una sorvegliante nazista. Sembra che Hanna voglia sfidare tutti o lo faccia solo per riflesso condizionato, senza neanche rendersene conto.
Una donna indecifrabile, soprattutto per se stessa, la quale sembra vivere solo il presente e ciò che «va» fatto, ma probabilmente perché non è in grado di riconoscere quello che ha dentro come è incapace di leggere e scrivere. Non si tratta, però, di un problema di «cultura», come qualche critico ha erroneamente sostenuto, tale incapacità è simbolo, piuttosto, di una sorta di analfabetismo interiore.
Quando Hanna imparerà finalmente a scrivere, attraverso la voce di Michael che continua a leggerle – registrandole e inviandole in carcere – le storie che tanto avevano amato quando stavano insieme, sarà troppo tardi per apprendere davvero qualcosa su se stessa: dalla prigione non si impara niente come non si è imparato nulla dai campi di sterminio né per l’aguzzina né per la sopravvissuta.
Alla fine la memoria si chiude solo col dolore. Non c’è nulla da imparare senza coscienza (come nel caso di Hanna) o senza perdono (come per Ilana Mather, sopravvissuta ad Auschwitz) solo la durezza di cuore e la morte. Questo è infatti l’ultimo dolore che Hanna infligge a Michael, lasciandogli l’ennesimo e inutile senso di colpa.
Un film difficile, talvolta forse volutamente irrisolto, nell’intento di ricordarci quanto siano ancora aperte certe domande sia nella mente dei sopravvissuti sia in quella dei tedeschi. Domande irrisolte, certo, ma prive della tendenza assolutoria nei confronti del Nazismo che qualcuno erroneamente ha voluto riconoscervi. Un’opera che a tratti nella figura di Hanna sembra quasi ricordare i film storici sul terrorismo come Anni di piombo, Maledetti vi amerò o il più recente Buongiorno, notte nei quali spesso si sottolineava la distanza tra vita privata e dimensione pubblica, evidenziando la freddezza con la quale un uomo all’apparenza comune potesse diventare un feroce assassino.


Recensione: L’OROLOGIO CHE ANDAVA ALL’INDIETRO – La relatività del tempo nel

20 02 2009

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«I giorni dell’uomo son come l’erba;
egli fiorisce come il fiore dei campi;
se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più
e non si riconosce più il luogo dov’era.» (Salmi 103, 15-16)

 

Che cosa sono i giorni dell’uomo? E’ la domanda che risuona nella mente dello spettatore dopo i titoli di coda. Continua a riproporsi, evocata nella miriade di fotogrammi e storie, l’immagine delle generazioni che si susseguano come foglie autunnali, insieme quella di New Orleans – la città dove è ambientata la vicenda – la quale sta per essere travolta dall’uragano Katrina. Allora anche il vecchio orologio della sua stazione ferroviaria, che scandisce il tempo al contrario, per far tornare indietro i minuti nella speranza di poter così riparare gli errori degli uomini, si fermerà per sempre.
A New Orleans la storia umana sta per essere travolta da «un’onda di mar commosso», ma la memorabile avventura di Benjamin Button merita di essere ricordata a costo di giocare a rimpiattino con la morte ancora per qualche ora o forse solo pochi minuti. Anche se questo è il destino dell’uomo, egli è un essere affascinante e tenace che non smette mai di lottare, di cercare, di amare.
La strana storia di Benjamin (Brad Pitt), nato vecchio e via via diventato giovane, percorrendo la strada inversa rispetto a tutti gli altri, mostra come forse l’uomo dovrebbe sentirsi una volta giunto nel mondo: con la morte vicina compagna di strada e la capacità di considerare ogni nuovo giorno come un regalo insperato dell’esistenza, a fronte di una fine ritenuta imminente quanto certa.
Il titolo del film ricorda certe novelle di Edgar Allan Poe perché la storia comincia come potrebbe iniziare un suo racconto dell’orrore. Ma se l’esordio evoca il «mostro», circondato da creature dall’aspetto caricaturale, nel corso della narrazione sono ben altre le domande ricorrenti sullo spirito e sulla sua reale forza, l’apparenza e la realtà. Ogni cosa è breve sogno nella vita umana, eppure è ugualmente straordinaria. L’uomo crea la sua magia dibattendosi nel breve tempo che precede la sua scomparsa, eppure continua a produrre il suo perenne canto del cigno. Il più bello, il più ricco e d’infinita varietà che mai si sia veduto e ascoltato.

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Colpisce la fragilità dell’essere umano e il suo miracolo, il fatto che ci si possa incontrare anche solo per poco tempo e che in quei brevi momenti risieda la grandezza di tutta una vita e il suo senso. E’ la struggente bellezza di ciò che muore, perché questa è la sua natura. Ogni cosa è bella proprio nella sua fuggevole realtà, perché così è la sua vita, dura un attimo e in quell’istante dà il meglio di sé. Come la piccola vita del colibrì, animale simbolo di questo film, il quale, se le sue ali si fermassero, morirebbe in poco tempo. La sua magia, per chi lo guarda, può durare solo un attimo, perché il suo volo, poi, si perde lontano. L’anima del colibrì dovrebbe essere il nostro cuore, che non si risparmia fino all’ultimo battito d’ali.
Ciò che appare una sventura spesso diventa in punto di forza, veicolo privilegiato da cui più si apprende; ciò che sembra una nostra limitazione diventa la strada tracciata che porta verso altre mete e altri traguardi, compreso quello di conoscere il mondo e di capire ciò che si agita nel cuore dell’uomo. Così gli ultimi attimi di vita di Daisy (Cate Blanchett), pieni di un dolore quasi insopportabile, vissuti insieme all’imminente rovina della sua città, sono quelli in cui la figlia scopre di lei tutto ciò che non aveva mai saputo, le sue radici e la vera storia d’amore con suo padre. Ma anche Daisy dal diario di Benjamin che non aveva mai avuto il cuore di leggere, scoprirà come quell’uomo l’avesse amata ancora più profondamente di quanto avesse potuto immaginare.
Tutto scorrerà via, ma solo all’apparenza, perché esistono amori e legami che né la lontananza né il sovrapporsi di altre esperienze potranno spezzare. L’eternità dell’uomo nello spirito e nelle sue inspiegabili permanenze sono gli elementi che lo pongono a contatto con una più alta concezione dell’essere, qualcosa che va oltre la morte stessa.
Prevale la sensazione che si possa pensare alla morte come ad una quotidiana compagna dell’esistenza, e che, attraverso essa, la vita appaia anche più vera e straordinaria, ricca di una commozione costante. Nel film non assistiamo né alla smania di voler vivere ad ogni costo chissà quali forti emozioni (quasi per bruciare il tempo) né alla disperazione della perdita; semplicemente ci accompagna l’emozionante malinconia di assaporare quello che viene, sapendo che vive solo in quell’attimo, ma è comunque un miracolo che quell’istante esista.
Un film, che si avvale dell’interpretazione di un Brad Pitt un po’ meno sex symbol e sempre più attore e di una Cate Blanchett che si conferma intensa, magnetica e sensibile protagonista femminile. Una favola originale e fantastica quanto «vera», costruita con la lucidità visionaria di Eric Roth, già sceneggiatore di Forrest Gump, e con l’abilità immaginativa del regista David Fincher il quale a partire da Seven e passando per Fight Club, ci ha abituato alle storie inconsuete e non scontate. In genere il tallone d’Achille di questo regista è stata in passato la tendenza a non padroneggiare fino in fondo la materia fantastica con risultati a volte discontinui. In questo caso, invece, Fincher ha creato un’opera che emoziona profondamente dall’inizio alla fine, come il danzare delle foglie nei primi freddi dell’autunno, nel giallo sfolgorante della loro ultima meravigliosa livrea, che se ne va lieve ad ogni soffio di vento.

curioso caso