Recensione: L’OROLOGIO CHE ANDAVA ALL’INDIETRO – La relatività del tempo nel

20 02 2009

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«I giorni dell’uomo son come l’erba;
egli fiorisce come il fiore dei campi;
se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più
e non si riconosce più il luogo dov’era.» (Salmi 103, 15-16)

 

Che cosa sono i giorni dell’uomo? E’ la domanda che risuona nella mente dello spettatore dopo i titoli di coda. Continua a riproporsi, evocata nella miriade di fotogrammi e storie, l’immagine delle generazioni che si susseguano come foglie autunnali, insieme quella di New Orleans – la città dove è ambientata la vicenda – la quale sta per essere travolta dall’uragano Katrina. Allora anche il vecchio orologio della sua stazione ferroviaria, che scandisce il tempo al contrario, per far tornare indietro i minuti nella speranza di poter così riparare gli errori degli uomini, si fermerà per sempre.
A New Orleans la storia umana sta per essere travolta da «un’onda di mar commosso», ma la memorabile avventura di Benjamin Button merita di essere ricordata a costo di giocare a rimpiattino con la morte ancora per qualche ora o forse solo pochi minuti. Anche se questo è il destino dell’uomo, egli è un essere affascinante e tenace che non smette mai di lottare, di cercare, di amare.
La strana storia di Benjamin (Brad Pitt), nato vecchio e via via diventato giovane, percorrendo la strada inversa rispetto a tutti gli altri, mostra come forse l’uomo dovrebbe sentirsi una volta giunto nel mondo: con la morte vicina compagna di strada e la capacità di considerare ogni nuovo giorno come un regalo insperato dell’esistenza, a fronte di una fine ritenuta imminente quanto certa.
Il titolo del film ricorda certe novelle di Edgar Allan Poe perché la storia comincia come potrebbe iniziare un suo racconto dell’orrore. Ma se l’esordio evoca il «mostro», circondato da creature dall’aspetto caricaturale, nel corso della narrazione sono ben altre le domande ricorrenti sullo spirito e sulla sua reale forza, l’apparenza e la realtà. Ogni cosa è breve sogno nella vita umana, eppure è ugualmente straordinaria. L’uomo crea la sua magia dibattendosi nel breve tempo che precede la sua scomparsa, eppure continua a produrre il suo perenne canto del cigno. Il più bello, il più ricco e d’infinita varietà che mai si sia veduto e ascoltato.

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Colpisce la fragilità dell’essere umano e il suo miracolo, il fatto che ci si possa incontrare anche solo per poco tempo e che in quei brevi momenti risieda la grandezza di tutta una vita e il suo senso. E’ la struggente bellezza di ciò che muore, perché questa è la sua natura. Ogni cosa è bella proprio nella sua fuggevole realtà, perché così è la sua vita, dura un attimo e in quell’istante dà il meglio di sé. Come la piccola vita del colibrì, animale simbolo di questo film, il quale, se le sue ali si fermassero, morirebbe in poco tempo. La sua magia, per chi lo guarda, può durare solo un attimo, perché il suo volo, poi, si perde lontano. L’anima del colibrì dovrebbe essere il nostro cuore, che non si risparmia fino all’ultimo battito d’ali.
Ciò che appare una sventura spesso diventa in punto di forza, veicolo privilegiato da cui più si apprende; ciò che sembra una nostra limitazione diventa la strada tracciata che porta verso altre mete e altri traguardi, compreso quello di conoscere il mondo e di capire ciò che si agita nel cuore dell’uomo. Così gli ultimi attimi di vita di Daisy (Cate Blanchett), pieni di un dolore quasi insopportabile, vissuti insieme all’imminente rovina della sua città, sono quelli in cui la figlia scopre di lei tutto ciò che non aveva mai saputo, le sue radici e la vera storia d’amore con suo padre. Ma anche Daisy dal diario di Benjamin che non aveva mai avuto il cuore di leggere, scoprirà come quell’uomo l’avesse amata ancora più profondamente di quanto avesse potuto immaginare.
Tutto scorrerà via, ma solo all’apparenza, perché esistono amori e legami che né la lontananza né il sovrapporsi di altre esperienze potranno spezzare. L’eternità dell’uomo nello spirito e nelle sue inspiegabili permanenze sono gli elementi che lo pongono a contatto con una più alta concezione dell’essere, qualcosa che va oltre la morte stessa.
Prevale la sensazione che si possa pensare alla morte come ad una quotidiana compagna dell’esistenza, e che, attraverso essa, la vita appaia anche più vera e straordinaria, ricca di una commozione costante. Nel film non assistiamo né alla smania di voler vivere ad ogni costo chissà quali forti emozioni (quasi per bruciare il tempo) né alla disperazione della perdita; semplicemente ci accompagna l’emozionante malinconia di assaporare quello che viene, sapendo che vive solo in quell’attimo, ma è comunque un miracolo che quell’istante esista.
Un film, che si avvale dell’interpretazione di un Brad Pitt un po’ meno sex symbol e sempre più attore e di una Cate Blanchett che si conferma intensa, magnetica e sensibile protagonista femminile. Una favola originale e fantastica quanto «vera», costruita con la lucidità visionaria di Eric Roth, già sceneggiatore di Forrest Gump, e con l’abilità immaginativa del regista David Fincher il quale a partire da Seven e passando per Fight Club, ci ha abituato alle storie inconsuete e non scontate. In genere il tallone d’Achille di questo regista è stata in passato la tendenza a non padroneggiare fino in fondo la materia fantastica con risultati a volte discontinui. In questo caso, invece, Fincher ha creato un’opera che emoziona profondamente dall’inizio alla fine, come il danzare delle foglie nei primi freddi dell’autunno, nel giallo sfolgorante della loro ultima meravigliosa livrea, che se ne va lieve ad ogni soffio di vento.

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